Internazionale - L’incredibile storia del clima terrestre

Da Sotto le querce.

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Internazionale
L’incredibile storia del clima terrestre

I modelli che usiamo per prevedere il clima del futuro sono incompleti. Per capire cosa succederà al pianeta dobbiamo tornare indietro di milioni di anni.

Testo di Peter Brannen. Foto di Edoardo Delille e Giulia Piermartiri - Internazionale, marzo 2021


Peter Brannen

Marzo 2021

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I modelli che usiamo per prevedere il clima del futuro sono incompleti. Per capire cosa succederà al pianeta dobbiamo tornare indietro di milioni di anni.

Viviamo su un pianeta selvaggio, un globo traballante in continua eruzione e sommerso dagli oceani che vaga nel vuoto portandosi dietro una gigantesca esplosione termonucleare. Grandi rocce sfrecciano verso l’alto, e sulla superficie terrestre interi continenti si scontrano, si frantumano e di tanto in tanto si ribaltano, uccidendo quasi ogni forma di vita. Il nostro pianeta è instabile. Quando l’invisibile attrazione dei corpi celesti punta la Terra verso una nuova stella polare, lo spostamento della luce solare può prosciugare il deserto del Sahara o riempirlo d’ippopotami. Fatto ancora più interessante per noi oggi, nel corso della storia un cambiamento nella composizione dell’atmosfera della Terra di appena lo 0,1 per cento ha determinato il passaggio da afose foreste pluviali artiche a quasi un chilometro di ghiaccio sopra Boston. La trascurabile componente dell’aria che determina questa differenza è l’anidride carbonica.

Si è capito il ruolo cruciale della CO2 nel riscaldamento del pianeta già nella seconda metà dell’ottocento. E non solo sulla base dei modelli matematici: il pianeta ha sperimentato diversi livelli di anidride carbonica nell’atmosfera. In alcuni momenti della sua storia, grandi quantità di anidride carbonica sono uscite dalla crosta terrestre e dai mari, e il pianeta si è riscaldato. Altre volte molta CO2 è rimasta nascosta nelle rocce e nelle profondità degli oceani, e il pianeta si è raffreddato. Per cercare di stare al passo, nel corso delle ere il livello dei mari si è alzato e abbassato, e le linee costiere sono scivolate in avanti sulla piattaforma continentale, per poi arretrare di nuovo. Durante l’eone fanerozoico – il periodo geologico in cui viviamo oggi, cominciato cinquecento milioni di anni fa – la CO2 è stata il motore principale del clima terrestre. E a volte, quando il pianeta ne ha emessa una quantità colossale nell’atmosfera, le cose sono andate terribilmente storte.

Oggi gli esseri umani stanno emettendo anidride carbonica a una delle velocità più elevate mai viste. Quando qualche imbonitore ci dice che il clima cambia continuamente ha ragione, ma non è affatto una buona notizia. “Il sistema climatico è una bestia furiosa”, amava dire Wally Broe cker, climatologo della Columbia university, morto nel 2019. “E noi la stiamo stuzzicando”. La bestia ha appena cominciato a ringhiare. Tutta la storia umana conosciuta – solo poche migliaia di anni, un semplice battito di ciglia rispetto al tempo geologico – si è svolta forse nella finestra climatica più stabile degli ultimi 650mila anni. La memoria breve della nostra civiltà e la nostra straordinaria fortuna ci hanno protetti dalla violenza del clima. Ma l’esperimento chimico lanciato dall’umanità sul pianeta potrebbe spingere il clima ben oltre questi limitati parametri storici, in uno stato simile a quello di decine di milioni di anni fa, un mondo inadatto all’Homo sapiens.

Quando nell’aria c’è stata la stessa quantità di anidride carbonica di oggi il mondo era molto più caldo, con mari venti metri più alti rispetto a oggi. Com’è possibile? Il pianeta non ha ancora trovato il suo equilibrio con l’atmosfera distorta creata di recente dalla civiltà industriale. Se la CO2 rimarrà ai suoi livelli attuali, o se non aumenterà di molto, ci vorranno secoli, forse millenni, prima che il pianeta si assesti. La transizione sarà drammatica nel breve e nel lungo periodo e, quando sarà completa, la Terra apparirà molto diversa da quella che ha tenuto in vita l’umanità. Questa è la triste lezione della paleoclimatologia: il pianeta sembra rispondere alle piccole provocazioni in modo molto più aggressivo di quanto prevedano i nostri modelli.

Per comprendere gli stravolgimenti in arrivo dobbiamo ripercorrere la storia dei cambiamenti climatici. Faremo quindi un viaggio indietro nel tempo, a partire dalla storia documentata per arrivare alla torrida serra ad alto contenuto di CO2 della prima era dei mammiferi, cinquanta milioni di anni fa.

Da sapere Atmosfera delicata

Livello di anidride carbonica negli ultimi 800mila anni, parti per milione (ppm)

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I primi due passi indietro nel tempo non ci porteranno in un mondo più caldo, ma ci permetteranno di capire quanto il pianeta sia sensibile. A quanto sembra, viviamo su un pianeta caratterizzato dalla crescita alternata alla disgregazione di enormi calotte di ghiaccio in risposta a piccole variazioni della luce solare e dei livelli di anidride carbonica. Il periodo caldo attuale è solo la cima di una catena montuosa: ogni cima è una primavera interglaciale come quella che stiamo vivendo, e ogni fondovalle una gelata. Ci vuole un po’ di impegno per uscire da questo ciclo ma, con gli attuali livelli di CO2, nel prossimo futuro non torneremo a un’era glaciale. Per trovare analogie con il tipo di riscaldamento che probabilmente vedremo nei prossimi decenni e secoli dobbiamo tornare indietro a prima delle ere glaciali degli ultimi tre milioni di anni e parlare delle terre aliene di decine di milioni di anni fa. Il nostro futuro potrebbe somigliare a quegli strani mondi perduti.

