Domenica 24 - Paradiso di piante selvatiche

Da Sotto le querce.

Antonio Perazzi

6 settembre 2020

Verdissimo. Osservando le piante spontanee si comprende appieno la natura di cui facciamo parte. È quello che si impara leggendo Meir Shalev: accanto ad ambienti creati per stupire, ci sono quelli che aiutano a pensare.

Ho appena finito di leggere il libro di Meir Shalev intitolato Il mio giardino selvatico. Nelle prime pagine c’è una parte che si chiama «Invece di una prefazione» e inizia con un veloce racconto di una coppia di sposi accompagnati dalle rispettive madri, dal cameraman Yossi e dal fotografo Facey. Tutti insieme si trovano in un campo di papaveri, cardi e lupini selvatici nella valle di Jezereel, in Israele: sono lì per le foto di rito nel giorno del matrimonio. Shalev è il proprietario di quel luogo e vedendoli calpestare i suoi fiori, esce di casa e li apostrofa: «Siete in mezzo al mio giardino. Le due suocere si guardano sorprese e bisbigliano tra loro: “…a te pare un giardino questo?”. Lo sposo aggiunge: “Mio fratello, l’hanno fotografato qui due settimane fa e nessuno gli ha detto niente”. Colto di sorpresa Shalev è stranito: si ferma per qualche secondo, analizza la scena, poi ha un colpo di genio e ribatte: Fra tre minuti l’irrigazione automatica aprirà i rubinetti e così avrete modo di capire se è un giardino o campagna e basta». Ciò provoca l’immediata fuga di sposi, suocere e troupe.

Campagna o giardino? Fiori comperati o piante spontanee? Mi è bastato questo inizio per farmi immergere nella lettura perché il giardino selvatico di Shalev è anche il mio. In questi giorni, in Toscana a Piuca fa un caldo assatanato: i venti bollenti che mandano in letargo le mie piante sono probabilmente gli stessi che asciugano la Terra Santa, ma nessuno può negare che laggiù, come quaggiù, ci siano lo stesso dei giardini. Perfino quando manifestano la loro anima mediterranea anche senza effetti speciali o fioriture forzate.

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Carminio. Papaveri di campo.

Inutile dirlo, né a Piuca, né nel giardino di Shalev ci sono davvero impianti di irrigazione, le nostre piante lo sanno, si adeguano, ma non ci deludono mai: nemmeno quando sono temporaneamente ridotte a scheletri appassiti. Perché accanto ai giardini creati per stupire, ci sono quelli che aiutano a pensare. Sono fatti da ambienti veri e da un costante impasto di cose semplici: piante perfette, come fiori selvatici e idee profonde che scaturiscono dalla loro osservazione. Ragionamenti che si sviluppano nella praticità del quotidiano. Le specie selvatiche sono organismi auto-trofici che sanno trasmettere il senso del divino insito in una natura gratuita capace di alimentare la nostra sfera morale di giardinieri. Comprendere la natura di cui facciamo parte osservando le piante spontanee non può che elevarci a uno stadio superiore rispetto a quello che siamo come semplici creature. Ma Shalev sa che non tutti i giardinieri si possono trasformare in botanici e neppure in teologi, quindi riporta i suoi ragionamenti sulla botanica e sui testi sacri con leggerezza, da intellettuale. Scrive che lui è come suo nonno: si sono interessati più alle cose terrene che alla religione. Da una citazione del Cantico dei Cantici nasce una interessante considerazione sul clima e la capacità di rinascita delle piante, termine più simpatico di resilienza, quando viene collegato alla vegetazione mediterranea che, di fatto è l’alter-ego degli italiani: in continuo adattamento e rigenerazione dopo le crisi.

Che il giardino sia un luogo che avvicina al divino è scontato, ma che ci possa essere modo di trovare il paradiso nella convivenza con il mondo selvatico, non è tema altrettanto assodato e questo è il soggetto che mi ha incuriosito di più in questa lettura. Viviamo un momento storico di grande fragilità per il paesaggio ma abbiamo avuto modo di constatare di recente che la natura ha lo stesso enormi potenzialità. Lo abbiamo osservato stupefatti durante il lockdown quando il mondo selvatico si è manifestato rigenerandosi esponenzialmente. Interrogarsi sui limiti della nostra onnipotenza non è solo un tema legato alla religione ma un aspetto pratico della nostra relazione col pianeta. Sono un paesaggista, progettando giardini e altri paesaggi per l’uomo mi continuo a ispirare al lato spontaneo del territorio, assecondando le risorse, senza forzature. Me lo ha insegnato il mio giardino dove, lavorando senza confini e senza limiti di tempo, ho scoperto che l’ispirazione deve arrivare proprio nel dare spazio alle piante di esprimersi liberamente fino a instaurare una relazione sincera con noi e con il luogo. In tutto il Mediterraneo si vive in modo osmotico l’ambiente ma, contemporaneamente, con la medesima leggerezza,ci concediamo di oltraggiare il nostro territorio.

