Internazionale - Tutta un’altra carne

Da Sotto le querce.

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Heike Buchter, Nina Pauer e Marcus Rohwetter, Die Zeit, Germania. Foto di Allezhopp Studio.

1 novembre 2019


Le preoccupazioni per il clima e per la sofferenza degli animali stanno accelerando la transizione verso le alternative alla carne. Le multinazionali dell’alimentazione sono pronte ad approfittarne.


Lungo la strada verso una società senza carne, la macelleria Fleishers sembra una di quelle fermate d’autobus in mezzo al nulla. Situata nella zona di Park Slope, nel quartiere newyorkese di Brooklyn, è una delle prime “macellerie etiche” del paese. Ogni animale macellato da Fleischers ha vissuto all’aperto e ha mangiato erba e fieno invece di mangimi industriali pieni di ormoni e antibiotici.

Ovviamente l’etica ha un prezzo. Già dall’esterno, con i suoi pannelli in legno nero, il negozio ricorda una gioielleria. All’interno le pareti sono rivestite con sobrie mattonelle bianche, nelle vetrine refrigerate la carne è adagiata su carta da macelleria nera ed è guarnita con foglie di cavolo riccio per far risaltare il rosso. Tutti i commessi indossano camicie nere. Su richiesta del cliente, tirano fuori i vassoi di sierra steak e denver steak venate di grasso per farle esaminare più da vicino, come fossero anelli di fidanzamento. “È per un barbeque? Che ne dice della picanha?”, chiede un commesso indicando un taglio di coscia di manzo. Di certo la grigliata non sarà economica: un chilo costa 48 dollari, ben 40 euro.

In un mondo in cui i supermercati vendono mezzo chilo di cotolette di maiale a poco più di tre euro, il concetto di macelleria etica sembra fuori dal tempo. Eppure potrebbe rivelarsi lungimirante, perché anticipa un futuro in cui la carne di manzo, maiale e pollame tornerà a essere un alimento speciale, una prelibatezza costosa.

Questo futuro potrebbe farsi più vicino. “La produzione di carne così come la conosciamo è al capolinea”, sostiene la società di consulenza internazionale A. T. Kearney. Nel 2040 solo il 40 per cento della carne venduta in tutto il mondo proverrà da animali vivi. La stragrande maggioranza di bistecche, wurstel e polpette sarà sostituita da imitazioni vegetali o da carne sintetica prodotta dall’industria biotecnologica.

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Le preoccupazioni per il clima stanno accelerando il cambiamento. Secondo la fondazione Heinrich Böll, l’industria della carne e del latte è responsabile del 14 per cento delle emissioni di anidride carbonica. Anche gli allevamenti intensivi sono contestati da gran parte dei consumatori, che però per il momento non rinunciano alla carne. Non si può ancora affermare con certezza che la società porterà a compimento la svolta annunciata dagli esperti. Ma se lo facesse potremmo evitare di emettere quantità enormi di gas serra. Milioni di animali da allevamento soffrirebbero meno. E un esiguo numero di multinazionali agricole, ancora sconosciute ai più, diventerebbe più potente che mai.

La svolta è già cominciata. Aziende come la Beyond Meat, per esempio, producono hamburger a partirte da una purea di piselli. Questo sostituto della carne è sempre più diffuso nei ristoranti e nelle mense di tutto il mondo. Negli Stati Uniti la catena di fast food Burger King vende l’Impossible Whopper, realizzato con proteine vegetali. Quasi ogni settimana aziende alimentari come la Nestlé mettono in commercio nuovi sostituti vegetali della carne, come l’Incredible Hack. Dai nomi dei prodotti sembra quasi che le aziende stesse sperino in un miracolo. E la prossima generazione di sostituti della carne sarà ancora più futuristica.

Il sogno di Churchill

Rehovot è un sobborgo nella periferia di Tel Aviv, in Israele. Al terzo piano di un edificio nei pressi della stazione c’è un frigorifero. Al suo interno sono adagiate, in vasetti trasparenti, le bistecche di domani. Sono ancora invisibili all’occhio, composte solo di cellule staminali bovine. Ma se si mettono in un brodo di coltura, maturano fino a diventare un pezzetto di carne.