Viaggio nel tempo

Prima di fare questo incredibile salto indietro, soffermiamoci brevemente sulla storia della civiltà, e non solo. Diecimila anni fa in Eurasia e nelle Americhe i grandi mammiferi erano appena scomparsi, a causa degli esseri umani. Le steppe un tempo piene di mammut e cammelli, e le zone umide abitate da castori giganti erano diventate improvvisamente vuote. Le coste che la nostra civiltà immagina eterne erano ancora ben oltre l’orizzonte. Ma il livello dei mari si stava alzando. Le vestigia di strati di ghiaccio spessi più di un chilometro che avevano ammantato un terzo del territorio nordamericano si stavano ritirando negli angoli più remoti del Canada, inseguite dalla tundra e dalla taiga. Nel giro di qualche millennio l’acqua di disgelo rilasciata da queste lastre di ghiaccio avrebbe alzato il livello dei mari di centinaia di metri, facendo affondare sotto acque profonde le barriere coralline che erano state bagnate dalla luce del sole.

Novemila anni fa nella Mezzaluna fertile, in Cina, in Messico e sulle Ande gli esseri umani avevano cominciato a sviluppare l’agricoltura e, dopo 200mila anni di vagabondaggio, crearono i primi insediamenti. Introdussero la divisione del lavoro e crearono nuove arti. Nelle città più antiche della Terra, come Gerico, c’era un gran fermento.

È facile dimenticare che la Terra – accogliente, pastorale, familiare – è comunque un corpo celeste, e l’astronomia ha ancora voce in capitolo nei suoi affari. Circa ogni ventimila anni il pianeta ruota intorno al proprio asse e diecimila anni fa, all’alba della civiltà, la metà superiore puntava verso il Sole quando la sua orbita era più vicina, posizione di cui oggi gode l’emisfero australe. Il calore dell’estate settentrionale aveva trasformato il Sahara in una distesa verde. I laghi, che ospitavano ippopotami, coccodrilli, tartarughe e bufali, andavano dal Nordafrica all’Arabia. Oggi sotto il Mediterraneo centinaia di strati di fango scuro si alternano a strati di melma più chiara, un segno di come il Sahara sia passato da regione lussureggiante a desertica.

Impressi in questo ciclo c’erano gli ultimi sussulti di un’era glaciale che aveva attanagliato il pianeta nei centomila anni precedenti. La Terra si stava ancora scongelando e, con l’innalzamento delle maree, enormi distese e foreste come la Doggerland, una pianura che univa l’Europa continentale alle isole britanniche, furono abbandonate dagli esseri umani e lasciate in balìa dei mari.

Cinquemila anni fa, quando l’umanità stava emergendo da millenni di analfabetismo, il ghiaccio aveva smesso di sciogliersi e gli oceani che si erano sollevati per 15mila anni si erano finalmente stabilizzati, facendo emergere le coste attuali. Nell’estate del nord la luce del sole era diminuita e le piogge si erano spostate di nuovo a sud, verso l’equatore. Il Sahara cominciò a inaridirsi, com’era successo molte altre volte. Le persone che per migliaia di anni avevano abitato l’interno verdeggiante del Nordafrica – cacciando, pescando e coltivando – abbandonarono quelle lande ormai aride e si raccolsero lungo il Nilo. Cominciò l’era dei faraoni.

Secondo gli standard geologici, in seguito il clima rimase notevolmente stabile, fino all’improvviso riscaldamento degli ultimi decenni. È un fatto inquietante, perché la storia ci dice che anche una disavventura climatica localizzata e banale può determinare – in un periodo altrimenti pacifico – il crollo di una società. Circa 3.200 anni fa un’intera rete di civiltà – una vera economia globalizzata – crollò quando fu colpita da un evento climatico di minore importanza.

“C’è carestia nella nostra casa, moriremo tutti di fame. Se non torni presto, moriremo di fame anche noi. Non troverai anima viva sulla tua terra”. Questa lettera fu mandata ai soci di un’impresa siriana che aveva avamposti in tutta la regione, mentre le città – dal Levante all’Eufrate – crollavano. Le mura del tempio funerario di Ramses III, l’ultimo grande faraone del periodo conosciuto come nuovo regno d’Egitto, raccontano di migrazioni di massa, via terra e via mare, e di guerre con misteriosi invasori. In pochi decenni l’intero mondo dell’età del bronzo scomparve.

Neve estiva

Gli storici hanno avanzato molte ipotesi per spiegare questo crollo, compresi i terremoti e le rivolte. Ma come il mondo instabile di oggi – messo a dura prova da attriti commerciali, popolazioni insofferenti guidate da leader senza scrupoli e malattie – il Mediterraneo orientale e l’Egeo non furono capaci di adattarsi al peggioramento del clima.

La stessa cosa sarebbe successa altrove, molte volte, durante periodi climatici estremamente miti. L’espansione dell’impero romano fu agevolata da secoli di clima caldo, ma la sua fine coincise con un clima desertico freddo, forse provocato da sistemi di pressione sopra l’Islanda e le Azzorre. Nel 536 dC, conosciuto come l’anno peggiore della storia, un vulcano islandese esplose e l’oscurità scese sull’emisfero settentrionale, portando la neve in estate in Cina e la carestia in Irlanda. Circa ottocento anni fa in Nordamerica una grande siccità costrinse i popoli ancestrali ad abbandonare villaggi sulle scogliere, mentre il Nebraska veniva spazzato dalla sabbia e la California bruciava.

