Mohandas K. Gandhi

Da Sotto le querce.
Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma (Porbandar, 2 ottobre 1869 – Nuova Delhi, 30 gennaio 1948) è stato un politico, filosofo e avvocato indiano. Importante guida spirituale per il suo paese, lo si conosce soprattutto col nome di Mahatma (in sanscrito महात्मा, "grande anima"), appellativo che gli fu conferito per la prima volta dal poeta Rabindranath Tagore. Un altro suo soprannome è Bapu, che in hindi significa "padre".
Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma (Porbandar, 2 ottobre 1869 – Nuova Delhi, 30 gennaio 1948) è stato un politico, filosofo e avvocato indiano. Importante guida spirituale per il suo paese, lo si conosce soprattutto col nome di Mahatma (in sanscrito महात्मा, "grande anima"), appellativo che gli fu conferito per la prima volta dal poeta Rabindranath Tagore. Un altro suo soprannome è Bapu, che in hindi significa "padre".

La mia vita per la libertà

L'autobiografia del profeta della non-violenza.

1972

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incipitGandhi appartengono alla casta dei Banja ed in origine sembra fossero speziali. Ma per tre generazioni, cominciando con mio nonno, essi furono Primi Ministri in vari Stati del Kathiawad. Utamchand Gandhi, alias Ota Gandhi, mio nonno, deve essere stato un uomo tutto d’un pezzo: per intrighi di Stato fu costretto a lasciare “Porbandar” dove era Diwan per rifugiarsi a Junagadh; quando lì egli salutò il Nawab con la mano sinistra, qualcuno, rilevando l’apparente scortesia, gli chiese una spiegazione, che fu la seguente: «La mano destra l’oh già impegnata a Porbandar».
Ota Gandhi si risposò una seconda volta, essendogli morta la prima moglie, ed ebbe quattro figli dalla prima moglie e due dalla seconda. Durante la mia infanzia non credo di aver mai sospettato o saputo che i figli di Ota Gandhi non fossero tutti figli della stessa madre. Il quinto dei sei fratelli era Karamchand Gandhi, alias Kaba Gandhi, ed il sesto Tulsidas Gandhi. Ambedue questi fratelli furono Primi Ministri a Porbandar, in successione; Kaba Gandhi era mio padre.
incipitGandhi appartengono alla casta dei Banja ed in origine sembra fossero speziali. Ma per tre generazioni, cominciando con mio nonno, essi furono Primi Ministri in vari Stati del Kathiawad. Utamchand Gandhi, alias Ota Gandhi, mio nonno, deve essere stato un uomo tutto d’un pezzo: per intrighi di Stato fu costretto a lasciare “Porbandar” dove era Diwan per rifugiarsi a Junagadh; quando lì egli salutò il Nawab con la mano sinistra, qualcuno, rilevando l’apparente scortesia, gli chiese una spiegazione, che fu la seguente: «La mano destra l’oh già impegnata a Porbandar».
Ota Gandhi si risposò una seconda volta, essendogli morta la prima moglie, ed ebbe quattro figli dalla prima moglie e due dalla seconda. Durante la mia infanzia non credo di aver mai sospettato o saputo che i figli di Ota Gandhi non fossero tutti figli della stessa madre. Il quinto dei sei fratelli era Karamchand Gandhi, alias Kaba Gandhi, ed il sesto Tulsidas Gandhi. Ambedue questi fratelli furono Primi Ministri a Porbandar, in successione; Kaba Gandhi era mio padre.

Ricordavo il consiglio datomi dal signor Pincutt (ora defunto): nelle questioni legali conoscere i fatti significa trovarsi a tre quarti del cammino, principio che fu ampiamente avvalorato da quel famoso avvocato sud-africano, l’oggi defunto signor Leonard. Durante una certa causa affidatami mi resi conto che benché la giustizia doveva favorire il mio cliente, la legge gli era contraria; disperato andai a chiedere aiuto a Leonard. Fu anche lui del parere che i fatti della vertenza erano molto importanti, ed esclamò: «Gandhi, ho imparato una cosa, e cioè che se si bada ai fatti la legge segue il suo giusto corso. Immergiamoci ancora più profondamente nei fatti di questo problema».