“La nostra tecnologia permette di coltivare un tessuto tridimensionale fatto di cellule di muscoli, grassi, tessuti connettivi e vasi sanguigni”, spiega la biologa Neta Lavon. Lavon è responsabile della ricerca alla Aleph Farms, una startup impegnata nello sviluppo della carne sintetica. Le persone che lavorano in questo settore si chiamano meat growers, coltivatori di carne. “Winston Churchill scriveva che un giorno ci sarebbe sembrato assurdo allevare un pollo intero per mangiarne solo il petto e la coscia”, dice Lavon. Per i ricercatori quel giorno è arrivato. “In teoria, dalle cellule staminali di una singola mucca possiamo produrre tutta la carne che vogliamo”, dice la scienziata. A dicembre del 2018 l’Aleph Farms ha fatto cucinare i primi prototipi di bistecca – ciascuno un po’ più piccolo di una carta di credito e spesso mezzo centimetro – e li ha serviti ai suoi ospiti. Lavon ha brindato con un bicchiere di vino rosso. Su YouTube si può guardare l’intera scena.

I laboratori dell’azienda ricordano uno studio medico. Ci sono frigoriferi e incubatori per batteri accanto a microscopi, e dispenser di guanti in gomma e aghi da siringa. Dei miscelatori agitano liquidi arancioni in recipienti di vetro. Possiamo ancora parlare di produzione alimentare o è già medicina?

Anche altre aziende israeliane, come la SuperMeat, la Future Meat Technologies e la BioFood Systems, sviluppano carne coltivata in laboratorio. Secondo i sondaggi in Israele i vegani sono il 5 per cento della popolazione, una percentuale molto alta rispetto al resto del mondo. Ormai perfino l’esercito israeliano fornisce ai suoi soldati razioni vegane, baschi senza lana e scarponi non in pelle. Lavon, però, chiarisce che la sua azienda non si rivolge a vegani e vegetariani, “ma a tutti quelli che vogliono semplicemente ridurre il consumo di carne convenzionale. Ed è la gran parte della popolazione”.

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Produrre una piccola bistecca costa appena 50 dollari, spiega Lavon. Un enorme passo avanti se si pensa che il primo hamburger artificiale, presentato dallo scienziato olandese Mark Post nel 2013, costava 250mila dollari. L’hamburger, che era fatto solo di fibre muscolari, era stato finanziato da Sergey Brin, cofondatore di Google. All’epoca una bistecca sintetica era fantascienza. Figuriamoci una che costasse 50 dollari. E la produzione su scala industriale potrebbe far scendere il prezzo ancora di più.

L’Aleph Farms sostiene di aver superato anche la critica di fondo mossa da molti animalisti alla coltura di cellule staminali, che non riguarda le cellule ma il terreno di coltura in cui crescono. Per anni i ricercatori di tutto il mondo hanno usato il cosiddetto siero fetale bovino, che secondo un rapporto dell’associazione Ärzte gegen Tierversuche (Medici contro la sperimentazione animale) viene ottenuto senza garantire il rispetto dell’animale: “Subito dopo la macellazione di una mucca gravida, il feto viene estratto dall’utero. Mentre è ancora vivo gli viene infilato un ago direttamente nel cuore e gli viene aspirato tutto il sangue, finché muore”. L’Aleph Farms sostiene di aver eliminato tutti gli elementi animali dal terreno di coltura.

L’azienda ha in programma di rifornire i primi ristoranti fra tre anni e mezzo, quando la produzione funzionerà a pieno regime e le autorità per la sicurezza alimentare avranno concesso l’autorizzazione. E quando sarà chiaro quale nome dovrà comparire sul menù. Carne di laboratorio? Carne etica? Carne coltivata? O qualcosa di completamente diverso?