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Nel quattrocento una siccità durata trent’anni, alternata a diluvi altrettanto orribili, ridusse la presenza dei khmer ad Angkor, nell’attuale Cambogia. Il loro “impero idraulico” era stato tenuto in piedi da un elaborato sistema di irrigazione. Ma quando i canali rimasero a secco per decenni e poi si riempirono di pioggia, nel 1431 gli invasori rovesciarono facilmente quell’impero e i khmer abbandonarono i loro templi nella giungla. Saltando di catastrofe in catastrofe per arrivare ai giorni nostri, troviamo l’evento climatico forse più noto di tutti: la piccola era glaciale. Durata grosso modo dal 1500 al 1850, trasformò in piste di pattinaggio i canali olandesi e ingigantì i ghiacciai svizzeri. La piccola era glaciale fu forse un evento regionale, probabilmente frutto di un’eccezionale serie di esplosioni vulcaniche che oscurarono la luce del sole. Nel 1816, l’anno senza estate, le temperature globali scesero forse di appena mezzo grado. Anche se continua a essere studiato dagli storici che sperano di ricavarne indicazioni sui futuri cambiamenti climatici, quel fenomeno non si avvicina neanche lontanamente a quello che potrebbe succedere nel nostro futuro.

Quando l’Europa uscì dal gelo, il carbone proveniente da giungle vecchie trecento milioni di anni cominciò a essere gettato nelle fornaci inglesi. Anche se la Terra era nelle stesse condizioni che, pochi milioni di anni prima, avevano favorito un ritorno a inimmaginabili ere glaciali profonde, per qualche motivo non ci fu un’altra era glaciale. Il pianeta intraprese invece un esperimento di chimica globale quasi senza precedenti. E a metà del novecento il clima cominciò a comportarsi in modo molto strano. Questo dunque è il clima della storia documentata, un periodo apparentemente movimentato che in realtà è stato solo un rumore fortuito in un clima essenzialmente tranquillo. Questo tipo di stabilità climatica sembra essere il prerequisito per la nascita di società organizzate.

Tutto ghiacciato

Se torniamo indietro di ventimila anni – cioè a ieri, geologicamente parlando – il mondo smette di essere riconoscibile. Mentre tutta la storia documentata si è svolta in un clima che oscillava entro un grado centigrado, lì vediamo che differenza possono fare 5 o 6 gradi, un’alterazione simile a quella che gli esseri umani potrebbero provocare solo nel prossimo secolo o poco più, anche se in quel caso il mondo non era 5 o 6 gradi più caldo ma più freddo.

Ventimila anni fa sopra al Nordamerica c’era una quantità di ghiaccio pari a quella dell’Antartide. Lastre simili soffocavano l’Europa settentrionale e, di conseguenza, il livello dei mari era di 121 metri più basso. Il midwest degli Stati Uniti era ricoperto di boschi di abete rosso come quelli che oggi si trovano nel nord del Québec. La California era invivibile. Altrove, la ritirata dei mari aveva reso la maggior parte dell’Indonesia una penisola dell’Asia continentale. Vaste savane e paludi collegavano l’Australia e la Nuova Guinea e, naturalmente, la Russia condivideva la tundra con l’Alaska. C’erano renne in Spagna e ghiacciai in Marocco. E dovunque c’era loess, un sedimento di sabbia sottile trasportato dal vento. Era l’era della polvere.

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Il ghiaccio è roccia che si sposta. Quando le sue enormi lastre attraversano i continenti, scava i fianchi delle montagne, polverizza il substrato roccioso e cancella tutto al suo passaggio. Al culmine dell’ultima era glaciale, lungo i margini delle calotte glaciali continentali, i resti rocciosi e polverosi di tutta questa distruzione si riversarono nella tundra. I venti asciutti trasportarono questo limo in tutto il mondo in enormi tempeste di polvere, dando forma ai mari di loess che avrebbero seppellito gli Stati Uniti centrali, la Cina e l’Europa orientale sotto cumuli informi. I carotaggi effettuati nei ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia hanno rivelato un ambiente dieci volte più polveroso di oggi. Tutta questa polvere riempì i mari di ferro, un nutriente essenziale per il plancton, che si diffuse in tutta l’Antartide ed estrasse miliardi di tonnellate di CO2 dall’aria trascinandola in fondo al mare e raffreddando ulteriormente il pianeta.

Dato che ospitava un quarto di vita vegetale in meno, dallo spazio questo arido mondo del pleistocene sarebbe apparso più opaco. Il livello di anidride carbonica nell’atmosfera era di appena 180 parti per milione (ppm), meno della metà di quello attuale. La CO22 era talmente poca che forse non avrebbe potuto diminuire ulteriormente. A livelli così insignificanti, la fotosintesi smette di funzionare, un effetto di feedback (o reatroazione) negativo che potrebbe aver lasciato più CO2 nell’aria, agendo da freno al congelamento profondo. Questo era lo strano mondo dell’era glaciale, un periodo ancora molto recente dal punto di vista geologico. Così recente che oggi buona parte del Canada e della Scandinavia, senza più il peso delle calotte glaciali ormai scomparse che la spingevano in basso, sta ancora risalendo.

Minuscoli antenati

Nel 2021 ci troviamo in una situazione insolita: viviamo in un pianeta con enormi strati di ghiaccio, e uno di questi copre interamente un continente ed è spesso più di un chilometro. Per la maggior parte della storia, sulla Terra non c’è stato praticamente ghiaccio. I periodi di freddo estremo sono anomali. Per quasi tutta la sua esistenza, il nostro pianeta è stato un luogo molto più caldo di quanto lo sia oggi, con livelli di anidride carbonica molto più alti. Questo non significa negare i cambiamenti climatici: è un fatto fisico e riconoscerlo non toglie nulla alla potenziale catastrofe del riscaldamento futuro. Dopotutto, noi esseri umani, insieme a tutte le altre forme di vita attuali, ci siamo evoluti per vivere in un mondo a basse emissioni di CO2, un processo che ha richiesto molto tempo.

