Lev Nikolàevič Tolstoj

Da Sotto le querce.
« Se si ammette che la vita umana possa essere guidata dalla ragione, si distrugge la possibilità stessa della vita. »
Lev Nikolàevič Tolstòj, in russo: Лев Николаевич Толстой, (Jàsnaja Poljana, 9 settembre 1828 – Astàpovo, 20 novembre 1910), è stato uno scrittore, filosofo, educatore e attivista sociale russo. Divenuto celebre in patria grazie ad una serie di racconti giovanili sulla realtà della guerra, il nome di Tolstoj acquisì presto risonanza mondiale per il successo dei romanzi Guerra e pace e Anna Karenina, a cui seguirono altre sue opere narrative sempre più rivolte all'introspezione dei personaggi ed alla riflessione morale. La fama di Tolstoj è legata anche al suo pensiero pedagogico, filosofico e religioso, da lui espresso in numerosi saggi e lettere che ispirarono, in particolare, la condotta non-violenta dei tolstoiani e del Mahatma Gandhi.
Lev Nikolàevič Tolstòj, in russo: Лев Николаевич Толстой, (Jàsnaja Poljana, 9 settembre 1828 – Astàpovo, 20 novembre 1910), è stato uno scrittore, filosofo, educatore e attivista sociale russo. Divenuto celebre in patria grazie ad una serie di racconti giovanili sulla realtà della guerra, il nome di Tolstoj acquisì presto risonanza mondiale per il successo dei romanzi Guerra e pace e Anna Karenina, a cui seguirono altre sue opere narrative sempre più rivolte all'introspezione dei personaggi ed alla riflessione morale. La fama di Tolstoj è legata anche al suo pensiero pedagogico, filosofico e religioso, da lui espresso in numerosi saggi e lettere che ispirarono, in particolare, la condotta non-violenta dei tolstoiani e del Mahatma Gandhi.

Guerra e pace

1965-69

Tolstoj guerra.jpg

incipitEh bien, mon prince, Gênes et Lucques ne sont plus que des apanages, dei dominî de la famille Buonaparte. Non, je vous préviens que si vous ne me dites pas que nous avons la guerre, si vous vous permettez encore de pallier toutes les infamies, toutes les atrocités de cet Antichrist (ma parole, j’y crois), je ne vous connais plus, vous n’êtes plus mon ami, vous n’êtes plus il mio fedele schiavo, comme vous dites. Su via, buona sera, buona sera. Je vois que je vous fais peur, sedete e raccontate.

Così parlava nel luglio dell’anno 1805 la nota Anna Pàvlovna Scerer, damigella d’onore e familiare dell’imperatrice Mària Fiòdorovna, accogliendo il grave dignitario e principe Vasili, giunto per primo alla sua serata. Anna Pàvlovna tossiva da alcuni giorni, aveva la grippe, come diceva (grippe era allora una parola nuova, usata solo da pochi). In tutti i bigliettini mandati la mattina per mezzo di un domestico in livrea rossa era stato scritto, senza far differenza:

«Si vous n’avez rien de mieux à faire, M. le comte (o mon prince), et si la perspective de passer la soirée chez une pauvre malade ne vous effraye pas trop, je serai charmée de vous voir chez moi entre 7 et 10 heures. Annette Scherer».

incipitEh bien, mon prince, Gênes et Lucques ne sont plus que des apanages, dei dominî de la famille Buonaparte. Non, je vous préviens que si vous ne me dites pas que nous avons la guerre, si vous vous permettez encore de pallier toutes les infamies, toutes les atrocités de cet Antichrist (ma parole, j’y crois), je ne vous connais plus, vous n’êtes plus mon ami, vous n’êtes plus il mio fedele schiavo, comme vous dites. Su via, buona sera, buona sera. Je vois que je vous fais peur, sedete e raccontate.

