Norwegian Wood - Lars Mytting

Da Sotto le querce.
« Questo libro è dedicato in gran parte ai metodi, perché è attraverso essi che si esprime il sentimento. »
Lars Mytting, Norwegian Wood. Il metodo scandinavo per tagliare, accatastare & scaldarsi con la legna. UTET (Torino, 2016)
Lars Mytting, giornalista e scrittore, ha pubblicato tre romanzi di grande successo in Norvegia, ma è con Norwegian Wood, già tradotto in 10 paesi, che è diventato una vera celebrità: ha venduto più di 500 000 copie, ha ispirato libri da colorare, programmi televisivi e contest fotografici a tema, mentre sui social network è esplosa la #NorwegianWood mania.
Lars Mytting, giornalista e scrittore, ha pubblicato tre romanzi di grande successo in Norvegia, ma è con Norwegian Wood, già tradotto in 10 paesi, che è diventato una vera celebrità: ha venduto più di 500 000 copie, ha ispirato libri da colorare, programmi televisivi e contest fotografici a tema, mentre sui social network è esplosa la #NorwegianWood mania.

Indice

Il vecchio e la legna

E invece era proprio la stagione giusta, come in seguito mi spiegò Ottar: la legna si acquista in aprile-maggio, perché non è ancora stagionata, così la si può essiccare a piacimento, il prezzo è più basso e la disponibilità sul mercato è maggiore.

Questo libro è dedicato in gran parte ai metodi, perché è attraverso esso che si esprime il sentimento.

Il gelo

I consumi annui in Norvegia, Svezia e Finlandia si aggirano rispettivamente intorno ai 300, 340 e 390 kg pro capite, e la popolosa Svezia consuma da sola tre milioni di tonnellate all’anno.

Il buonsenso del benessere

C’è una netta differenza qualitativa fra il calore di un radiatore elettrico e quello di una stufa a legna. In primo luogo, la stufa è rovente. Non si riesce a scaldarsi i piedi con una pompa di calore, e il radiatore impiega un certo tempo a scacciare il gelo dalla casa. Ben poche stufe elettriche salgono al di sopra dei 2000 W, mentre una stufa di ghisa, anche di piccole dimensioni, non fatica a fornire 6000 W, e molte di esse raggiungono addirittura i 14 000. Da un punto di vista puramente scientifico, il calore è calore, indipendentemente dal fatto che provenga da una fonte elettrica o da una combustione, ma il corpo umano reagisce diversamente al calore intenso di una stufa a legna, anche perché quelle moderne, che hanno lo sportello in vetro, irradiano calore elettromagnetico. Le normali stufe elettriche e le pompe di calore possono soltanto riscaldare l’aria della stanza in cui si trovano, mentre le fiamme e le braci emettono raggi infrarossi che hanno le stesse qualità della luce solare e scaldano la pelle e il corpo con un’intensità che dà un senso di sicurezza e benessere. È leggermente diverso anche il clima dell’abitazione. Il consumo di ossigeno fa circolare l’aria, e la stufa risucchia gran parte della polvere. Se a questo aggiungiamo l’odore del legno, quello del fumo e lo spettacolo delle fiamme che continuano a cambiare forma, ecco che facciamo esperienza della magia originaria del falò.

Energia e cultura popolare

Ecco perché in Norvegia, in tutte le case al di sopra di una certa dimensione, è obbligatorio disporre una fonte di riscaldamento in più; fonte che, di fatto, è sempre una stufa a legna. Ed è interessante notare che questa norma non è stata fissata dalle autorità edilizie, ma dalla protezione civile. Il motivo è semplice: una stufa e una legnaia sono una garanzia contro il panico collettivo e l’evacuazione. E non solo per l’energia in sé, ma anche per i vantaggi pratici che la legna presenta: può essere distribuita ai vicini che ne sono rimasti senza, non si esaurisce, non dipende da un cavo di alimentazione, si accende con un semplice fiammifero, si conserva da un anno all’altro e funziona anche se è di qualità non ottimale.

Non c'è fuoco senza fumo?

Ed è qui che sopraggiunge una delle grandi domande del nostro tempo: è possibile bruciare legna rispettando l’ambiente? Le stufe a legna emettono CO2, eppure le si considera ecologiche in quasi tutti gli ambiti scientifici, per un motivo molto semplice: gli alberi assorbono anidride carbonica mentre crescono, ma prima o poi questo gas ritorna da dove è venuto. Che l’albero muoia in modo naturale, o che invece finisca nella stufa, libera esattamente la stessa quantità di CO2. Il poeta Robert Frost, nel descrivere un albero che marcisce, parlava di «combustione senza fumo»: the slow smokeless burning of decay.