Con quelle parole mi chiedeva di studiare la situazione più a fondo e di tornare poi a trovarlo. Riesaminando i fatti li vidi in una luce completamente nuova e mi capitò anche di scovare una vecchia causa sud africana che verteva sulle stesse questioni. Ne fui soddisfattissimo e andai da Leonard a dirgli tutto. «Bene», disse, «vinceremo la causa. Solo dobbiamo stare a vedere con che giudice capitiamo». Mentre preparavo la causa di Dada Abdulla, non mi ero reso pienamente conto della importanza che hanno i fatti; essi corrispondono alla verità, e quando ci si attiene alla verità, la legge ci viene in aiuto automaticamente. Mi convinsi che i fatti nella causa di Dada Abdulla erano molto chiari e che per forza la legge doveva dargli ragione. Ma capii anche che se si fosse protratta, la lite avrebbe rovinato sia l’attore che il convenuto, parenti e originari della stessa città: nessuno poteva prevedere quanto sarebbe durato il processo, se si fosse arrivati a trattarlo in sede giudiziale poteva continuare all’infinito e non dar ragione a nessuno dei due contendenti, perciò ambedue desideravano che la causa fosse definita al più presto.

Mi recai da Tyeb Sheth e gli richiesi e gli consigliai di ricorrere all’arbitrato. Gli suggerii di parlare con il suo avvocato, gli dissi che se si nominava un arbitro che godesse della fiducia dei due litiganti, la causa si sarebbe risolta velocemente. Le parcelle degli avvocati si stavano moltiplicando così rapidamente che da sole bastavano a divorare tutti i redditi dei clienti, per grandi commercianti che fossero, e la causa li occupava a tale punto da non lasciargli più tempo da dedicare ad altro. Intanto andava aumentando il rancore reciproco. La professione mi disgustò: come avvocati, i difensori delle due parti erano tenuti a riesumare norme di legge che dessero ragione ai loro rispettivi clienti. Appresi anche per la prima volta che la parte vincente non recupera mai tutte le spese sostenute, e le tariffe professionali applicabili in giudizio prevedevano una scala fissa di compensi da valere nei rapporti fra le due parti in causa, ma l’avvocato poteva pretendere nei confronti del proprio cliente un compenso molto più elevato. Era troppo, capii che era mio dovere diventare amico delle due parti e portarle ad una riconciliazione, feci tutto il mio possibile per arrivare ad un compromesso. Finalmente Tyeb Sheth acconsentì. Fu nominato un arbitro, la causa fu discussa in sua presenza e Dada Abdulla la vinse.

Ma non ero ancora soddisfatto. Se il mio cliente avesse richiesto l’immediata esecuzione della sentenza, sarebbe stato impossibile a Tyeb Sheth versare in totale la somma stabilita e fra i Meman di Porbandar che vivevano in Sud Africa esisteva la tacita legge che era preferibile la morte alla bancarotta. Era impossibile che Tyeb Sheth pagasse in contanti tutta la somma di circa 37.000 sterline più le spese, ma era sua intenzione non versare nemmeno un soldo di meno di quanto doveva e non voleva essere dichiarato fallito. Vi era una sola via d’uscita: Dada Abdulla gli doveva permettere di pagare a piccole rate. Egli seppe farsi onore e concesse a Tveb Sheth delle rate scaglionate in un periodo molto lungo. Per me fu più difficile riuscire ad ottenere quella concessione di pagamenti a rate, che convincere le parti ad accettare l’arbitrato. Ma tutti e due furono contenti dei risultati e salirono nella stima dell’opinione pubblica. La mia soddisfazione fu grandissima, avevo imparato ad esercitare legge, avevo imparato a scoprire la parte migliore della natura umana e anche a toccare il cuore degli uomini. Mi resi conto che la vera funzione dell’avvocato consiste nel riappacificare i contendenti che si scagliavano l’uno contro l’altro. Imparai così bene questa lezione che dedicai la maggior parte del mio tempo durante i vent’anni che esercitai l’avvocatura a raggiungere la pacificazione privata di centinaia di casi. Non vi rimisi niente nemmeno soldi e certamente non la mia anima.

