Okakura Kakuzō

Da Sotto le querce.
« Chi non è in grado di riconoscere la piccolezza delle grandi cose che ha in sé, tende a trascurare la grandezza delle piccole cose negli altri. »
Okakura Kakuzō (岡倉覚三 Kakuzō Okakura) (Yokohama, 26 dicembre 1862 – 2 settembre 1913) è stato uno scrittore giapponese. Ha scritto con il nome di Tenshin (天心).
Okakura Kakuzō (岡倉覚三 Kakuzō Okakura) (Yokohama, 26 dicembre 1862 – 2 settembre 1913) è stato uno scrittore giapponese. Ha scritto con il nome di Tenshin (天心).

Lo zen e la cerimonia del tè

1906

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incipitIn origine il tè fu medicina, per poi trasformarsi in bevanda. Nella Cina dell’VIII secolo entrò a far parte del regno della poesia, come uno dei passatempi raffinati. Nel XV secolo il Giappone lo elevò a religione estetica – il tèismo. Si tratta di un culto fondato sull’adorazione del bello, in contrapposizione alle miserie della vita quotidiana. Il tèismo ispira purezza e armonia, il mistero della carità reciproca, il senso romantico dell’ordine sociale. Fondamentalmente è un culto dell’Imperfetto, e al tempo stesso un fragile tentativo di realizzare qualcosa di possibile in quell’impossibile che per noi è la vita.
incipitIn origine il tè fu medicina, per poi trasformarsi in bevanda. Nella Cina dell’VIII secolo entrò a far parte del regno della poesia, come uno dei passatempi raffinati. Nel XV secolo il Giappone lo elevò a religione estetica – il tèismo. Si tratta di un culto fondato sull’adorazione del bello, in contrapposizione alle miserie della vita quotidiana. Il tèismo ispira purezza e armonia, il mistero della carità reciproca, il senso romantico dell’ordine sociale. Fondamentalmente è un culto dell’Imperfetto, e al tempo stesso un fragile tentativo di realizzare qualcosa di possibile in quell’impossibile che per noi è la vita.

Tra i più importanti esteti che cercarono di proteggere, sul declinare del diciannovesimo secolo, la «gloria del mattino» [1] conservando durante il trapianto parte dell’antico terriccio attorno alle radici, vi fu Kakuzo Okakura, l’autore di quel piccolo classico che è The Book of Tea.


Questo fu il caso del giovane Okakura, poiché proprio nel cuore dell’occidentalizzazione, alla Tōkyō Imperiai University, apprese il valore della cultura nipponica studiando con l’insigne Ernest Fenollosa. Più di ogni altro, Fenollosa, americano del New England che aveva studiato a Harvard e si era recato in Giappone a insegnare filosofia, nutrendo un vivo interesse per le arti e la cultura tradizionali si oppose al processo di occidentalizzazione nelle arti e risvegliò una nuova comprensione dell’eredità originaria del Giappone.

I. La tazza dell'umanità

In origine il tè fu medicina, per poi trasformarsi in bevanda. Nella Cina dell’VIII secolo entrò a far parte del regno della poesia, come uno dei passatempi raffinati. Nel XV secolo il Giappone lo elevò a religione estetica – il tèismo [2]. Si tratta di un culto fondato sull’adorazione del bello, in contrapposizione alle miserie della vita quotidiana. Il tèismo ispira purezza e armonia, il mistero della carità reciproca, il senso romantico dell’ordine sociale. Fondamentalmente è un culto dell’Imperfetto, e al tempo stesso un fragile tentativo di realizzare qualcosa di possibile in quell’impossibile che per noi è la vita.

La filosofia del tè non è mero estetismo nella comune accezione del termine, giacché esprime, insieme all’etica e alla religione, la nostra concezione dell’uomo e della natura. È igiene, in quanto costringe alla pulizia; è economia, in quanto mostra che il benessere va ricercato nelle cose semplici, non in quelle complicate e costose; è geometria morale, in quanto definisce il rapporto armonico tra noi e l’universo. Rappresenta l’autentico spirito della democrazia orientale, giacché trasforma tutti coloro che gli sono devoti in aristocratici del gusto.