Quanto tempo, esattamente? Cinquanta milioni di anni fa, mentre i nostri minuscoli antenati mammiferi stavano ancora sudando nel clima da giungla ad alto contenuto di CO2 che avevano ereditato dai dinosauri, l’India si stava avvicinando alla fine di un lungo viaggio. Inizialmente lontano dall’Africa e dal famoso supercontinente del Gondwana, il subcontinente aveva continuato a scivolare in direzione nordest attraverso il proto-oceano Indiano per andare a schiantarsi al rallentatore contro l’Asia. Quella collisione placò i vulcani che emettevano CO2 lungo le zone asiatiche di subduzione delle placche, e spinse in alto anche l’Himalaya e l’altopiano tibetano, che sarebbero stati continuamente esposti alle intemperie e all’erosione.

A quanto sembra, l’erosione delle rocce, cioè la loro decomposizione a causa dell’acqua piovana ricca di CO2, è uno dei meccanismi a lungo termine più efficaci per rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera, quindi non sorprende che oggi i geoingegneri stiano freneticamente cercando di riprodurlo in laboratorio.

Da sapere Viaggio nel tempo

Il tempo trascorso dalla formazione della Terra è misurato dalla scala dei tempi geologici. L’unità di tempo più ampia è l’eone. Il primo eone, chiamato adeano, ebbe inizio 4,6 miliardi di anni fa, quando si formò la crosta terrestre. Attualmente viviamo nel quarto eone, chiamato fanerozoico e cominciato circa 545 milioni di anni fa. L’eone è suddiviso in ere, che sono a loro volta suddivise in periodi, epoche ed età. Ecco alcuni degli snodi che permettono di capire l’evoluzione del clima nell’eone fanerozoico.

Eocene È l’epoca che va da 55 a 33 milioni di anni fa. Sul pianeta cominciava la prima era dei mammiferi. I livelli di anidride carbonica nell’atmosfera erano particolarmente alti (simili a quelli che potremmo avere tra cento anni) e la Terra era molto calda.

Miocene Da 23 a 5 milioni di anni fa. Il pianeta si stava lentamente raffreddando. La CO2 nell’atmosfera arrivò a 500 parti per milione, un livello vicino allo scenario più ottimistico sulle emissioni elaborate dai modelli attuali, e questo causò lo scioglimento di buona parte delle calotte glaciali. Pliocene Da 5,3 a 2,5 milioni di anni fa. La CO2 nell’atmosfera era di 400 ppm, un livello simile a quello di oggi. Il mondo era circa 3 gradi più caldo di quello attuale, e il livello dei mari era fino a 25 metri più alto.

Pleistocene Da 2,5 milioni a 11.700 anni fa. È il periodo segnato dalla comparsa degli esseri umani. La Terra si era raffreddata e il clima, segnato dalle glaciazioni, era diventato più instabile.

Antropocene È un’epoca proposta in tempi recenti, in cui i processi geologici vengono condizionati dall’azione degli esseri umani.

Caos tettonico

In aggiunta a questo colossale serbatoio di CO2 himalayano, il più recente e caotico fenomeno tettonico – che ha fatto emergere l’Indonesia e i paesi vicini negli ultimi 20 milioni di anni – ha anche sollevato vasti tratti di crosta oceanica altamente resistente agli agenti atmosferici, esponendo il tutto all’assalto dei temporali tropicali. Oggi questa roccia corrosa rappresenta circa il 10 per cento dei pozzi di carbonio (carbon sink, depositi di anidride carbonica) presenti sul pianeta. Per decine di milioni di anni, quindi, la maestosa marcia della tettonica a placche sembra aver guidato il cambiamento climatico a lungo termine, nel nostro caso verso un mondo più freddo e con meno CO2. Come vedremo, oggi gli esseri umani rischiano di annullare quest’epica evoluzione del clima dell’era cenozoica, e il tutto in pochi decenni.

Quando la coltre terrestre di anidride carbonica è diventata abbastanza sottile, le regolari oscillazioni del pianeta sono state finalmente sufficienti per innescare glaciazioni profonde e dare il via alle ere glaciali. Ma in quel periodo il clima non era stabile. Il ghiaccio avanzava e si ritraeva, e anche se gli episodi estremi del pleistocene potevano essere piacevoli – l’inverno planetario impiegava decine di migliaia di anni ad arrivare – la fine del freddo tendeva a essere improvvisa e violenta. È qui che entrano in gioco i cicli di feedback positivi: quando l’ultima era glaciale finì, lo fece rapidamente.

Le barriere coralline che segnano l’antico livello dei mari, e che oggi giacciono in profondità al largo delle coste di Tahiti e dell’Indonesia, rivelano che circa 14.500 anni fa i mari salirono improvvisamente di quindici metri in pochi secoli.

Quando le calotte glaciali dell’emisfero settentrionale finalmente mollarono la presa, la terra scura intorno ai bordi che si scioglievano fu esposta al sole per la prima volta in 100mila anni, accelerando la ritirata dei ghiacci. Il permafrost si sciolse e il disgelo fece sgorgare il metano dalle torbiere. Oceani freddi e ricchi di CO2 si riscaldarono e restituirono il carbonio che avevano accumulato durante l’era glaciale, facendo alzare ancora di più la temperatura del pianeta. Sollevati dal peso dei ghiacci, i vulcani si risvegliarono in Islanda, in Europa e in California, aggiungendo altra CO2 all’atmosfera. Presto il Sahara sarebbe stato di nuovo verde, sarebbe nata Gerico e gli esseri umani avrebbero cominciato a scrivere. Lo avrebbero fatto partendo dal presupposto che il mondo che vedevano fosse com’era sempre stato. “Siamo nati solo ieri e non sappiamo nulla”, scriveva uno di loro. “I nostri giorni sulla Terra non sono che un’ombra”.