Esperienze d’insegnamento

32. Esperienze d’insegnamento

Members of the Tolstoy Farm created by Gandhi in South-Africa, 1910. Center: Gandhi and Dr. Hermann Kallenbach. The photographer is unknown and the photo is more than 70 years old.
Spero che il lettore vorrà tenere presente che qui racconto fatti che nella storia del Satyagraa in Sud Africa non ho citato, o ho citato solo di sfuggita; se così farà gli sarà facile capire il nesso fra gli ultimi capitoli.

La fattoria cresceva e si dovettero prendere dei provvedimenti per l’educazione dei ragazzi e delle ragazze, fra cui vi erano ragazzi indù, musulmani, parsi e cristiani e delle ragazze indù. Non era possibile, e d’altra parte non lo ritenevo necessario, assumere per loro insegnanti qualificati; non era possibile in quanto gli insegnanti indiani qualificati scarseggiavano, e anche se ne avessimo trovati, nessuno di loro avrebbe acconsentito a venire in un posto distante ventun miglia da Johannesburg per uno stipendio misero. Noi d’altra parte non avevamo abbondanza di danaro e quindi non ritenevo necessario far venire degli insegnanti da fuori. Non avevo fiducia nei sistemi educativi del momento e volevo arrivare, tentando e sperimentando, al metodo giusto. Sapevo per certo che una vera educazione può essere impartita solo dai genitori e nelle condizioni idonee, e che l’aiuto esterno doveva essere ridotto al minimo, e siccome la fattoria Tolstoi era una famiglia di cui io ero il padre, dovevo accollarmi per quanto possibile la responsabilità dell’educazione dei giovani.

Il concetto senza dubbio faceva qualche grinza, i ragazzi non erano cresciuti con me sin dall’infanzia, erano stati allevati in condizioni e in ambienti diversi e non erano della stessa religione. Come potevo, in tali circostanze, comportarmi con giustizia anche facendo il pater familias?

Avevo sempre dato la precedenza all’educazione spirituale e alla formazione del carattere e poiché ritenevo possibile dare a tutti indistintamente la stessa educazione spirituale, indipendentemente dall’età e dal modo in cui erano cresciuti, decisi di vivere fra i ragazzi ventiquattro ore al giorno, come se fossi il loro padre. Consideravo la formazione del carattere la giusta base su cui costruire l’educazione; ero sicuro che, se le fondamenta erano solide, i ragazzi avrebbero imparato tutto il resto da sé o con l’aiuto di amici.

Ma rendendomi conto che ci voleva anche un’educazione letteraria, formai delle classi con l’aiuto di Kallenbach e del Sjt. Pragji Desal. Nel contempo però non trascurai lo sviluppo fisico degli allievi, che faceva parte del loro programma giornaliero. Dato che alla fattoria non avevamo personale di servizio, tutti i lavori, da quelli di cucina alle pulizie, venivano fatti dagli ospiti. C’erano poi molti alberi da frutta da curare e parecchi lavori da fare in giardino.