Chi non è in grado di riconoscere la piccolezza delle grandi cose che ha in sé, tende a trascurare la grandezza delle piccole cose negli altri.


C’è un fascino sottile nel gusto del tè, che lo rende irresistibile e ne favorisce l’idealizzazione. Gli uomini di spirito occidentali non tardarono a mescolare la fragranza del proprio pensiero con il suo aroma. Il tè non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè, e neppure la leziosa innocenza del cacao.


Perché il tèismo è l’arte di celare la bellezza così che la si possa scoprire, di accennare quello che non osiamo rivelare apertamente. È il nobile segreto di saper ridere di se stessi, pacatamente ma senza reticenze, ed è quindi lo humour stesso – il sorriso della filosofia.

II. Le scuole del tè

Anche per il tè, come per l’arte, esistono epoche e scuole. La sua evoluzione può esser suddivisa in tre fasi principali: quella del tè bollito, quella del tè sbattuto, e quella del tè infuso. Noi moderni apparteniamo a quest’ultima scuola. I diversi modi di gustare la bevanda denotano lo spirito dell’epoca nella quale ciascuno di essi fu predominante. Perché vivere significa esprimersi, e le nostre azioni inconsce rivelano sempre i nostri più intimi pensieri. Confucio diceva che «l’uomo non può nascondere nulla».


L’impasto di tè che veniva bollito, il tè in polvere che veniva sbattuto, quello in foglie che veniva preparato in infusione, indicano le diverse spinte emotive delle dinastie cinesi T’ang, Sung e Ming. E se volessimo adottare l’abusata terminologia utilizzata per la periodizzazione dell’arte, potremmo designare i tre periodi in questione come scuola del tè classica, romantica e naturalistica.


È di questa bevanda che Lu T’ung, poeta dell’epoca T’ang, scriveva: «La prima tazza mi inumidisce le labbra e la gola, la seconda rompe la mia solitudine, la terza fruga nelle mie sterili viscere per scovarvi migliaia di volumi di strani ideogrammi. La quarta tazza provoca una leggera sudorazione – tutto il male della vita stilla dai miei pori. Alla quinta tazza, eccomi purificato; la sesta mi conduce nel regno degli immortali. La settima – ah, non potrei berne ancora! Riesco solo a sentire il soffio di un vento fresco che alita nelle mie maniche. Dov’è Horaisan? 6 Lasciatemi cavalcare questa dolce brezza che mi trasporterà laggiù!».


Il tè Sung giunse da noi nel 1191, quando Eisai Zenji fece ritorno dalla Cina, dove si era recato a studiare la scuola dello zen meridionale. I nuovi semi che aveva portato in patria furono piantati con successo in tre località, una delle quali, il distretto di Uji presso Kyōto, è ancor oggi considerata il luogo in cui si produce il miglior tè esistente al mondo.

III. Taoismo e Zen

Il legame fra zen e tè è ben noto. Abbiamo già detto che la cerimonia del tè ebbe origine dal rituale zen. Anche il nome di Lao-tzu, il fondatore del taoismo, è intimamente legato alla storia del tè.


Letteralmente, Tao significa Sentiero. Molte volte è stato tradotto con Via, Assoluto, Legge, Natura, Ragione Suprema, Metodo. Queste traduzioni non sono sbagliate, dato che i taoisti usano il termine in modi diversi, a seconda del contesto. Lo stesso Lao-tzu ha detto: «Esiste una cosa che contiene tutto, nata prima che esistessero Cielo e Terra. Com’è silenziosa! Com’è solitaria! Se ne sta sola e non muta. Ruota su se stessa senza pericolo, ed è la madre dell’Universo. Con riluttanza la chiamo Infinito. Infinito è Fugacità, Fugacità è Svanire, Svanire è Ritornare». Il Tao è nel Passaggio, più che nel Sentiero. È lo spirito del Mutamento Cosmico, l’eterno sviluppo che ritorna su se stesso per dar vita a nuove forme. Si ritorce su se stesso come il drago, simbolo prediletto dei taoisti. Si addensa e si squarcia come fanno le nuvole. Si potrebbe parlare del Tao come della Grande Transizione. Dal punto di vista del soggetto, è il modo di essere dell’Universo. Il suo Assoluto è il Relativo.