Facciamo ancora un altro salto indietro nel tempo, a prima dell’ultima glaciazione del pleistocene. Siamo andati molto indietro, di ben 129mila anni, anche se in qualche modo siamo tornati nel nostro mondo. Quello è stato il periodo interglaciale più recente, l’ultima di molte interruzioni delle ere glaciali e l’ultima volta che il pianeta è stato più o meno caldo come oggi. Anche in quel caso il livello dei mari era salito di centinaia di metri, ma qualcosa non andava. Mentre l’oscillazione e l’orbita della Terra si alleavano per sciogliere più ghiaccio di quanto i poli ne abbiano mai prodotto fino a oggi, il pianeta assorbiva più luce solare. Di conseguenza le temperature globali erano di circa un grado più calde rispetto a quelle dell’antropocene moderno, o forse uguali. Ma il livello dei mari era dai sei ai dieci metri più alto rispetto a oggi.

Grandi incendi

I creatori di modelli computerizzati hanno cercato di capire – in genere senza riuscirci – come un mondo caldo come quello di oggi potesse produrre mari così stranamente alti. I ricercatori discutono di ipotesi da incubo, come il crollo catastrofico e incontrollabile di mostruose scogliere di ghiaccio alte più di cento metri in Antartide, che forse potrebbe ripetersi presto. Ma è ora di procedere. Dobbiamo fare il nostro primo salto veramente epico, milioni di anni nel passato. Tre milioni di anni fa, per la precisione, nell’era chiamata pliocene. Nell’atmosfera c’erano 400 parti per milione di anidride carbonica, un livello che il pianeta non avrebbe più visto fino a settembre del 2016. Era un mondo da 3 a 4 gradi più caldo del nostro, e il livello dei mari era fino a 25 metri più alto. Paludi e faggi rachitici fiancheggiavano le pendici dei monti Transantartici non lontano dal polo sud, ultimi esemplari di una generazione di foreste un tempo maestose che esistevano da molto prima dell’era dei dinosauri.

Nel miocene, circa 16 milioni di anni fa, il pianeta sembrava davvero esotico.

L’australopiteca Lucy vagava per l’Africa orientale, una regione coperta di alberi. Siamo fuori dalla finestra evolutiva del nostro mondo moderno, scolpito dalle imprevedibili calotte glaciali del nord e dalle profonde gelate del pleistocene. Ma per quanto riguarda l’anidride carbonica nell’atmosfera, tre milioni di anni sono la distanza temporale che dobbiamo percorrere per trovare un’analogia con il 2021.

Nonostante le somiglianze, le differenze tra il nostro mondo e quello del pliocene sono notevoli. Nell’Alta Artide canadese, dove oggi la tundra si estende fino all’orizzonte, le foreste di sempreverdi arrivavano fino al bordo di un oceano Artico privo di ghiacci. Anche se il mondo nel suo insieme era solo di pochi gradi più caldo, l’Artide, come sempre, subiva l’impatto maggiore del calore in eccesso. Questo fenomeno si chiama amplificazione polare e spiega perché le attuali mappe del riscaldamento del pianeta sono sovrastate da un’inquietante nebbia marrone. I modelli faticano a riprodurre il livello di riscaldamento estremo dell’Artide pliocenica. Nel lungo crepuscolo del Canada settentrionale c’erano tra i 10 e i 15 gradi in più, e i boschi di pini e betulle delle coste artiche erano popolati da giganteschi cammelli. Di tanto in tanto in questo mondo boreale scoppiava un grande incendio, come quelli che oggi vediamo propagarsi sempre più a nord.

Nel polo opposto, la calotta glaciale dell’Antartide occidentale forse era completamente scomparsa. Le nostre previsioni per un mondo sempre più caldo si basano sull’idea che i luoghi umidi diventeranno più umidi e quelli secchi sempre più secchi. Ma il pliocene sembra sfidare questa teoria, per motivi non ancora del tutto compresi.

Quello era un mondo stranamente umido, specialmente nelle regioni subtropicali – il Sahara, l’outback australiano (la zona desertica dell’interno del paese), il deserto di Atacama in Sudamerica, il sudovest degli attuali Stati Uniti e la Namibia –, dove laghi, savane e boschi sostituivano i deserti. Questa antica umidità potrebbe essere spiegata dall’inadeguatezza dei nostri modelli sulle nuvole, che nella realtà fisica non sono obbligate a comportarsi come fanno nei programmi informatici. Tre milioni di anni fa gli uragani erano quasi sicuramente più violenti, come lo saranno nel nostro futuro. E una circolazione più lenta dell’atmosfera potrebbe aver tenuto a freno gli alisei. Forse questo è ciò che oggi sta provocando le piogge nel deserto del Mojave, in California, portando alla formazione di laghi.

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Anche durante questo periodo caldo del pliocene, il livello dei mari saliva e scendeva fino a venti metri ogni ventimila anni, al ritmo dell’oscillazione della Terra nello spazio. Questo perché, in quel regime più elevato di CO2, la calotta di ghiaccio instabile dell’Antartide assunse quel carattere mutevole che, un milione di anni dopo, sarebbe arrivato a caratterizzare la calotta glaciale del Nordamerica, giocando con l’antica linea costiera come se fosse una marionetta.