A Kallenbach piaceva il giardinaggio, si era fatto una certa pratica lavorando nei giardini modello statali. Tutti quelli che non lavoravano in cucina avevano l’obbligo di dedicare un po’ di tempo al giardino; i bambini qui facevano la parte del leone, scavavano buche, tagliavano la legna e trasportavano pesi. Era una buona ginnastica e quei lavori li divertivano e così non era necessario far fare loro altro moto o altri giochi. Naturalmente succedeva che alcuni oppure tutti si dessero ammalati per scansare il lavoro. A volte mi rendevo complice delle loro birichinate, ma spesso mi dimostravo severo. Certo non gli garbava la mia severità, ma non ricordo che si siano mai ribellati. Quando dovevo essere severo li convincevo con dati di fatto che non era giusto scherzare col proprio lavoro. La loro convinzione però non durava a lungo, infatti un momento dopo lasciavano di nuovo il lavoro per andare a giocare. Comunque si andava avanti e i ragazzi si svilupparono bene. Alla fattoria non c’erano quasi malattie; bisogna dire però che era merito anche dell’aria sana, dell’acqua pura e dei pasti regolari.

Una parola sull’istruzione professionale: intendevo insegnare a tutti i ragazzi un utile lavoro manuale. Kallenbach andò in un monastero trappista a far pratica come calzolaio, mestiere che a mia volta imparai da lui e insegnai ai ragazzi che ne avevano attitudine; Kallenbach aveva poi una certa esperienza di lavori di falegnameria, di cui anche un altro ospite era pratico, così fu possibile formare una piccola classe di falegnameria. Quasi tutti i ragazzi sapevano cucinare.

Tutto questo costituiva una novità per i ragazzi, non avevano mai immaginato che un giorno avrebbero imparato queste cose: di solito in Sud Africa gli scolari indiani imparavano solo a leggere, scrivere e far di conto.

Alla fattoria Tolstoi era regola non chiedere agli alunni di fare quel che non facevano gli insegnanti stessi, quindi, quando si diceva loro di fare un qualsiasi lavoro, essi avevano sempre la collaborazione dell’insegnante, che lavorava accanto a loro, di conseguenza imparavano con gioia.

Parleremo ancora, nei prossimi capitoli, dell’educazione letteraria e della formazione del carattere.

33. L’educazione letteraria

Tolstoy farm created by Gandhi and surroundings. Source: http://www.dinodia.com/photos/MKG-32938.jpg
Nel capitolo precedente abbiamo visto come curavamo alla fattoria Tolstoi l’educazione fisica dei ragazzi, e quando possibile anche l’istruzione professionale. Benché non fossi del tutto soddisfatto del metodo educativo, posso affermare che si dimostrò abbastanza efficace.

L’educazione letteraria invece era un osso più duro. Io non basi dell’apparato letterario necessario e non potevo poi dedicare a questa materia il tempo che ci sarebbe voluto. Il lavoro fisico che svolgevo mi lasciava completamente sfinito alla sera e di solito dovevo occuparmi dell’insegnamento proprio quando avevo bisogno di riposare; perciò anziché arrivare arzillo in classe, riuscivo a malapena a stare sveglio. Il mattino lo dedicavo ai lavori nella fattoria e agli impegni domestici, all’insegnamento dedicavo le ore dei pomeriggio, dato che non rimaneva altro tempo.

L’educazione letteraria constava di tre corsi al massimo. Insegnavamo l’indù, il tamil, il gujarati e l’urdu, che i ragazzi imparavano nella loro lingua nativa.

Insegnavamo anche l’inglese. Era poi opportuno che i ragazzi indù del Gujarat imparassero un po’ di sanscrito e che tutti facessero storia, geografia e aritmetica.

Io mi ero assunto l’insegnamento dei tamil e dell’urdu. Il poco tamil che sapevo l’avevo imparato nei miei viaggi e in carcere. Non ero andato oltre l’ottimo manuale tamil di Pope. Tutto quello che sapevo della scrittura urdu l’avevo appreso durante un viaggio, e la mia conoscenza della lingua si riduceva alle poche parole di uso corrente in persiano e arabo che avevo imparato da amici musulmani. Di sanscrito non sapevo più di quel che avevo imparato alle scuole superiori, e anche la mia conoscenza del gujarati era del tutto scolastica.