Così parlava nel luglio dell’anno 1805 la nota Anna Pàvlovna Scerer, damigella d’onore e familiare dell’imperatrice Mària Fiòdorovna, accogliendo il grave dignitario e principe Vasili, giunto per primo alla sua serata. Anna Pàvlovna tossiva da alcuni giorni, aveva la grippe, come diceva (grippe era allora una parola nuova, usata solo da pochi). In tutti i bigliettini mandati la mattina per mezzo di un domestico in livrea rossa era stato scritto, senza far differenza:

«Si vous n’avez rien de mieux à faire, M. le comte (o mon prince), et si la perspective de passer la soirée chez une pauvre malade ne vous effraye pas trop, je serai charmée de vous voir chez moi entre 7 et 10 heures. Annette Scherer».

Voleva decidersi, ma sentiva con spavento che in questa circostanza gli veniva meno la risolutezza che sapeva di possedere e che in effetti possedeva. Pierre apparteneva a quel genere di persone che sono forti solo quando si sentono assolutamente pure. E, dal giorno in cui s’era impadronita di lui quella sensazione di desiderio che aveva provato nel salotto di Anna Pavlovna, mentre era chino a esaminare la tabacchiera, la sensazione di colpevolezza che gli dava quel suo impulso incontrollato paralizzava la sua risolutezza.


Il movimento concentrato, che era iniziato il mattino presso il quartier generale degli imperatori e aveva messo in moto tutto il resto, assomigliava al primo movimento del bilanciere di un grande orologio da torre. Una ruota si mette lentamente in moto, un’altra la segue, poi una terza; le ruote cominciano a girare sempre più in fretta, e così le carrucole, i perni. Cominciano a battere le ore, a balzar fuori le figure, e lentamente le lancette prendono a spostarsi, come risultato del moto generale. Come nel meccanismo di un orologio, così nel meccanismo di un’operazione militare il movimento una volta avviato è inarrestabile e le parti della macchina non ancora entrate in funzione sono inerti e indifferenti fino a un istante prima della trasmissione del movimento. Le ruote gemono sugli assi, ingranando con i loro denti; le pulegge cigolano per la velocità della rotazione, eppure la ruota vicino è tranquilla e immobile come se intendesse conservare per centinaia d’anni quell’immobilità; ma giunge il momento: una leva l’aggancia, e sottomettendosi al movimento la ruota crepita, comincia a girare, si fonde in un’unica azione, il cui risultato e il cui scopo sono per essa incomprensibili. Come nell’orologio il risultato del complesso movimento delle innumerevoli differenti ruote e pulegge non è altro che il lento e misurato movimento della lancetta che indica il tempo, così anche il risultato di tutti i complessi movimenti umani di quei centosessantamila russi e francesi - di tutte le passioni, i desideri, i pentimenti, le umiliazioni, le sofferenze, gli slanci di orgoglio, di paura, di entusiasmo di quegli uomini - non fu che lo svolgersi della battaglia di Austerlitz, della cosiddetta battaglia dei tre imperatori, ossia un lento spostarsi della lancetta storico-mondiale sul quadrante della storia dell’umanità.


«Eh, mon cher vicomte,» interloquì Anna Pavlovna, «l’Urope (chissà perché pronunciava l’Urope, come se fosse una particolare finezza della lingua francese che lei poteva permettersi quando parlava con un francese), l’Urope ne sera jamais notre alliée sincère


Per la prima volta, in quell’assemblea, Pierre fu colpito dall’infinita varietà degli intelletti umani, la quale fa sì che nessuna verità appaia in modo eguale a due persone diverse.


«Pierre aveva ragione dicendomi che per essere felici bisogna credere anzitutto nella possibilità di esserlo: io adesso ci credo. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti, ma fin quando si è vivi, bisogna vivere ed essere felici,» pensava. [Il principe Andrej]


Negli eventi storici i cosiddetti grandi uomini sono le etichette che danno il nome a un dato evento, e che, proprio come le etichette, meno di ogni altra cosa hanno un preciso rapporto con l’evento. Ogni azione compiuta da costoro, e che ad essi sembra un atto di libero arbitrio, in senso storico è tutt’altro che arbitraria, ma viene a trovarsi in connessione con tutto il corso della storia ed è predestinata ab aeterno.