Il germe della speculazione taoista può essere rintracciato molto prima della comparsa di Lao-tzu, soprannominato Lunghe Orecchie. Gli antichi testi cinesi, e in particolare il Libro dei Mutamenti. anticipano il pensiero di Lao-tzu.


Il maggior contributo che il taoismo ha dato alla vita asiatica è nel campo dell’estetica. Gli storici cinesi hanno sempre parlato del taoismo come dell’«arte di stare al mondo», giacché si occupa del presente, e di noi stessi. È in noi che avviene l’incontro fra Dio e la Natura, e ieri è disgiunto da domani. Il presente è l’Infinito in movimento, la legittima sfera del Relativo. Il Relativo cerca l’Armonia, e l’Armonia è Arte. L’arte del vivere consiste in una continua ricerca di armonia rispetto a quel che ci circonda. Il taoismo accetta l’esistente così com’è, e diversamente dal confucianesimo e dal buddhismo cerca di trovare la bellezza in questo mondo di sofferenze e di affanni.

I taoisti sostenevano che la commedia della vita sarebbe molto più interessante se ognuno si sforzasse di preservarne l’armonia. Mantenere il senso delle proporzioni fra le cose e lasciare spazio agli altri senza perdere il proprio; è questo il segreto del successo nel dramma terreno. Per ben recitare la propria parte, bisogna conoscere l’intera opera; il senso della totalità non deve mai perdersi in quello dell’individuo. Lao-tzu spiega questo concetto per mezzo della sua metafora preferita, quella del vuoto. Sosteneva che solo nel vuoto si trova ciò che è veramente essenziale. La realtà di una stanza, ad esempio, va ricercata nello spazio vuoto delimitato dal tetto e dalle pareti, e non nel tetto e nelle pareti in sé. L’utilità di una brocca consiste nel vuoto nel quale l’acqua può esser versata, e non nella forma della brocca o nel materiale di cui è fatta. Il vuoto è onnipotente perché contiene ogni cosa. Solo nel vuoto il movimento è possibile. Colui che riuscisse a fare di sé un vuoto in cui gli altri potessero entrare liberamente riuscirebbe a dominare ogni situazione. L’intero può sempre dominare la parte.


Il Vero Uomo, secondo i taoisti, è colui che ha fatto di se stesso un maestro nell’arte del vivere. Al momento della nascita entra nel regno dei sogni, e solo con la morte si risveglia alla realtà. Attenua la propria luce per confondersi con l’oscurità altrui. È «riluttante come chi d’inverno attraversa un torrente; è esitante come chi ha paura di quanto lo circonda; è ossequioso come un ospite; è tremante come il ghiaccio che sta per sciogliersi; è senza pretese come un pezzo di legno non ancora scolpito; è sgombro come una vallata; è privo di forma come le acque quando sono agitate». Per il Vero Uomo i tre gioielli della vita sono la pietà, la parsimonia e la modestia.

Se rivolgiamo ora la nostra attenzione allo zen, scopriremo che esso accentua gli insegnamenti del taoismo. Il termine zen deriva dalla parola sanscrita dhyāna. che significa «meditazione». Secondo lo zen, attraverso la meditazione sacra è possibile raggiungere la suprema realizzazione di se stessi.


Lo zen, come il taoismo, è il culto del Relativo. Secondo la definizione di un maestro, lo zen è l’arte di vedere la stella polare nella parte meridionale del cielo. La verità si raggiunge soltanto mediante la comprensione degli opposti. Inoltre, lo zen è un deciso fautore dell’individualismo, al pari del taoismo. Niente è reale, se non quello che esiste nella nostra mente.