Questo era il capitale di cui dovevo vivere, e in quanto a scarsità di cognizioni letterarie i miei colleghi non avevano nulla da invidiarmi. Tuttavia l’amore per le lingue del mio Paese, la fiducia nelle mie qualità pedagogiche, l’ignoranza dei miei allievi e più ancora la loro generosità mi furono di grande aiuto. I ragazzi tamil erano nati tutti in Sud Africa e perciò conoscevano ben poco la loro lingua, che non sapevano scrivere; dovetti perciò insegnar loro la scrittura e i rudimenti di grammatica. Fu abbastanza facile. I miei allievi sapevano di potermi battere regolarmente nella conversazione tamil e quando mi venivano a trovare dei tamil che non sapevano l’inglese essi mi facevano da interpreti. Tiravo avanti allegramente, anche perché non cercai mai di nascondere la mia ignoranza, e sotto tutti i punti di vista mi mostrai a loro quale realmente ero, perciò nonostante le mie colossali lacune in quella materia non mi tolsero mai il loro amore ed il loro rispetto.

Relativamente più facile fu l’insegnamento dell’urdu ai ragazzi musulmani, dato che conoscevano la scrittura; il mio compito fu solo di stimolare in loro l’interesse per la lettura e di migliorare un po’ la loro calligrafia.

Quei ragazzi erano per la maggior parte analfabeti e non avevano avuto alcuna istruzione. Svolgendo la mia opera mi accorsi però che avevo poco da fare oltre a scuoterli dalla loro pigrizia e sorvegliare i loro studi. Soddisfatto di questo, potei quindi mettere ragazzi di età diverse, che imparavano materie diverse, in un’unica classe.

Non soffrii mai la mancanza dei libri di testo, di cui tanto si parla, anzi non ricordo di avere usato mai molto nemmeno quelli che avevamo; secondo me non era affatto necessario sopraffare i ragazzi con i libri, il vero libro di testo per un ragazzo deve essere il suo insegnante. Ricordo ben poco di quanto i miei maestri mi insegnarono dai libri, ma ancora oggi ho un vivo ricordo di quello che mi insegnarono e che in essi non era scritto.

I ragazzi apprendono di più e con minore fatica con le orecchie che con gli occhi. Non ricordo di aver mai letto un intero libro insieme ai miei allievi, ma ho trasmesso loro con parole mie quanto avevo assimilato dalle mie svariate letture e penso che essi ne conservino ancora il ricordo. Imparavano con difficoltà dai libri, mentre ripetevano facilmente quanto insegnavo loro oralmente. La lettura era per loro un compito arduo, invece mi ascoltavano con piacere, sempreché non li annoiassi perché non ero riuscito a rendere interessante l’argomento. E dalle domande che mi facevano potevo valutare quanto avevano capito.

34. Come si educa lo spirito

Tolstoy farm created by Gandhi and surroundings. Source: http://www.dinodia.com/photos/MKG-32937.jpg
L’educazione spirituale dei ragazzi era molto più difficile di quella fisica ed intellettuale. Avevo poca fiducia nei testi sacri, per quanto concerneva l’educazione spirituale. Ritenevo naturalmente che ogni studente dovesse conoscere gli elementi base della sua religione e avere una conoscenza generale delle scritture, e a questo scopo mi adoperai come meglio potei, ma a mio giudizio questo faceva parte dell’educazione intellettuale. Molto tempo prima di occuparmi dell’educazione dei giovani alla fattoria Tolstoi, mi ero reso conto che l’educazione spirituale è una cosa a sé stante. Sviluppare lo spirito significa formare un carattere e mettere l’individuo in condizione di aspirare alla conoscenza di Dio ed alla realizzazione di se stesso. Sostenevo quindi che questo era essenziale nell’educazione dei giovani e che l’educazione quando non coltiva lo spirito è inutile, se non addirittura dannosa.