Pfühl era uno di quegli individui disperatamente, incrollabilmente sicuri di se stessi, sicuri fino al martirio, come lo sanno essere solamente i tedeschi, e questo proprio perché solo i tedeschi possono essere sicuri di sé sulla base di un’idea astratta, com’è la dottrina, cioè la pseudo-conoscenza della verità assoluta. Il francese può sentirsi sicuro di sé perché si crede personalmente, sia per doti fisiche che d’intelletto, irresistibile e affascinante, di fronte agli uomini come alle donne. L’inglese è sicuro di sé perché è cittadino del paese meglio ordinato del mondo; perciò, in quanto inglese, sa sempre ciò che deve fare, e sa che tutto ciò che fa, in quanto inglese, non può che esser ben fatto. L’italiano è sicuro di sé perché è irrequieto ed esaltabile, e facilmente si dimentica di se stesso e degli altri. Il russo è sicuro di sé perché non sa e non vuol sapere nulla, nella persuasione che nulla si può sapere. Il tedesco è sicuro di sé nel peggiore dei modi, nel modo più disgustoso e inesorabile, perché è ciecamente convinto di sapere la verità: una scienza, cioè, da lui stesso elaborata, ma che per lui è il vero assoluto.


«Comunque,» disse, «si dice pure che la guerra è simile a una partita a scacchi. «Sì,» disse il principe Andrej, «ma con la piccola differenza che a scacchi puoi pensare quanto vuoi a ogni passo, che sei fuori delle condizioni del tempo, e ancora con la differenza che il cavallo è sempre più forte del pedone e due pedoni sempre più forti di uno solo, mentre in guerra certe volte un battaglione è più forte di una divisione, e altre volte più debole di una compagnia. Il rapporto di forza delle truppe non può essere noto ad alcuno. Credimi,» proseguì, «che se dipendesse dalle disposizioni degli stati maggiori, io sarei là a dare delle disposizioni; ma invece ho l’onore di servire qui, in un reggimento, con questi signori, e ritengo che il domani dipenderà effettivamente da noi e non da loro... Il successo non è mai dipeso e non dipenderà mai né dalla posizione, né dall’armamento, né dal numero, ma, in ogni caso, men che mai dalla posizione.» «E da che cosa, allora?» «Dal sentimento che c’è in me, in lui,» e indicò Timochin, «in ogni soldato.» Il principe Andrej diede un’occhiata a Timochin che guardava sbigottito e perplesso il suo comandante. Contrariamente alla sua controllata taciturnità di prima il principe Andrej sembrava adesso commosso. Evidentemente non aveva saputo trattenersi dall’esprimere quei pensieri che gli erano venuti in mente tutt’a un tratto. «La battaglia la vince chi ha fermamente deciso di vincerla. Perché abbiamo perso la battaglia ad Austerlitz? Le nostre perdite erano quasi pari a quelle francesi, ma noi ci siamo detti troppo presto che avevamo perso la battaglia, e l’abbiamo persa. E l’abbiamo detto, perché non avevamo ragione di batterci: il nostro desiderio era di andarcene al più presto dal campo di battaglia. Già che s’è perso, scappiamo! e così siamo scappati. Se non avessimo detto questo prima di sera, lo sa Dio che cosa sarebbe successo. Ma domani non lo diremo. Tu dici: la nostra posizione, il fianco sinistro è debole, il fianco destro è troppo esteso,» proseguì, «tutte queste sono sciocchezze, tutto questo non esiste. Ma che cosa ci si aspetta domani? Cento milioni dei casi più diversi, che saranno risolti in un istante dal fatto che sono scappati o che scapperanno i francesi o i nostri, che uccideranno questo o quest’altro; ma quello che si fa adesso è tutto un gioco. Il fatto è che coloro coi quali sei andato a vedere la posizione non soltanto non cooperano all’andamento generale delle cose, ma lo ostacolano. Essi sono preoccupati solamente dei loro piccoli interessi.»


Per studiare le leggi della storia dobbiamo sostituire completamente l’oggetto della nostra indagine, lasciare in pace i re, i ministri e i generali, e studiare quegli elementi omogenei e infinitesimali che condizionano il comportamento delle masse. È impossibile prevedere quanto lontano si possa andare su questa strada di comprensione delle leggi della storia; ma è evidente che solo su di essa si trova la possibilità di cogliere tali leggi, e la mente umana non ha ancora impiegato in questa direzione una milionesima parte degli sforzi che gli storici hanno impiegato per descrivere le imprese dei vari re, condottieri e ministri e per esporre le loro considerazioni in merito alle imprese stesse.