Usare la legna come combustibile è un modo efficace per sfruttare il miglior pannello solare che esista in natura. Semplicemente, il processo di estrazione dell’energia avviene in casa anziché all’aperto. Gli alberi hanno un’incredibile capacità di assorbire CO2, ma non vivono in eterno: prima o poi – trent’anni per alcune specie, diversi secoli per altre – muoiono e cominciano a marcire, e l’anidride carbonica assorbita viene riemessa nella stessa quantità.

Oltretutto, gli alberi assorbono CO2 soprattutto quando sono giovani, mentre stanno crescendo. Quindi, abbattendo quelli più vecchi, ringiovaniremmo la foresta e aumenteremmo l’assorbimento di CO2, almeno per un certo periodo.

Perciò, il fuoco alimentato a legna non aumenta l’emissione di gas serra, finché il consumo è pari alla crescita delle foreste.

Il vero problema ambientale del fuoco a legna, soprattutto nelle aree urbane, è ciò che esce dai comignoli. C’è chi crede che da una casa riscaldata a legna debba salire del fumo, ma non è proprio così.

In termini di emissioni, la differenza tra una combustione corretta e scorretta è colossale. Con una stufa a combustione pulita, alimentata con legna di qualità, è quasi impossibile capire dall’esterno se in casa c’è un fuoco acceso. Anzi, se la combustione è ottimale, per sentire odore di fumo bisogna letteralmente arrampicarsi sul tetto e cacciare la testa dentro al comignolo. Ogni potenziale inquinamento viene bruciato e convertito in calore. Se invece la combustione avviene nel modo sbagliato, può portare a una quantità sterminata di fumo e fuliggine, in grado di ammorbare un intero quartiere. Ma bastano pochi accorgimenti per ridurre drasticamente le emissioni di qualunque tipo di stufa o caminetto: è sufficiente acquistare legna di buona qualità e conoscerne i processi di combustione.

Una ricerca dimostra che in Norvegia il riscaldamento a legna è molto più pulito rispetto a trent’anni fa. Nelle moderne stufe a combustione pulita, la legna di buona qualità dà meno del 5% delle emissioni di una vecchia stufa utilizzata in modo scorretto (mediamente, quattro o cinque grammi per chilogrammo di legna bruciata). Le migliori stufe norvegesi e danesi hanno un livello di emissioni di 1,25 g/kg, mentre quelle vecchie ne danno 40 o 50 g/kg, o anche più, perfino quando vengono utilizzate nel modo corretto. Di pari passo, aumenta anche l’efficienza: oggi esistono stufe che sfruttano fino al 92% dell’energia del legno.

L'energia senza troppa burocrazia

Per il consumo privato, non occorre altro che una motosega, un’accetta e un’automobile con rimorchio. Due persone in buona salute, in una sola settimana di lavoro, sono in grado di mettere da parte una legnaia da 12 000 kWh, che corrisponde all’incirca a sette o otto rimorchi pieni. Quindi, se il bosco non è troppo lontano, fra il trasporto e il rifornimento della motosega bastano venti o trenta litri di benzina.

Il popolo della legna

La betulla in Norvegia è da sempre considerata la regina del focolare. Cresce molto in altezza, non ha molti rami e si spacca facilmente. Questa foresta di betulle, molto curata, si trova vicino a Fåvang (Gudbrandsdalen). La maggior parte degli alberi è stata piantata vent’anni fa, e il sottobosco è stato ripulito a intervalli regolari.

Arne ricava la legna da diversi appezzamenti boschivi vicini alla sua fattoria, ma ce n’è uno al quale è particolarmente affezionato, frutto di una gestione meticolosa.

Arne ha incominciato a curare il suo bosco, come se ogni betulla fosse stata un rosaio. L’ha sfoltito tre volte, ottenendo alberi di altezze diverse. Un lavoro gravoso. Sua moglie scuoteva la testa nel vederlo alzarsi prestissimo per andare a scuotere le betulle affinché la neve non le piegasse. Ma ora tutti e due possono andar fieri del risultato: i tronchi sono dritti come fusi e si ergono fino a nove metri prima di separarsi in rami. Oltre alla legna, Arne preleva la corteccia delle piante migliori, che è liscia come cuoio e molto richiesta sul mercato.