Perché questi prodotti s’impongano sul mercato, però, c’è bisogno di un’altra svolta: quella nelle abitudini dei consumatori. Entrando in qualunque osteria della campagna tedesca si trovano persone che mangiano insieme: genitori e figli, giovani coppie e pensionati. Ordinano cotolette con patatine fritte, bistecche di tacchino con crocchette, roastbeef con remoulade. Nei parchi urbani i bambini saltellano impazienti intorno alle griglie su cui arrostiscono wurstel. In un più costoso ristorante italiano, marito e moglie festeggiano il loro anniversario con del carpaccio di manzo. Dopo il lavoro i colleghi si ritrovano nelle hamburgherie, e lungo le strade pedonali vengono preparati gli spiedi per i kebab. Al discount c’è il macinato in offerta, al chioschetto vendono currywurst e le carrozze ristoranti dei treni servono gulash.

La carne a cui tutti siamo abituati, la vecchia carne normale, è dappertutto. Per la maggior parte delle persone è scontato consumarla: come spuntino, come piatto tradizionale o come sfizio. È simbolo di amorevolezza, di sincerità e tradizioni locali, ma anche di lusso. La carne unisce le generazioni, e piace sempre, ieri come oggi.

Certo, l’ambiente e il clima starebbero meglio se si mangiasse meno carne. Ma questo argomento basta a convincere i carnivori? Non è forse vero che ogni partito politico che osa proporre delle limitazioni al consumo della carne perde migliaia di elettori? La rivoluzione della carne è solo l’idea fissa di un’élite fuori dalla realtà?

Con il suo bestseller La verità, vi prego, sull’alimentazione (Vallardi 2019), il giornalista scientifico Bas Kast è diventato un’autorità in materia. Seguendo i suoi consigli, migliaia di persone hanno sostituito il latte di mucca con il latte d’avena o hanno scoperto le lenticchie con le verdure. Kast è una di quelle persone in grado di trasformare la normalità. “Per quel che riguarda la carne, noto un evidente cambiamento nelle abitudini”, dice. Perfino i fan assoluti della carne si sono spinti a provare alternative come gli hamburger della Beyond Meat. Solo una cosa dovrebbe essere evitata: i divieti troppo rigidi e il moralismo. “È come per i trasporti”, spiega Kast. “Puoi predicare alla gente di abbandonare i suv. Oppure puoi fare come Elon Musk, e progettare un’auto elettrica fichissima”.

La sociologa Eva Barlösius, autrice del saggio Soziologie des Essens (Sociologia del mangiare), è molto più scettica. “Secondo me non sta succedendo nulla di nuovo”, dice. “L’alimentazione, e in particolare la carne, sono il classico tema su cui le società si confrontano con se stesse, con i loro valori e le loro norme”. Là dove c’è il potere, ci sono sempre anche la carne, il controllo delle grandi proprietà terriere, il diritto di cacciare gli animali. Un distacco dalla carne significherebbe anche un distacco dall’autorità.

Già nell’antichità i pitagorici usavano il vegetarianismo come protesta contro chi esercitava il potere ad Atene. Più tardi furono i protestanti e i pacifisti a voler sperimentare nuovi stili di vita, considerando la carne moralmente inferiore. Il bratling, l’antenato ottocentesco dell’hamburger vegetale, era fatto di fagioli e piselli invece che di tofu, ma era comunque il simbolo di un distacco consapevole. Queste ondate vegetariane però non sono mai riuscite a innescare un cambiamento nell’intera società. La novità oggi è che non sono solo i potenti a consumare carne in grande quantità, ma anche le classi meno abbienti. Arriveremo davvero a un abbandono generale? “Se davvero succederà, io non ci sarò per vederlo”, dice Barlösius.

Per passare alla fase decisiva l’argomento dev’essere politicizzato.
Per passare alla fase decisiva l’argomento dev’essere politicizzato.