Se in quel momento la principessina Mar’ja fosse stata in grado di pensare, ancora più di M.lle Bourienne si sarebbe stupita del cambiamento che in lei s’era prodotto. Da quando le era apparso quel simpatico, amabile viso, una nuova energia vitale si era impossessata di lei, costringendola a parlare e ad agire indipendentemente dalla sua volontà. Dall’istante in cui era entrato Rostov, il volto le si era improvvisamente trasfigurato. Con la stessa inattesa e stupefacente bellezza con cui accendendo una luce dentro una lanterna dipinta e arabescata, sulle pareti si palesa quel complicato, squisito lavoro artistico che finora sembrava rozzo, oscuro e senza senso, così, improvvisamente, s’era trasfigurato il volto della principessina Mar’ja. Per la prima volta s’era palesato all’esterno tutto quel limpido lavorio interiore, spirituale, di cui era vissuta fino a quel momento. Tutto quell’intimo lavorio interiore, mai soddisfatto di sé, le sue sofferenze, l’aspirazione al bene, la mitezza, l’amore, l’abnegazione, tutto questo risplendeva adesso in quegli occhi radiosi, nel delicato sorriso, in ogni tratto del suo viso delicato. Rostov poté scorgere tutto questo così chiaramente, come se avesse conosciuto ogni intimo particolare della vita di lei. Sentì che la creatura che gli stava di fronte era assolutamente diversa, assolutamente migliore di tutte quelle che finora aveva avuto modo d’incontrare e, anzitutto, migliore di lui stesso.


si soffre un’ora, si vive un secolo!


Quanto più, in quelle ore di penosa solitudine e di semincoscienza trascorse dopo la ferita, aveva riflettuto al nuovo principio dell’amore eterno che gli s’era svelato, tanto più, senza avvedersene s’era venuto distaccando dalla vita terrena. Amare tutto, tutti, sacrificare in ogni momento se stesso per l’amore: voleva dire non amare nessuno, voleva dire non vivere di questa vita terrena. E quanto più egli si compenetrava in quel principio d’amore, tanto più rinunciava alla vita, e tanto più radicalmente distruggeva quella terribile barriera che sta, se non c’è l’amore, fra la vita e la morte. [Il principe Andrej]


L’assenza di sofferenze, il soddisfacimento dei bisogni della vita e, come conseguenza, la libertà di scegliere le proprie occupazioni, ossia il proprio modo di vita, apparivano a Pierre, adesso, come l’indubbia e suprema felicità dell’uomo. Soltanto adesso, in quel luogo, Pierre aveva pienamente apprezzato, per la prima volta, il piacere di mangiare quando aveva voglia di mangiare, di bere quando aveva voglia di bere, di dormire quando aveva voglia di dormire, di stare al caldo quando aveva freddo, di conversare con qualcuno quando aveva voglia di parlare e di ascoltare una voce umana. Il soddisfacimento dei bisogni – cibo buono, pulizia, libertà – sembrava a Pierre, adesso che era privo di tutto questo, un’assoluta felicità, e scegliere le sue occupazioni, ossia il suo modo di vivere, adesso che tale scelta era così limitata, gli sembrava tanto facile da fargli dimenticare che l’eccesso delle comodità della vita distrugge ogni felicità connessa al soddisfacimento dei bisogni, e che la massima libertà di scelta delle occupazioni, quella libertà che nella vita gli era venuta dall’istruzione, dalla ricchezza, dalla posizione sociale, è proprio ciò che rende la scelta delle occupazioni così insolubilmente difficile e finisce col distruggere il bisogno e la possibilità stessa di trovare un’occupazione.