Conosco bene la credenza secondo la quale l’auto-realizzazione si raggiunge soltanto nel quarto stadio della vita, cioè con il sannyasa (la rinuncia). Tutti sanno però che chi rimanda la preparazione di questa esperienza di valore inestimabile all’estremo stadio della vita, non arriva all’auto-realizzazione bensì ad una senilità simile ad una seconda pietosa infanzia e sopravvive su questa terra come un peso morto. Ricordo benissimo che sostenevo questa tesi già quando insegnavo, cioè nel 1911-12, anche se probabilmente non mi esprimevo negli stessi termini.

Allora come si deve impartire l’educazione spirituale? Ai ragazzi facevo imparare a memoria e recitare degli inni, inoltre leggevo loro passi da libri sull’educazione morale, però non ero affatto contento.

A mano a mano che li conobbi meglio, mi convinsi che l’educazione spirituale non la si può imparare sui libri: così come l’educazione fisica viene impartita con l’esercizio fisico e all’educazione della mente si arriva per mezzo dell’esercizio intellettuale, l’educazione spirituale è possibile soltanto esercitando lo spirito, esercizio del tutto subordinato al tipo di vita ed al carattere dell’insegnante. A mio giudizio l’insegnante deve sempre controllare il suo modo di esprimersi ed il suo comportamento, e non solo quando è con i suoi allievi.

Un insegnante può influenzare con il suo modo di vivere l’animo dei suoi allievi anche a miglia di distanza. Sarebbe impensabile che io, se fossi un bugiardo, insegnassi ai ragazzi a dire la verità: un insegnante vigliacco non riuscirà mai ad insegnare il coraggio ai suoi allievi, così come uno che non conosce l’autocontrollo non potrà mai insegnarne il valore. Mi resi conto, dunque, che dovevo in ogni momento essere di esempio ai ragazzi che vivevano con me. Così essi diventarono i miei maestri ed io imparai ad essere buono e a vivere rettamente, se non altro per amor loro; posso affermare che la maggiore disciplina ed il controllo che mi imposi alla fattoria Tolstoi, me li imposi soprattutto a causa di questi miei allievi.

Uno di loro era selvaggio, indisciplinato, bugiardo e litigioso. Un giorno ebbe un violento scoppio d’ira, che mi esasperò: io non punivo mai i miei ragazzi, ma quella volta ero arrabbiatissimo. Cercai di farlo ragionare, ma era duro come la pietra e tentava anche di prendermi in giro. Alla fine afferrai un righello che mi era a portata di mano e lo colpii su un braccio. Colpendolo, tremavo; probabilmente lui, se ne accorse, e questa era un’esperienza del tutto nuova per tutti loro.

Il ragazzo pianse e chiese perdono. Non piangeva per il dolore; infatti, se avesse voluto, avrebbe potuto ripagarmi di ugual moneta, essendo un robusto giovane di diciassette anni; si era reso conto del dolore che avevo provato nel dover ricorrere a questo violento rimedio. Dopo questo incidente non mi disobbedì mai più. Ma io sono ancora pentito dell’atto di violenza commesso.

Ahimè, quel giorno ho messo a nudo non la mia anima, ma la parte brutale che è in me.

Sono sempre stato contrario alle punizioni corporali, e solo una volta, ricordo, arrivai a punire corporalmente uno dei miei figli. Perciò ancora oggi non so se ho fatto bene o male ad adoperare il righello.

Probabilmente il mio fu un gesto ingiusto, perché provocato dall’ira e dal desiderio di punire; lo giustificherei se fosse stata una manifestazione della mia pena, ma vi fu un duplice movente.

Questo incidente mi fece riflettere e mi aiutò a elaborare un metodo più appropriato per correggere gli studenti. Non so però se questo metodo sarebbe servito quella volta. Il ragazzo dimenticò ben presto e mi pare che non ricominciò più, io invece compresi meglio i doveri dell’insegnante verso i discepoli. Dopo questo vi furono altri casi di indisciplina, però non ricorsi più alle punizioni corporali. Così, sforzandomi di dare ai ragazzi un’educazione spirituale, imparai a capire sempre meglio la forza dell’animo umano.