Può una società smettere all’improvviso di fare una cosa che fa da sempre? Luise Tremel, trentasei anni, storica dell’università di Flensburg, cerca di capirlo. Tremel si occupa dei processi di interruzione, e con un modello a fasi descrive come può verificarsi la rottura. Il suo modello, spiega, può essere applicato a ogni processo di interruzione: la schiavitù, la pena di morte, l’uso di energia atomica. “Sul consumo di carne siamo ancora all’inizio”, dice. In un primo momento la società si osserva, per esempio discutendo su singole questioni apparentemente marginali: dobbiamo vietare lo sterminio dei pulcini maschi? Il vero dibattito sulla rinuncia alla carne si svolge ancora a tavola, nella sfera privata. Parenti, colleghi e amici si rimproverano a vicenda. I vegani moralisti si scontrano con l’ostinazione di una maggioranza. D’altra parte, il fatto che oggi quasi tutti i tedeschi possano permettersi prosciutto, bistecche e costolette è considerato un segno di giustizia sociale.

Per passare alla fase decisiva del cambiamento, il percorso verso la rinuncia, l’argomento dev’essere politicizzato, dice Tremel. “E non vedo nessuno che si sia dedicato in modo sincero al tema della carne. Nessuno fa proposte concrete per regolamentare il consumo e riunisce attorno a un tavolo quelli che sarebbero interessati a livello economico, cioè i rappresentanti dell’industria della carne”. Dopo il fallimento della proposta dei Verdi tedeschi di istituire un “veggie day” obbligatorio, nessuno osa più affrontare la questione. Almeno, nessun politico.

Cambio di strategia

Nel logo della Rügenwalder Mühle, un’azienda di Bad Zwischenahn, in Bassa Sassonia, due wurstel incrociati ruotano come le pale stilizzate di un mulino. Fino a cinque anni fa quest’azienda a conduzione familiare si occupava solo di prodotti animali. Poi il proprietario, Godo Röben, si è reso conto che la tendenza andava verso il mercato vegano, e da un giorno all’altro ha sacrificato le salsicce. L’impianto è stato riconvertito ai prodotti vegetali a base di soia, frumento e piselli. La nuova strategia ha già ripagato l’investimento: circa un terzo dei ricavi viene dalle alternative alla carne, e l’azienda è leader del settore in Germania.

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“Il vecchio sistema ha raggiunto i suoi limiti”, dice Röben. Negli anni sessanta gli allevatori adottarono la logica dei costruttori di automobili, che gestivano industrie, non manifatture, e che riducevano i costi attraverso la produzione intensiva. Da un momento all’altro gli allevatori cambiarono approccio e passarono da due maiali a venti e poi duecento. Per risparmiare spazio li stiparono nei capannoni, nutrendoli con alimenti energetici per farli ingrassare più velocemente. Poi il modello industriale fu applicato anche agli altri animali da allevamento. Oggi le multinazionali del pollame come l’Aviagen forniscono polletti da ingrasso rapido Ross 308 accompagnati da un manuale di istruzioni di 148 pagine. Da quando l’uovo si schiude, un pollo è pronto per la macellazione in appena sei settimane.

In Australia la Consolidated Pastoral Company ha 380mila bovini. Questo ranch gigantesco, distribuito in diverse proprietà, è più grande della Svizzera. L’azienda di lavorazione della carne Danish Crown, che secondo alcune stime è la più grande d’Europa, macella 21 milioni di maiali all’anno, cioè un maiale ogni secondo e mezzo. L’azienda cinese Yingzi Technology vuole usare i sistemi di riconoscimento facciale per monitorare lo stato di salute dei maiali, che negli allevamenti intensivi sono più soggetti alle malattie. Secondo gli analisti dell’olandese Rabobank solo nel 2019 in Cina sono stati abbattuti duecento milioni di maiali per tenere sotto controllo la diffusione della peste suina africana.

Anche per questo motivo, il titolare della Rügenwalder crede che il cambiamento sia inevitabile. “La svolta alimentare è importante quanto la svolta energetica o dei trasporti”, dice. Il motore a scoppio viene sostituito da quello elettrico, le centrali a carbone dalle energie rinnovabili, e anche l’industria alimentare dovrà adattarsi. “Tra un paio d’anni scopriremo chi riuscirà a trarre profitto da questi cambiamenti”, dice. E che faranno i macellai? Macelleranno cetrioli?