La foresta

Quasi tutti i tipi di albero hanno un tronco allungato e, se crescono fitti, nella parte bassa hanno soltanto ramoscelli di piccole dimensioni. Se invece crescono in uno spazio aperto e assolato non raggiungono una grande altezza e sviluppano rami robusti su tutta la lunghezza del tronco. Solo quando sono stretti l’uno all’altro si protendono verso l’alto, perché devono contendersi la luce.

Per i boscaioli, è raro che l’albero più ambito sia quello più grosso. Quasi tutti i tipi di albero, fra i venti e i quarant’anni, hanno raggiunto una dimensione ragguardevole ma ancora gestibile. Dopo quell’età, sono talmente grossi che diventa troppo macchinoso trasportarli fino al rimorchio.

Nei boschi

A piena velocità, la catena scorre a 70 km/h, e calcolando entrambi i lati il taglialegna si ritrova in stretta vicinanza con più di mille famelici denti al secondo.

C’è una regola importante, da seguire sempre: l’albero va abbattuto con due tagli, il primo dei quali deve penetrare per ¼ del diametro del tronco, in modo da ottenere una caduta controllata, nella direzione desiderata. Il secondo va praticato dal lato opposto, e deve fermarsi a pochi centimetri dal limite del primo, dimodoché la parte non tagliata funga da cerniera sulla quale l’albero si piegherà con un movimento fluido. Se il tronco non è perfettamente dritto, questo secondo taglio può essere adattato all’inclinazione dell’albero in modo da regolare la direzione di caduta, ma apprendere questa tecnica da un libro è come seguire un corso di tango per corrispondenza.

Durante la sramatura si rischiano incidenti. L’accorgimento più importante è quello di posizionarsi da un lato dell’albero e sramare la parte opposta, con la barra della sega appoggiata al tronco.

Pasti completi, non spuntini

Quello del boscaiolo è un mestiere impegnativo. La Norvegia, che negli anni sessanta aveva una commissione statale volta all’aumento di consumo di cippato da ardere, ha ovviamente anche una commissione per l’alimentazione e l’attività fisica, i cui rapporti mostrano che il lavoro del boscaiolo è uno dei più gravosi che ci siano. Trascinare tronchi per un’ora brucia fino a 1168 kcal, spaccare legna con un’accetta ne consuma 444. Per fare un confronto, passare un’ora a guardare la televisione ne brucia 74, a lavare il pavimento 281, lo sci di fondo 405, spalare la neve 481, il calcio 510, l’aerobica pesante 814. L’unica attività che comporti un dispendio di energie maggiore del trascinamento di tronchi è la corsa veloce: 1213 kcal/h.

Uno studio condotto da un’università svedese sulle consegne di viveri agli operai forestali del Norrland mostra un consumo giornaliero di 9300 kcal a testa. Questa quantità può sembrare esagerata, perché noi siamo abituati a lavori d’ufficio, che richiedono solo 2000-3000 kcal al giorno, ma l’operaio forestale aveva un fabbisogno quotidiano non troppo distante dal massimo consumo energetico mai attestato: quello delle spedizioni polari con sci e slitta, 12 000 kcal al giorno.

La ricerca mostra che i boscaioli di oggi, lavorando con una motosega, bruciano circa 6000 kcal al giorno, che grosso modo corrispondono al fabbisogno dei soldati durante le esercitazioni al combattimento. Non è un caso se, nelle forze armate norvegesi, le razioni liofilizzate quotidiane contengono 5000 kcal.

I vecchi metodi sono ancora buoni

Un metodo ancora attuale è quello di abbattere un albero tagliandolo a circa 80-100 cm dal suolo, badando a farlo restare parzialmente attaccato al ceppo, e poi lo si srama. Dopodiché, si abbattono altri tre alberi, facendoli cadere di traverso sul primo, così resteranno sollevati da terra e la sramatura sarà più agevole. In più, grazie a questo sistema, non si corre il rischio che i tronchi affondino nella neve.

Per il trasporto di grossi tronchi lungo una discesa, esiste un sistema collaudatissimo, che consiste nell’abbattere due o tre alberi in modo che cadano paralleli alla pendenza e poi sramarli, per usarli come scivolo su cui far rotolare i tronchi successivi.