Per la trascendentale intuizione zen, le parole non sono che un ostacolo al pensiero.

IV. La stanza del tè

C’è un racconto riguardante Rikyū che illustra mirabilmente la concezione dei maestri del tè sulla pulizia. Rikyū stava osservando il figlio Shōan mentre spazzava e innaffiava il sentiero del giardino. «Non è abbastanza pulito» disse Rikyū quando Shōan ebbe concluso il suo lavoro, e gli ordinò di ricominciare. Dopo aver faticato per un’ora, il figlio si rivolse a Rikyū: «Padre, non rimane più niente da fare. I gradini sono stati lavati per la terza volta; le lanterne di pietra e gli alberi sono irrorati d’acqua; muschio e licheni brillano di un verde rugiadoso; non ho lasciato per terra neppure un rametto o una foglia». «Giovane stolto,» lo rimproverò il maestro del tè «non è questo il modo di pulire il sentiero di un giardino». Così dicendo, Rikyū entrò nel giardino, scrollò un albero e sparse ovunque foglie dorate e cremisi, frammenti del broccato autunnale. Rikyū esigeva non solo pulizia, ma anche bellezza e naturalezza.

Per gli architetti europei, educati secondo il metodo tradizionale delle costruzioni in pietra e mattoni, la tecnica costruttiva giapponese, che utilizza il legno e il bambù, non è degna di essere considerata architettura. Solo di recente uno studioso occidentale ha riconosciuto e onorato la mirabile perfezione dei grandi templi giapponesi [3]. Se questa incomprensione investe la nostra architettura classica, non potremo certo aspettarci che uno straniero apprezzi la sottile bellezza della stanza del tè, i cui princìpi costruttivi e decorativi sono completamente diversi da quelli occidentali.

La stanza del tè (sukiya) non vuol essere niente di più che un semplice cottage – una capanna di paglia, come noi la chiamiamo. I caratteri originari per sukiya significano Dimora della Fantasia. Successivamente, i diversi maestri del tè sostituirono i caratteri cinesi2 in base alla propria concezione della stanza del tè. Il termine sukiya può anche significare Dimora del Vuoto oppure Dimora dell’Asimmetrico. È Dimora della Fantasia in quanto struttura effimera costruita per ospitare un impulso poetico. È Dimora del Vuoto in quanto priva di ornamenti, a eccezione di quel che vi può essere collocato per appagare un’esigenza estetica contingente. È Dimora dell’Asimmetrico in quanto consacrata al culto dell’Imperfetto; si lascia volutamente qualcosa di incompiuto affinché sia l’immaginazione a completarlo. A partire dal XVI secolo, gli ideali del tèismo hanno esercitato una profonda influenza sulla nostra architettura, al punto che gli interni della tipica casa giapponese dei nostri giorni comunicano agli stranieri un’impressione di vuoto, a causa dell’estrema semplicità e del rigore del suo schema decorativo.

La separazione della stanza del tè dal resto della casa fu ideata per la prima volta da Sen-no-Sōeki, il più grande fra tutti i maestri del tè, generalmente conosciuto con il nome da lui successivamente assunto di Rikyū. Nel XVI secolo, sotto il patronato del taikō Hideyoshi,3 Rikyū istituì e perfezionò il rituale della cerimonia del tè. Le proporzioni della stanza del tè erano già state fissate da Jōō, un famoso maestro vissuto nel XV secolo. Inizialmente la stanza del tè non era che una parte del soggiorno, isolata da paraventi in funzione delle riunioni per il tè. La parte così delimitata veniva chiamata kakoi (recinto), termine con cui ancor oggi si designano le stanze del tè costruite all’interno della casa, e dunque non indipendenti. La sukiya è composta dalla stanza del tè vera e propria, progettata per accogliere non più di cinque persone, numero che evoca il detto «più delle Grazie e meno delle Muse»; da un’anticamera (mizuya), nella quale gli utensili vengono lavati e preparati prima dell’uso; da un portico (machiai), dove gli ospiti attendono l’invito a entrare, e infine da un sentiero nel giardino (rōji), che collega il machiai alla stanza del tè vera e propria. Quest’ultima ha un aspetto ben poco appariscente. È più piccola della più piccola casa giapponese, e i materiali con cui è stata costruita devono dare l’impressione di una raffinata povertà. Eppure dobbiamo tener presente che tutto questo è il risultato di una profonda elaborazione artistica, e che i dettagli sono frutto di una cura più grande di quella utilizzata nella costruzione di templi e di palazzi sontuosi.