Nelle pagine di Shalev sui ciclamini e sulle scille, sui fichi e sui corbezzoli trovo le stesse esperienze fatte a Piuca, ma provo anche invidia nell’apprendere che in Israele la municipalità è così illuminata da invitare la cittadinanza a “salvare” le piante selvatiche, portandole via da un lotto di terreno destinato a uso edilizio. Leggendo i libri sui giardini ognuno ritrova gli argomenti che stava cercando, e io in questo, sono rimasto affascinato dallo scoprire radici culturali analoghe a una forma di misticismo universale che avevo già incontrato in Persia, e in una certa India antica che affonda le radici nella lingua sanscrita oltre che nella pratica di un’idolatria arcaica legata alla terra e alle stagioni.

In israeliano il frutto del fico si chiama te’enah, vocabolo assonante con ta’anah che vuol dire desiderio, eccitazione. Interessante considerato si tratti di un frutto che racchiude al suo interno fiori maschili e femminili che per essere fecondati necessitano della visita di una vespa (Blastophaga psenes) che per finalizzare il suo ciclo vitale deve spostarsi dall’embrione del frutto maschile a quello femminile. Le etimologie sono affascinanti anche per i giardinieri: il vocabolo israeliano per terra è adamah: adom (rosso), dam (sangue) e adam (uomo). Terra rossa, come quella che si colora di papaveri selvatici cui Shalev è particolarmente legato: con il loro colore carminio rappresentano la quintessenza della terra stessa, oltre che del sacrificio del lavoro per renderla fertile e produttiva. I rosolacci selvatici evocano sentimenti universali in tutte le culture: per gli inglesi i papaveri di campo sono il simbolo dei caduti in guerra. Io stesso facendo un progetto a Solferino, osservando i campi di papaveri a perdita d’occhio ai piedi della collina, non ho potuto fare a meno di tornare con la mente alla feroce battaglia di Solferino del 1859, quando i campi erano rossi ma del sangue dei caduti e dei feriti, tanto da dare origine al nome di un colore, il rosso solferino, e alla Croce Rossa che lì nacque proprio in quei giorni terribili.

La natura gratuita alimenta la nostra sfera morale di giardinieri.

Mi ha interessato molto anche il capitolo sul calendario in cui partendo dall’analisi di una antica tavoletta si immagina il giardino come un orologio analogico vivente, capace di segnare non solo l’ora del giorno, ma anche le stagioni e l’età di chi lo popola: piante e uomini. Va inoltre segnalato che questo libro è ben tradotto da Elena Loewenthal che mi piace pensare abbia contribuito a impreziosire il testo. Come la ricetta della pasta alla salvia, dove per descrivere le dosi si dice: se mandate un bambino a raccogliere la salvia chiedetegli di raccoglierne 5 o 6 rametti, ne basterebbe la metà ma considerate che hanno mani piccole capaci di raccogliere minori quantità. O dove si usa l’espressione: «una ricetta da fare con una persona che si ama». Grazie: fantastico, se dovessi scrivere ricette, vorrei farlo anche io così.

Il mio giardino selvatico
Meir Shalev. Bompiani, Milano, pagg. 336

Infine devo ammettere che leggendo i capitoli sull’ombra o il diserbare mi sono tornate in mente le lunghe chiacchierate che facevo con Pia Pera durante le nostre vacanze con i miei figli in Sicilia. Un po’ per l’ambiente mediterraneo che immagino analogo, un po’ perché il modo di ragionare è simile a quello di Pia. La ricordo discutere di vespe e scorpioni con lo stesso accorato stupore infantile di queste pagine, così come l’analisi dell’odore dei fiori di carrubo sembra essere uscito dalla penna e dal naso di Pia. Io invece mi sono ritrovato nel capitolo sugli animali del giardino, soprattutto in quello successivo, chiamato «Altri pericoli», che parla di certi visitatori che credono che per fare un giardino sia indispensabile conoscere tutti i nomi degli ibridi di rose e che per poterlo coltivare serva appunto un impianto di irrigazione.