35. Le cattive influenze

Fu alla fattoria Tolstoi che Kallenbach mi indusse a riflettere su un problema cui prima non avevo mai pensato. Come ho detto, alcuni ragazzi della fattoria erano cattivi e indisciplinati; fra di loro c’erano anche dei fannulloni. I miei tre ragazzi, e altri simili a loro, erano ogni giorno in contatto con questi elementi; ciò dava fastidio a Kallenbach, che però aveva fissato la sua attenzione sul fatto che i figli miei vivessero a contatto con quei ragazzi indisciplinati. Un giorno mi disse francamente: «Non mi piace il tuo sistema di tenere i tuoi ragazzi insieme agli altri. Il risultato non può essere che uno, cioè che i tuoi figli verranno corrotti dalla cattiva compagnia».

Non ricordo se al momento la frase mi abbia messo in imbarazzo, ma rammento quello che risposi a Kallenbach: «Come posso fare una distinzione fra i miei figli e i fannulloni? Sono responsabile per tutti nella stessa misura. I ragazzi sono venuti qui perché li ho invitati io, se li mandassi via dando loro del danaro, se ne scapperebbero subito a Johannesburg e ricadrebbero nei vecchi vizi. Per dire la verità, probabilmente essi ed i loro tutori ritengono di aver riversato su di me una grossa responsabilità. Tu ed io sappiamo molto bene che qui essi debbono sopportare molti disagi. Il mio dovere però è chiaro: io devo tenerli e perciò i miei figli devono per forza vivere con loro, e certo tu non approveresti che io insegnassi oggi ai miei figli a sentirsi superiori agli altri ragazzi; li fuorvierei, se inculcassi loro in testa un tal senso di superiorità.

Questa vita in comune con altri sarà per loro una buona disciplina, impareranno da soli a distinguere il bene dal male. Perché non credere che se in loro c’è veramente del buono, essi possano influenzare positivamente i loro compagni?

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Comunque sia, non posso fare a meno di tenerli qui e debbo espormi al rischio, se rischio c’è». Kallenbach scosse il capo. Non credo che il risultato sia stato negativo, reputo che i miei figli non ci abbiano rimesso, anzi mi pare che ne abbiamo tratto dei vantaggi. Se prima erano pervasi da un anche minimo senso di superiorità, non ne rimase più traccia ed essi impararono a vivere assieme a bambini di tutte le condizioni. Superarono la prova ed impararono la disciplina.

Questo esperimento ed altri di questo genere mi hanno dimostrato che se i bambini buoni vengono educati insieme a bambini cattivi facendo vita comune, non avranno nulla da perdere, sempreché l’esperimento avvenga sotto la vigile sorveglianza dei genitori o dei tutori.

I bambini cresciuti nella bambagia non sempre resistono alle tentazioni o alle influenze negative. D’altra parte è vero che i genitori e gli insegnanti hanno un compito difficile quando devono educare insieme ragazzi e ragazze di estrazioni diverse. E’ bene che stiano costantemente all’erta.

36. Digiuno come penitenza

Di giorno in giorno mi appariva sempre più chiaramente la difficoltà di allevare ed educare rettamente ragazzi e ragazze. Dovevo riuscire a toccare loro il cuore, per diventare realmente il loro insegnante e tutore. Dovevo spartire con loro gioie e dolori, aiutarli a risolvere i loro problemi e infine dare un giusto indirizzo alle loro giovanili aspirazioni.

Scarcerati alcuni di quelli che avevano partecipato al Satyagraha, alla fattoria Tolstoi rimasero ben pochi ospiti. I pochi rimasti per lo più erano di Phoenix, perciò li spedii laggiù dove scoppiò un fatto gravissimo.