In prigionia, dentro la baracca, Pierre aveva imparato, non con l’intelligenza ma con tutto il suo essere, che l’uomo è creato per la felicità, che la felicità è in lui, nel soddisfacimento dei naturali bisogni umani, e che tutta l’infelicità non deriva dalla mancanza, ma dalla troppa abbondanza; ma ora, in quelle ultime tre settimane di marcia, aveva appreso una nuova confortante verità, aveva scoperto che nella vita non c’è nulla di terribile. Aveva scoperto che non esiste nel mondo una situazione in cui l’uomo sia felice e completamente libero, così come non esiste una situazione nella quale sia infelice e del tutto privo della libertà. Aveva scoperto che c’è un limite alla sofferenza e un limite alla libertà e che questo limite non è affatto lontano; che l’uomo che nel suo letto di rose soffriva perché un petalo si era gualcito, soffriva esattamente come soffriva lui ora, addormentandosi sulla terra nuda e umida, gelando un lato del corpo e scaldando l’altro; che quando calzava le sue strette scarpe da ballo soffriva proprio come ora che camminava completamente scalzo (da tempo le scarpe erano andate in pezzi) con i piedi coperti di piaghe. Aveva scoperto che quando, credendo di agire secondo la propria volontà, si era sposato non era più libero di quel che fosse ora, rinchiuso per la notte in una scuderia. Di tutto ciò che in seguito ricordò come sofferenza, ma che allora quasi non avvertiva, l’essenziale erano i piedi, nudi, scorticati, piagati. (La carne di cavallo era gustosa e nutriente, l’odore di salnitro della polvere da sparo, usata invece del sale, era persino piacevole; un gran freddo non c’era, e di giorno, in marcia, faceva sempre caldo, e di notte c’erano i falò; i pidocchi, mangiandolo, gli riscaldavano il corpo.) Una cosa sola al principio era dura da sopportare: i piedi.


Sebbene i dottori lo curassero, gli estraessero sangue e gli dessero da inghiottire delle medicine, ciò nonostante guarì lo stesso.


Se si ammette che la vita umana possa essere guidata dalla ragione, si distrugge la possibilità stessa della vita.


Il potere, dal punto di vista dell’esperienza, è soltanto un rapporto di dipendenza tra l’espressione della volontà di una persona e l’esecuzione di questa volontà da parte degli altri uomini.

Anna Karenina

1877

Tolstoj karenina.jpg

incipitTutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

Tutto era sottosopra in casa Oblonskij. La moglie era venuta a sapere che il marito aveva una relazione con la governante francese che era stata presso di loro, e aveva dichiarato al marito di non poter più vivere con lui nella stessa casa. Questa situazione durava già da tre giorni ed era sentita tormentosamente dagli stessi coniugi e da tutti i membri della famiglia e dai domestici. Tutti i membri della famiglia e i domestici sentivano che non c’era senso nella loro convivenza, e che della gente incontratasi per caso in una qualsiasi locanda sarebbe stata più legata fra di sé che non loro, membri della famiglia e domestici degli Oblonskij. La moglie non usciva dalle sue stanze; il marito era già il terzo giorno che non rincasava. I bambini correvano per la casa abbandonati a loro stessi; la governante inglese si era bisticciata con la dispensiera e aveva scritto un biglietto ad un’amica chiedendo che le cercasse un posto; il cuoco se n’era già andato via il giorno prima durante il pranzo; sguattera e cocchiere avevano chiesto di essere liquidati.

incipitTutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

Tutto era sottosopra in casa Oblonskij. La moglie era venuta a sapere che il marito aveva una relazione con la governante francese che era stata presso di loro, e aveva dichiarato al marito di non poter più vivere con lui nella stessa casa. Questa situazione durava già da tre giorni ed era sentita tormentosamente dagli stessi coniugi e da tutti i membri della famiglia e dai domestici. Tutti i membri della famiglia e i domestici sentivano che non c’era senso nella loro convivenza, e che della gente incontratasi per caso in una qualsiasi locanda sarebbe stata più legata fra di sé che non loro, membri della famiglia e domestici degli Oblonskij. La moglie non usciva dalle sue stanze; il marito era già il terzo giorno che non rincasava. I bambini correvano per la casa abbandonati a loro stessi; la governante inglese si era bisticciata con la dispensiera e aveva scritto un biglietto ad un’amica chiedendo che le cercasse un posto; il cuoco se n’era già andato via il giorno prima durante il pranzo; sguattera e cocchiere avevano chiesto di essere liquidati.