Tartarughe in Siberia

Quindi questo è il pliocene, il mondo del lontano presente. Mentre le proiezioni attuali sul riscaldamento futuro tendono a fermarsi al 2100, il pliocene ci aiuta a capire quale tipo di cambiamenti a lungo termine potrebbero essere messi in moto dall’atmosfera che abbiamo modificato. Mentre le calotte glaciali si sciolgono, il permafrost si risveglia e le terre boscose più scure invadono le tundre del mondo, feedback positivi (che amplificano i processi in corso) potrebbero prima o poi modificare completamente lo stato del nostro pianeta, fino a farlo somigliare a quel mondo passato. Tuttavia, difficilmente la civiltà umana riuscirà a tenere la CO2 atmosferica ai livelli del pliocene, quindi dobbiamo andare a cercare analogie ancora più lontane ed estreme.

Ora ci spostiamo nel miocene, circa 16 milioni di anni fa. All’epoca il pianeta sembrava davvero esotico: c’era una via marittima che si estendeva dall’Europa occidentale al Kazakistan e sfociava nell’oceano Indiano, mentre la Central valley della California era oceano aperto.

Quello che oggi è il nordovest degli Stati Uniti era irriconoscibile. Gli ampi canyon del fiume Columbia in Oregon, con le loro colonne di basalto, pullulano di kitesurf che sfrecciano attraverso le gole. Ma sedici milioni di anni fa questo era un luogo buio, irrespirabile, dove scorrevano fiumi di rocce incandescenti. I basalti del fiume Columbia – antiche colate di lava che attraversano l’attuale stato di Washing ton, l’Oregon e l’Idaho, in alcuni luoghi spesse più di due tre chilometri – sono il frutto di eruzioni vulcaniche estremamente rare. Queste colate sono note come grandi province lignee (Lip), che hanno cambiato il mondo.

Nella storia della Terra alcune Lip si estendono per milioni di chilometri quadrati, si sono formate in milioni di anni, immettendo nell’aria decine di migliaia di gigatonnellate di CO2 e sono responsabili della maggior parte delle peggiori estinzioni di massa nella storia del pianeta. Ma le eruzioni del medio miocene erano ancora piuttosto piccole rispetto agli eventi che hanno dato origine alle Lip, e così il pianeta fu risparmiato dalle estinzioni di massa. Tuttavia, innalzarono la percentuale di CO2 nell’atmosfera fino a circa 500 ppm, un livello che oggi rappresenta qualcosa di vicino allo scenario più ambizioso e ottimistico possibile delle nostre future emissioni.

Nel miocene questa CO2 vulcanica riscaldò il mondo facendogli superare di quattro gradi e forse perfino di otto le temperature attuali. C’erano tartarughe e pappagalli in Siberia.

Le vaste praterie tipiche del nostro mondo più fresco, asciutto e con basse emissioni di CO2 dovevano ancora conquistare il pianeta, e le foreste erano dovunque: al centro dell’Australia, dell’Asia centrale e della Patagonia. Tutta questa vegetazione era uno dei motivi per cui faceva così caldo. Le foreste e gli arbusti rendevano questo pianeta più scuro di quello in cui viviamo (dove ci sono ancora molte chiazze chiare di terra nuda e ghiaccio) e gli consentivano di assorbire più calore. Questo cambiamento nel colore del pianeta è solo uno dei tanti circuiti di feedback a lungo termine che ci aspettano quando il ghiaccio si sarà sciolto. E che, molto tempo dopo la nostra prima emissione di CO2, renderanno il mondo futuro più caldo e ancora più alieno. Con la CO2 a 500 ppm, il livello dei mari era circa cinquanta metri più alto di oggi. Le acque vicine all’Antartide erano più calde di oggi e praticamente senza ghiaccio. Per raggiungere la calotta glaciale bisognava camminare molto oltre i laghi e le foreste di conifere che puntellavano la costa. Superando gli alberi e poi la tundra infinita, si arrivava finalmente al bordo di una calotta di ghiaccio molto più piccola, che aveva ancora davanti a sé i suoi giorni migliori. Nella paleoclimatologia di oggi c’è la convinzione che la calotta antartica sia incredibilmente testarda: una volta creata, si attivano dei cicli che rendono estremamente difficile eliminarla. Se si esclude un momento di vera e propria follia climatica, la calotta glaciale antartica è essenzialmente immortale.

Ma nel miocene medio la giovane calotta glaciale sembrava essere “sorprendentemente dinamica”, come afferma uno studio sul tema. Quando la CO2 aumentò fino a 500 ppm, l’Antartide del miocene perse dal 30 all’80 per cento della calotta glaciale odierna. Nel miocene l’Antartide sembrava estremamente sensibile ai piccoli cambiamenti della CO2 atmosferica, per motivi che non capiamo bene e che non stiamo includendo nei modelli di previsione. Il nostro futuro ad alto livello di CO2 sarà pieno di sorprese, proprio come per le forme di vita del miocene. Anzi, oggi la calotta glaciale antartica potrebbe essere più esposta alla disintegrazione che in qualsiasi altro momento della sua storia di 34 milioni di anni.

Nei 16 milioni di anni passati da quella fase di alte temperature della metà del miocene, il flusso caldo vulcanico responsabile dei basalti del fiume Columbia è arrivato all’attuale parco di Yellowstone, molto più a sud. Oggi alimenta un tipo di vulcano molto più tranquillo. Potrebbe coprire alcuni stati in pochi centimetri di cenere e danneggiare l’agricoltura globale per anni, ma non potrebbe dare inizio a un nuovo clima che duri centinaia di migliaia di anni o uccidere la maggior parte della vita sul pianeta. La brutta notizia è che oggi sulla Terra è attivo un supervulcano in grado di farlo. Si chiama civiltà industriale. In uno scenario in cui la CO2 supera i 500 ppm a causa delle emissioni future, neanche il mondo torrido e popolato di pappagalli siberiani del miocene medio potrebbe spiegarci tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro clima futuro.