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L’industria della carne ha fiutato da tempo la minaccia. Lo scontro per decidere chi garantirà l’alimentazione umana dopo la rivoluzione della carne è già cominciato. L’allevamento, la macellazione e la lavorazione della carne rappresentano un giro d’affari da 400 miliardi di dollari all’anno, che è quanto le prime cento aziende mondiali dell’industria bellica ricavano dalla vendita di carri armati, aerei da combattimento, sottomarini e altri armamenti. E se la carne dovesse perdere importanza, chi ne trarrebbe vantaggio?

Nella cittadina di Wayzata, nel Minnesota, c’è la sede di un’impresa gigantesca ma poco nota al pubblico: la Cargill, la più grande azienda familiare del mondo. Tra i discendenti del suo fondatore William W. Cargill, morto nel 1909, si contano oggi quattordici miliardari. La famiglia è il clan imprenditoriale più ricco di tutti gli Stati Uniti. La sua ricchezza non deriva dal petrolio o dal gas, ma dagli alimenti per animali.

Oggi quasi metà delle piante coltivate in tutto il mondo viene usata come foraggio per gli animali da allevamento: circa un miliardo di suini, 1,5 miliardi di bovini e 22 miliardi di polli e tacchini. Secondo le stime delle organizzazioni non governative, più di due terzi del commercio mondiale di cereali e semi oleosi è controllato da quattro multinazionali: le statunitensi Archer Daniels Midland, Bunge e Cargill e l’olandese Louis Dreyfus Company.

Questo quartetto, noto con la sigla Abcd, possiede silos, raffinerie, frantoi, navi e impianti in tutto il mondo, e guadagna non solo con gli alimenti per animali, ma anche con tutto ciò che ha a che fare con le colture: frumento, soia, mais, semi di girasole, cacao, fecola, fruttosio, colza, semi di lino, oli vegetali e perfino biodiesel. Senza l’Abcd, produttori alimentari come la Nestlé o la Unilever non avrebbero le materie prime da cui ricavare pizze surgelate, margarina o sughi pronti. Senza queste multinazionali, gli scaffali dei supermercati sarebbero vuoti.

Se la rivoluzione della carne dovesse davvero rendere superflui milioni di animali da allevamento, non sarebbe un problema per questi colossi. Certo, perderebbero alcuni dei loro principali clienti, ma in compenso potrebbero controllare tutta la filiera dei prodotti sostitutivi: dal silo per cereali al piatto pronto. Perché correre dietro ai suini, se i cereali si possono vendere direttamente ai consumatori?

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Da un monopolio all’altro

La Cargill si sta già preparando alla svolta. Nel gennaio del 2018 ha avviato una collaborazione con la Puris, il principale distributore degli hamburger vegetali della Beyond Meat. Secondo l’agronoma di Greenpeace Stephanie Töwe-Rimkeit, “i grandi attori, i commercianti di cereali e semi oleosi, vogliono avere sul mercato alternativo la stessa influenza e lo stesso controllo che hanno avuto finora nel settore dei mangimi per animali”.

Nel 2017 la Cargill ha acquistato una quota dell’azienda californiana Mephis Meats, che studia come ottenere carne dalle cellule staminali animali. A maggio del 2019 ha investito nella Aleph Farms, la startup israeliana delle bistecche da coltura. Il fabbisogno mondiale di proteine crescerà notevolmente, spiega la Cargill: “Dobbiamo essere aperti a tutte le opzioni e concentrarci sull’obiettivo di nutrire le persone, anche in vista di una riduzione delle risorse disponibili”.

I capitali stanno cominciando a inondare il settore delle carni alternative. Oltre a Sergey Brin di Google, ci hanno investito il fondatore della Microsoft Bill Gates, il cofondatore di Twitter Biz Stone e l’imprenditore britannico Richard Branson. Anche fondi di capitali di rischio che hanno già contribuito allo sviluppo di Amazon, Tesla e Space X fanno girare molti milioni di dollari. Per loro gli animali non sono altro che macchine desuete che consumano troppa energia per produrre carne.

I capitali stanno cominciando a inondare il settore delle carni alternative.
I capitali stanno cominciando a inondare il settore delle carni alternative.