Le donne che cantavano si avvicinarono a Levin ed egli si sentì come avviluppato in una nuvola sonora che invase tutta la prateria. Egli provò un senso d'invidia per quella sana allegria e avrebbe voluto prender parte a quella manifestazione di gioia della vita. Quando la gente si fu allontanata e sparì dalla sua vista e non si udì più il canto, Levin fu preso da una grave malinconia per la sua solitudine, per il suo ozio fisico, per quell'incompatibilità che sentiva fra sé e quel mondo.

Quegli stessi contadini coi quali aveva litigato e che aveva rimproverati per la loro intenzione d'ingannarlo, ora lo salutavano allegramente senza rancore e senza rimorso. Il lavoro comune aveva cancellato tutto: nel lavoro stesso era la ricompensa di tutte le fatiche.

Levin aveva spesso ammirato quella vita, spesso aveva provato un sentimento d'invidia verso la gente che viveva quella vita, ma ora per la prima volta, specialmente perché si trovava sotto l'impressione dei rapporti che aveva indovinati tra Ivan Parmenov e la sua giovane moglie, gli si presentò chiaro alla mente il pensiero che dipendeva da lui di mutare la penosa, oziosa, artificiale, egoistica vita che egli menava con quella vita laboriosa, pura, fraterna, magnifica.

Il vecchio, che gli era stato seduto accanto, da un pezzo era andato a casa: tutta la gente s'era dispersa. Quelli che abitavano vicino erano tornati a casa: quelli che stavano lontano s'erano riuniti per la cena e poi si sarebbero sdraiati nel prato per la notte. Levin, senza essere notato, seguitò a starsene sul suo mucchio di fieno a guardare, ascoltare e pensare. La gente rimasta nel prato dormì poco in quella breve notte d'estate. Si udivano allegre chiacchiere e risate durante la cena, poi di nuovo canzoni e risate. Tutta la lunga giornata di fatica non aveva lasciato dietro di sé che allegria. All'avvicinarsi dei primi albori tutto tacque. Si udiva soltanto il gracidare incessante delle rane nelle paludi e lo sbuffare dei cavalli per la prateria, nella nebbia che si levava su in quell'ora che precedeva l'alba. Risvegliatosi da quella semiincoscienza, Levin si alzò e, guardando le stelle, capì che il giorno era vicino.

La sonata a Kreutzer

1889

Tolstoj sonata.jpg

incipitLa primavera era appena iniziata. Viaggiavamo già da due giorni. Nel vagone andavano e venivano viaggiatori che percorrevano tragitti brevi, ma vi erano tre passeggeri che, come me, erano saliti alla stazione di partenza del treno: una signora non bella e non più giovane, fumatrice, dall’espressione stanca, con un cappotto di taglio maschile e un berretto; un suo conoscente, uomo loquace, vicino alla quarantina, con tutte le valigie nuove e ben curate, e infine un signore, che si teneva in disparte, non molto alto, dai movimenti bruschi, non ancora vecchio ma con i capelli ricci diventati bianchi anzitempo, i cui occhi, incredibilmente brillanti, passavano rapidamente da un oggetto all’altro. Indossava un cappotto costoso e di buona fattura con il collo di agnellino persiano e un cappello alto dello stesso pelo. Sotto il cappotto, quando lo sbottonava, si intravedevano una giacchetta corta e una camicia ricamata tipicamente russa. La particolarità di questo signore consisteva soprattutto nel fatto che, di tanto in tanto, emetteva degli strani suoni, simili a raschiamenti di gola o all’accenno di una risata, subito interrotta.
incipitLa primavera era appena iniziata. Viaggiavamo già da due giorni. Nel vagone andavano e venivano viaggiatori che percorrevano tragitti brevi, ma vi erano tre passeggeri che, come me, erano saliti alla stazione di partenza del treno: una signora non bella e non più giovane, fumatrice, dall’espressione stanca, con un cappotto di taglio maschile e un berretto; un suo conoscente, uomo loquace, vicino alla quarantina, con tutte le valigie nuove e ben curate, e infine un signore, che si teneva in disparte, non molto alto, dai movimenti bruschi, non ancora vecchio ma con i capelli ricci diventati bianchi anzitempo, i cui occhi, incredibilmente brillanti, passavano rapidamente da un oggetto all’altro. Indossava un cappotto costoso e di buona fattura con il collo di agnellino persiano e un cappello alto dello stesso pelo. Sotto il cappotto, quando lo sbottonava, si intravedevano una giacchetta corta e una camicia ricamata tipicamente russa. La particolarità di questo signore consisteva soprattutto nel fatto che, di tanto in tanto, emetteva degli strani suoni, simili a raschiamenti di gola o all’accenno di una risata, subito interrotta.