In quei giorni dovevo spostarmi fra Johannesburg e Phoenix. Mentre ero a Johannesburg venni informato che due ospiti dell’Ashram avevano commesso una grave colpa. Se mi avessero detto che il Satyagraha era fallito ne sarei stato meno scosso: la notizia mi colpì come un fulmine. Il giorno stesso presi il treno per Phoenix. Kallenbach volle accompagnarmi, essendosi accorto dello stato in cui mi trovavo. Non voleva che partissi solo, dato che era stato poi lui a darmi la notizia che mi aveva tanto sconvolto.

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Durante il viaggio compresi quale fosse il mio dovere: capii che il tutore o l’insegnante è almeno in parte responsabile per gli errori commessi dal discepolo, mi apparve perciò chiara come la luce del sole la mia parte di responsabilità nell’incidente. Mia moglie mi aveva già messo in guardia, ma poiché sono per natura fiducioso, non avevo dato peso al suo avvertimento. Pensai che l’unico modo perché i colpevoli si rendessero conto del mio dolore e della gravità della colpa da loro commessa fosse che io facessi penitenza, perciò m’imposi un digiuno di sette giorni e feci voto di fare un solo pasto al giorno per un periodo di quattro mesi e mezzo. Kallenbach cercò invano di dissuadermi; alla fine convenne che la penitenza era necessaria ed insistette per unirsi a me.

Non potei oppormi a questa sua evidente manifestazione di affetto. Mi sentii molto sollevato, la mia decisione mi aveva tolto un gran peso dal cuore: la mia collera contro i colpevoli svanì, dando luogo alla più sincera pietà. Così sollevato arrivai a Phoenix, dove feci indagini per chiarire particolari per me importanti.

La mia penitenza addolorò tutti, ma rasserenò l’atmosfera. Tutti capirono quanto è terribile peccare e il legame fra me e i ragazzi divenne ancora più forte e più sincero.

Poco tempo dopo una nuova conseguenza di questo incidente mi costrinse a un digiuno di quattordici giorni, il cui risultato morale superò ogni mia aspettativa.

Non desidero con questo concludere che è dovere dell’insegnante ricorrere al digiuno ad ogni mancanza dei suoi discepoli, sostengo però che qualche caso particolare richiede questo rimedio drastico, che presuppone chiarezza di idee forza d’animo. Quando non vi è vero affetto fra maestro e discepolo, quando la colpa del discepolo non ha toccato il cuore del maestro e quando il discepolo non lo rispetta, allora il digiuno è inutile e può persino nuocere. Si può mettere in dubbio l’utilità del digiuno in questi casi, è invece indiscutibile la responsabilità del maestro per gli errori dei suoi discepoli.

La prima penitenza non fu difficile per nessuno ed io non ebbi bisogno di rimandare o sospendere le mie normali attività. Debbo ricordare che durante tutto il periodo di penitenza mi nutrii soltanto di frutta. L’ultima parte del secondo periodo di penitenza fu invece piuttosto dura per me, non avevo compreso appieno la meravigliosa efficacia del Ramanama e perciò la mia sopportazione era minore, inoltre non conoscevo la tecnica del digiuno, soprattutto non sapevo che è necessario bere moltissima acqua, per quanto si possa trovarla nauseante e disgustosa. Data la facilità con cui avevo sopportato il primo digiuno, avevo affrontato il secondo con una certa leggerezza. Durante il primo. ogni giorno facevo i bagni Kuhne; durante il secondo, invece, li interruppi dopo due o tre giorni, e bevevo poca acqua, dato che mi disgustava e mi dava la nausea. Avevo la gola riarsa e indebolita e negli ultimi giorni riuscivo a parlare solo a voce bassissima. Nonostante ciò sbrigavo il mio lavoro e dettavo le lettere necessarie, ascoltavo regolarmente la lettura del Ramayana e degli altri testi sacri, e trovavo anche la forza necessaria per esaminare tutte le questioni urgenti e per dare consigli.