Negli interni giapponesi classici, gli arredi erano disposti in modo assolutamente regolare. Ma ben diverso era il concetto di perfezione formulato dal taoismo e dallo zen. La natura dinamica della loro filosofia tendeva ad accentuare l’importanza del processo che conduce alla perfezione, più che la perfezione in sé. L’autentica bellezza poteva esser colta solo da chi avesse con la propria mente completato l’incompleto. La virilità della vita e dell’arte risiede nelle rispettive capacità di sviluppo. Nella stanza del tè ogni ospite può, con l’immaginazione, completare l’effetto d’insieme, a seconda della propria sensibilità. Da quando lo zen è diventato il sistema di pensiero predominante, l’arte estremo-orientale ha deliberatamente evitato la simmetria, in quanto essa rappresenta non solo la completezza, ma anche la ripetizione. L’uniformità del disegno veniva considerata deleteria per la freschezza dell’immaginazione. Paesaggi, uccelli e fiori divennero così i soggetti preferiti della pittura, al posto della figura umana già presente nella persona dell’osservatore. Ci mettiamo sin troppo in mostra anche così; nonostante la nostra vanità, persino l’autoconsiderazione può diventare monotona.

Nella stanza del tè il timore della ripetizione è una costante. I diversi oggetti per l’arredamento di una stanza dovrebbero esser scelti in modo tale da evitare qualsiasi ripetizione di colori o motivi. Se c’è un fiore vero, non sono ammessi fiori dipinti. Se il bollitore è rotondo, il bricco dovrà esser spigoloso. Una tazza di smalto nero non dovrà essere accompagnata a una scatola per il tè in lacca nera. Quando disponiamo nel tokonoma un vaso o un bruciaprofumi, dobbiamo aver cura di non situarlo esattamente nel centro, perché non divida lo spazio in parti uguali. La colonna del tokonoma dovrebbe essere di un legno diverso da quello delle altre colonne, al fine di evitare ogni effetto di uniformità.

V. Apprezzare l'arte

La comunione simpatetica degli animi, necessaria per il godimento estetico, deve fondarsi su concessioni reciproche. L’osservatore deve coltivare la disposizione d’animo atta a ricevere il messaggio, mentre l’artista deve conoscere il modo di trasmetterlo. Il maestro del tè Kobori Enshū, che era un daimyō. ha lasciato queste memorabili parole: «Avvicinati a un grande dipinto come se ti avvicinassi a un grande principe». Per comprendere un capolavoro, dobbiamo inchinarci al suo cospetto e attendere, con il fiato sospeso, che si manifesti. Un illustre critico dell’epoca Sung fece un giorno un’affascinante confessione: «Quand’ero giovane, lodavo il maestro del quale amavo i dipinti, ma con l’evolversi della mia capacità di giudizio ho cominciato a elogiare me stesso, perché riuscivo ad apprezzare quello che i maestri volevano che io amassi».

Note

  1. La «gloria del mattino» (o convolvolo) rappresenta, nella tradizione giapponese, il simbolo della fugacità della vita, a causa del suo schiudersi al mattino per sfiorire poche ore dopo.
  2. In inglese Teaism. Con questo termine l’Autore indica il culto del tè.
  3. Ci riferiamo a Ralph N. Cram, Impressions of Japanese Architecture and the Allied Arts. The Baker & Taylor Co., New York, 1905.