È ora di parlare di un clima che si colloca tra più caldi che le forme di vita complesse abbiano mai conosciuto. Nel nostro ultimo salto indietro, la CO2 raggiunge i livelli che gli esseri umani potrebbero riprodurre nei prossimi cento anni. Quello che segue è lo scenario peggiore che potrebbe essere provocato dalle nostre emissioni. Finora queste proiezioni hanno continuato a dimostrarsi ostinatamente accurate e rimangono un possibile percorso per il nostro futuro.

Cattedrale di sequoie

Stiamo per fare il più grande salto all’indietro: più di 40 milioni di anni, per arrivare a eruzioni vulcaniche molto più potenti di quelle che oggi possiamo immaginare. Siamo nell’epoca geologica dell’eocene. L’Himalaya stava crollando. L’India si sganciava dall’Asia. Più andiamo indietro, più il livello di CO2 aumenta e la Terra diventa calda. La calotta glaciale antartica agonizzava per poi svanire del tutto e il continente polare lasciava il posto ad alberi di araucaria e ai marsupiali. Siamo arrivati alla fine del nostro viaggio, nel mondo della prima era dei mammiferi. Oggi l’ultima terra asciutta che si calpesta in Canada prima di affrontare i mari soffocati dal ghiaccio del polo nord è l’isola di Ellesmere. Qui un tempo c’era una foresta pluviale. Lo sappiamo perché pezzi di alberi che hanno più di 50 milioni di anni continuano a emergere dalle aride colline. Sono tutto quel che resta di un’antica giungla polare ora sferzata dai venti artici. Un tempo quest’isola era una paludosa cattedrale di sequoie, con le navate piene di lemuri volanti, mentre salamandre gigantesche e animali simili agli ippopotami solcavano le acque. A questa latitudine polare, in una sera di fine autunno del primo eocene, il sole tentò senza successo di levarsi dall’orizzonte. Un crepuscolo rosa raggiunse le profondità della giungla, ma presto il sole sarebbe sparito completamente per più di quattro mesi.

La paleoclimatologa Jessica Tierney pensa che la chiave di tutto siano le nuvole.

In questa oscurità artica senza fine, la quiete sarebbe stata interrotta dai richiami isolati di minuscoli primati primitivi, che saltellavano su alligatori immobili che avrebbero ripreso a muoversi quando il sole fosse tornato sopra l’orizzonte. In questa notte senza fine, i tapiri andavano in cerca di funghi e si nutrivano del tappeto di foglie cadute lasciato dai giorni di sole passati e che in un lontano futuro sarebbe diventato carbone.

Non abbiamo un analogo moderno per una foresta pluviale paludosa brulicante di rettili che tuttavia sopporta mesi di crepuscolo artico e notte polare. Ma per ogni grado che sale, l’atmosfera contiene circa il 6 per cento in più di vapore acqueo e, dato che le temperature globali all’inizio dell’era dei mammiferi erano di circa tredici gradi più calde di oggi, è difficile immaginare quanto fosse scomodo questo pianeta per creature dell’era glaciale come noi. Gran parte del pianeta sarebbe stato troppo caldo e umido per la fisiologia umana.

Oltre a essere soffocante, quest’epoca era anche segnata da alcuni dei più profondi e improvvisi eventi di riscaldamento globale causati dalla CO2 della storia geologica. Nel profondo dell’Atlantico settentrionale l’epoca dell’eocene cominciò 56 milioni di anni fa con enormi strati di magma che fuoriuscirono dalla crosta terrestre, creando vasti e diffusi depositi di combustibili fossili sul fondo dell’oceano. In meno di ventimila anni, questo riscaldamento del mondo sotterraneo immise nei mari e nell’atmosfera l’equivalente di carbonio di tutte le riserve di combustibili fossili attualmente conosciute, riscaldando il pianeta di altri cinque/nove gradi. Durante questo spasmo di cambiamento climatico, abbondano le prove di violente tempeste e grandi alluvioni, ondate episodiche di piogge torrenziali diverse da quelle di oggi. In alcuni luoghi le tempeste erano la norma, intervallate da siccità spietate e ondate di calore brutali. I mari vicino all’equatore erano probabilmente caldi quasi come una vasca idromassaggio, troppo per le forme di vita più complesse. Per quanto riguarda il resto del pianeta, tutto questo eccesso di CO2 rese gli oceani più acidi e le barriere coralline morirono. La chimica degli oceani impiegò 200mila anni per riequilibrarsi.

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Ma l’aspetto più sconvolgente della prima era dei mammiferi non è il caldo estremo. Riguarda le piante. In condizioni di CO2 più elevata le piante riducono il numero di pori sulle foglie, e i fossili delle giungle del primo eocene hanno molti pori in meno rispetto alle piante di oggi. Secondo alcune stime, 50 milioni di anni fa la CO2 era di circa 600 ppm. Altre proiezioni indicano un livello ancora maggiore, poco più di mille ppm, ma anche quella quantità ha lasciato perplessi i creatori dei nostri modelli computerizzati del cambiamento climatico. Per anni, infatti, i modelli ci hanno detto che per riprodurre quel mondo torrido avremmo bisogno di aumentare la CO2 a più di quattromila ppm.

Modelli incompleti

Questo antico mondo è molto più estremo di qualsiasi scenario previsto per la fine del secolo dalle Nazioni Unite o da chiunque altro. Dopotutto, il pianeta che ospitava le foreste pluviali dell’isola di Ellesmere era di 13 gradi più caldo del nostro, mentre l’attuale ambizione, sancita dall’accordo di Parigi del 2015, è limitare il riscaldamento globale a meno di due, o addirittura 1,5, gradi. Questa evidente disparità è parzialmente spiegata dal fatto che la maggior parte delle proiezioni climatiche si fermano alla fine del secolo. I feedback che potrebbero portare a temperature simili a quelle dell’eocene o del miocene si verificano su scale temporali molto più lunghe di un secolo.