Proprio in ciò consiste la porcheria più grossa, – esclamò – la depravazione non è nell’atto fisico, dato che nessun atto fisico, per quanto disdicevole, è depravazione; la depravazione, la vera depravazione, è nel liberare se stessi da qualsiasi rapporto affettivo verso la donna con la quale si ha un rapporto fisico. E questa liberazione era per me un motivo di vanto.


È incredibile che totale illusione sia il ritenere che il bello sia il bene. Una bella donna dice delle sciocchezze: tu ascolti e non senti delle sciocchezze, ma delle cose intelligenti. Lei parla, commette volgarità e tu ci vedi qualcosa di dolce. Quando poi non dice né sciocchezze né volgarità, ma è bella, allora ti convinci che è un miracolo di intelligenza e di moralità.


Soltanto noi uomini non lo sappiamo e non lo sappiamo perché non vogliamo saperlo; le donne sanno benissimo che l’amore più elevato, più poetico, come lo definiamo noi, non dipende dalle qualità morali, ma dalla vicinanza fisica e perfino dalla pettinatura, dal colore, dal taglio dell’abito. Chiedete a un’esperta civetta che ha deciso di sedurre un uomo che cosa è disposta a rischiare più facilmente: di essere accusata, in presenza di lui, di essere crudele, perfino viziosa, oppure di apparire davanti a lui in un abito brutto, che le sta male? Preferirà sicuramente la prima cosa. Lei sa che l’uomo mente quando parla di sentimenti elevati: a lui interessa solo il corpo, ecco perché perdona qualsiasi bassezza ma non perdona un abito fatto male, di cattivo gusto, di un brutto colore. Una civetta ne è conscia, ma qualsiasi ragazza innocente lo sa inconsciamente, come sanno gli animali.

Ecco dunque il perché di questi tessuti in jersey, di questi terribili sbuffi sul sedere, di queste spalle e braccia nude, a volte quasi il seno nudo. Le donne, soprattutto quelle che sono passate per la scuola degli uomini, sanno molto bene che i discorsi su argomenti elevati sono solo discorsi, mentre all’uomo serve il corpo e tutto ciò che lo mette in evidenza nella luce più brillante e si comporta di conseguenza. Se infatti lasciamo da parte solo l’abitudine a questo vizio, che è diventata la nostra seconda natura, e guardiamo la vita delle nostri classi più elevate così com’è, in tutta la sua vergogna, ecco che appare come un’unica casa di tolleranza. Non siete d’accordo? Permettetemi di dimostrarvelo. – mi precedette – Voi sostenete che le donne della nostra società vivono con altri interessi, diversi da quelli delle donne delle case di tolleranza; io vi dico di no e ve lo dimostro. Se le persone avessero scopi diversi nella vita, avrebbero un concetto interiore della vita diverso, allora questa diversità dovrebbe riflettersi anche sull’aspetto esterno e l’aspetto esterno ne farebbe la diversità. Ma guardate quelle povere sventurate, disprezzate da tutti, e le donne dell’alta società: gli stessi abiti, gli stessi modelli, gli stessi profumi, nello stesso modo scoprono spalle, braccia, seni e portano rigonfiamenti sul sedere, la stessa passione per le pietre preziose, per le cose costose e luccicanti, gli stessi divertimenti, balli, canti e musica. Così come le prime utilizzano ogni mezzo, così fanno le seconde. Non c’è differenza. Volendo proprio ben vedere, si può solo dire che le prostitute a breve termine vengono disprezzate, quelle a lungo termine godono invece di un generale apprezzamento».