I tradizionali allevatori di bovini non sono entusiasti di questi sviluppi. Negli Stati Uniti molti rancher ricordano ancora come furono scalzati dai nuovi concorrenti che chiamavano sfacciatamente le loro bevande vegetali latte di mandorle o latte d’avena. Per questo la lobby degli allevatori vuole evitare a tutti i costi che i sostituti possano essere messi sul mercato con la denominazione di “carne”. In trenta stati federali sono state presentate proposte di legge per impedirlo. Nel Missouri il divieto è già in vigore, e chi vende come “carne” qualcosa che non deriva da un animale macellato rischia fino a un anno di carcere.

Alla fine del 2018 in Germania sono state emanate nuove direttive per la denominazione dei sostituti vegetali della carne. Ne sono derivati nomi folli come “spezzatino vegetariano tipo pollo a base di frumento”. La lobby della carne si dice soddisfatta, l’unione dei vegetariani Pro- Veg no. Vuole impedire che questi nomi, a suo dire fuorvianti per i consumatori, diventino la norma in tutta l’Unione europea.

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Le associazioni per la tutela dei consumatori guardano con scetticismo il fatto che negli Stati Uniti i nuovi giganti senza carne consolidino il loro potere commerciale con i soldi dei miliardari. “L’idea che siano loro a salvare il pianeta e che le regole rappresentino solo degli ostacoli è molto problematica nel caso degli alimenti”, dice Patty Lovera di Food & water watch. Secondo la sua organizzazione in tutto il mondo gli alimenti e l’acqua potabile sono “minacciati da aziende che antepongono il profitto alla sopravvivenza dell’umanità”.

Da questo punto di vista la Cargill ha un passato discutibile. È stata bandita per trent’anni dalla borsa merci di Chicago perché aveva cercato di costruire un monopolio nel mercato del mais. Nel 1963, un anno dopo essere stata riammessa, fu ammonita per manipolazione del prezzo del frumento. Da allora il numero delle accuse contro la Cargill è cresciuto allo stesso ritmo dei suoi prodotti. Nel 2004 fu coinvolta in un processo per accordi illeciti sui prezzi dello sciroppo di mais, archiviato senza ammissione di colpevolezza dopo il pagamento di 24 milioni di dollari. Nel 2015 è stata la volta del sale antigelo. Anche questo processo è stato archiviato in seguito a un accordo.

La Cargill è stata criticata anche per la distruzione delle foreste vergini. La multinazionale è tra i principali produttori mondiali di olio di palma, quello per cui si sta disboscando la foresta pluviale indonesiana. Quando quest’estate la foresta amazzonica brasiliana è andata in fiamme, la Cargill ha dichiarato pubblicamente di essere impegnata nella protezione della regione. Ma Glenn Hurowitz, a capo dell’organizzazione ambientalista statunitense Mighty Earth, non ne è convinto. Gli incendi in Amazzonia sono dovuti prima di tutto al fatto che il governo brasiliano ha ammorbidito le norme per la protezione dell’ambiente. “Questa deregolamentazione è stata fatta sotto le pressioni della lobby agricola”, dice Hurowitz. La Cargill sostiene di essere impegnata insieme ad agricoltori, comuni, governi e organizzazioni ambientaliste per la conservazione di questo importante ecosistema. Da tempo non acquista più dal Brasile soia coltivata “su superfici appena disboscate tramite incendi”.

Il percorso verso una società senza carne si sta già delineando: milioni di animali da allevamento non dovranno più soffrire, perché nessuno avrà più bisogno di loro in queste quantità. La produzione di carne e dei prodotti sostitutivi potrebbe essere molto più attenta al clima. Le stesse multinazionali che oggi controllano gran parte del mercato alimentare internazionale continueranno a farlo anche domani. Solo che non dovranno più dividere i loro profitti con gli allevatori. E i mangimi per animali, di cui non avranno più bisogno, potranno facilmente essere trasformati in sostituti vegetali della carne ed essere impiegati diversamente. Come foraggio per gli esseri umani. ◆ ct