Ma c’è un’altra cosa, molto più spaventosa, che la storia della Terra ci sta dicendo in modo chiaro: i modelli che usiamo per predire il futuro hanno delle lacune cruciali, anche se alcuni stanno cominciando a recuperare il ritardo. Nel 2019 uno dei modelli climatici più impegnativi dal punto di vista computazionale, creato dai ricercatori del California institute of technology, ha simulato temperature globali che aumenteranno improvvisamente di dodici gradi entro il prossimo secolo se la CO2 atmosferica raggiungerà le 1200 ppm: uno scenario pessimo ma non impossibile. Nello stesso anno gli scienziati dell’università del Michigan e dell’Arizona sono stati in grado di riprodurre il calore dell’eocene usando un modello più sofisticato di come l’acqua si comporta alle scale più piccole.

La paleoclimatologa Jessica Tierney pensa che la chiave di tutto possano essere le nuvole. Oggi a San Francisco la nebbia si alza regolarmente, facendo emergere dal mare come candele le torri del suo famoso ponte. Queste nuvole sono comuni sulle coste occidentali di tutto il mondo, riflettono nello spazio la luce solare dalla California al Perù e alla Namibia. Ma in condizioni di CO2 e temperature più elevate, le goccioline d’acqua contenute in quelle nubi potrebbero gonfiarsi e far piovere più velocemente. Nell’eocene questo fenomeno probabilmente causò la scomparsa di quelle nuvole, permettendo a una maggior quantità di energia solare di raggiungere e riscaldare gli oceani. E forse è il motivo per cui l’eocene fu così tremendamente caldo. Le temperature da sauna in cui vissero i nostri primi antenati mammiferi si avvicinano allo scenario peggiore possibile per il riscaldamento futuro. La buona notizia è che l’inerzia del sistema climatico terrestre è tale che abbiamo ancora tempo per invertire la rotta, per evitare un ritorno a quel mondo, o a quello del miocene, o perfino del pliocene. Basterà interrompere immediatamente le eccessive emissioni di CO2 nell’atmosfera cominciate con la rivoluzione industriale.

Sappiamo come farlo e non possiamo sottovalutarne l’urgenza. Il fatto è che nessuno di questi periodi antichi è in realtà un’analogia appropriata per il futuro che ci aspetta se le cose andranno male: ci sono voluti milioni di anni per produrre i climi del miocene o dell’eocene, mentre la velocità del cambiamento attuale è quasi senza precedenti nella storia della vita animale.

Esperimento pericoloso

Gli esseri umani stanno emettendo CO2 nell’aria dieci volte più velocemente che durante i periodi più estremi dell’era dei mammiferi. E per acidificare gli oceani in modo catastrofico non c’è bisogno che il pianeta diventi caldo come lo era all’inizio dell’eocene. L’acidificazione degli oceani è legata al tasso di emissioni di CO2 e potrebbe raggiungere il livello di 56 milioni di anni fa entro la fine di questo secolo, per poi continuare.

Nel 1963 il paleontologo statunitense Norman Newell scrisse un articolo, intitolato “Crisi nella storia della vita”, in cui coniò l’espressione “estinzione di massa”: si verifica quando l’ambiente cambia più velocemente di quanto l’evoluzione riesca a stargli dietro. La vita ha limiti di velocità. E infatti sta ancora cercando di mettersi al passo con il disgelo dell’ultima era glaciale di circa 12mila anni fa. Nel frattempo le nostre stagioni stanno diventando sempre più strane: i pigliamosche arrivano settimane dopo la schiusa delle uova dei bruchi che sono la loro preda; le orchidee fioriscono quando non ci sono api disposte a impollinarle. Il precoce scioglimento dei ghiacci marini ha portato a riva gli orsi polari, che hanno modificato la loro dieta. E questo solo con un grado di riscaldamento in più.

Stiamo imponendo al pianeta un ritmo di cambiamento che non si è quasi mai verificato nella sua storia geologica, e che impedisce a gran parte delle forme di vita di adattarsi.

Se prendiamo in considerazione l’intera storia della Terra, vediamo quanto sia innaturale, spaventoso e profondo l’attuale esperimento che stiamo conducendo. In pochi decenni una piccola popolazione della nostra particolare specie di primati ha liberato un enorme serbatoio di carbonio addormentato, che si era accumulato dagli albori della vita, e ha immolato il pianeta per alimentare il mondo moderno.

Di conseguenza, circa la metà delle barriere coralline tropicali sono morte, dieci miliardi di tonnellate di ghiaccio si sono sciolte, l’acidità degli oceani è aumentata del 30 per cento e le temperature globali sono salite. Chissà cosa succederà se continueremo su questa strada per un altro nanosecondo geologico. I prossimi fugaci momenti dipendono da noi, ma avranno conseguenze per centinaia di migliaia, forse milioni, di anni. Questo è uno dei periodi più importanti della storia della vita. bt

QUESTO ARTICOLO

Peter Brannen è un giornalista scientifico statunitense. I suoi articoli sono usciti sul New York Times, sul Washington Post e su Wired. Negli Stati Uniti ha pubblicato The ends of the world (Ecco 2017).

Le immagini fanno parte del progetto Flowering heights, in cui i fotografi Edoardo Delille e Giulia Piermartiri ritraggono persone che vivono sul massiccio del monte Bianco, dove i ghiacciai si stanno sciogliendo a una velocità preoccupante. L’obiettivo del progetto è “fondere due diverse realtà temporali per stimolare una riflessione su come abbiamo sempre considerato la montagna e le attività invernali e su come tutto cambierà nel giro di pochi anni”. Le foto sono state scattate tra gennaio e febbraio 2020.</div></div>