La stagione dell'abbattimento

Il tagliaboschi che rispetta le leggi della natura e delle stagioni viene ricompensato con generosità. Per le latifoglie, dato il loro ciclo annuale, il periodo migliore per l’abbattimento è l’inverno o l’inizio della primavera, prima della gemmazione, quando il legno è meno umido e dunque l’essiccazione è più efficace. Tutti i boscaioli sanno che il periodo in cui l’albero contiene meno umidità è l’inverno, ma la differenza è quasi sempre del 10-20%, non di più. Di solito la linfa comincia a crescere qualche settimana prima della foliazione, e il tasso di umidità raggiunge il picco intorno a maggio. Spesso sembra che il legno sia assai più umido, ma solo perché nella stagione calda l’acqua scorre più rapida e, all’abbattimento dell’albero, si osserva un vivo gocciolio di linfa, ma quando l’albero mette il fogliame l’umidità evapora.

Nel frassino, d’inverno, l’umidità è appena al 34%, mentre altri tipi d’albero si assestano fra il 45% e il 60% nell’arco dell’intero anno. In gran parte del Nord Europa, la betulla ha il tasso di umidità più basso fra luglio e agosto, mentre l’abete rosso lo raggiunge già all’inizio dell’estate.

L’abbattimento invernale presenta notevoli vantaggi, per esempio tempi di essiccazione più lunghi. In Norvegia, la dicitura «essiccata in primavera» su una partita di legna è un marchio di qualità, perché la primavera è la stagione meno umida. Di fatto, l’essiccazione incomincia quando si è ancora sotto zero, e se l’albero è stato abbattuto in gennaio, a marzo il legname ha già sviluppato delle belle crepe. Anche la spaccatura dei ciocchi è più facile a temperature inferiori allo zero, e se il terreno è innevato il lavoro è molto più pulito. Se il terreno è ghiacciato, non verrà rovinato dagli pneumatici dei mezzi che trasportano la legna. In più, il freddo impedisce il proliferare dei funghi e delle muffe (quasi tutte le specie attecchiscono solo al di sopra dei 5° C). In certe latifoglie, la linfa estiva accresce il contenuto di zuccheri e sali minerali, rendendoli più vulnerabili ai funghi. Oltretutto, in inverno gli insetti sono ancora in letargo: se al loro risveglio, in primavera, la legna è abbastanza asciutta, i parassiti non riescono a far presa. Tuttavia, quando la neve è alta è difficile lavorare, soprattutto se si ha bisogno di raccogliere grandi quantità di legna. Perciò, in Norvegia, è tradizione abbattere gli alberi verso Pasqua, in modo che i tronchi possano essere trascinati sulla poca neve rimasta.

Abbattimento estivo

Se, per un motivo o per l’altro, non si ha modo di accingersi all’abbattimento prima dell’inizio della tarda primavera, non c’è motivo di disperare: d’estate, l’essiccazione del legname – perfino quando è zuppo d’acqua – è più rapida di quanto non si pensi. Tuttavia, è consigliabile ricorrere a un metodo diverso, cioè non sramare l’albero, e metterlo ad asciugare con tutto il fogliame. La pianta non sa di essere stata abbattuta, dunque le foglie continuano a crescere e a trarre nutrimento dal tronco, risucchiandone l’umidità. (Curiosamente, gli alberi decidui abbattuti in inverno, dunque prima della gemmazione, dopo un po’ mettono foglie.) Grazie a questo sistema, l’umidità scende drasticamente già dopo qualche giorno, generalmente dal 50% al 35%. Nel giro di poche settimane, a seconda della stagione e della dimensione dell’albero, le foglie appassiscono, ma il legno non è ancora abbastanza asciutto da poter essere usato come combustibile: comunemente, ha un tasso di umidità che si aggira intorno al 30%. Perciò, questa è soltanto un’essiccazione preliminare, che cessa non appena il fogliame è vizzo. Dunque è importante continuare a osservare l’albero: non appena ha le foglie secche, va subito sramato, diviso e spaccato in ciocchi, che poi vanno messi ad asciugare per bene in modo che siano pronti entro l’arrivo dell’inverno. Se il tasso di umidità è alto, c’è il rischio che la legna sia asciutta soltanto l’anno successivo, e questo metodo servirà soltanto per gli alberi più piccoli, destinati alle cippatrici. È stato dimostrato che anche gli aghi delle conifere risucchiano l’umidità dal tronco, se l’albero abbattuto non viene sramato, ma il processo è troppo lento per poter essere sfruttato.

Un altro metodo per accelerare l’essiccazione nel bosco, in estate come in inverno, è quello di praticare incisioni longitudinali nella corteccia, con un’accetta o con una motosega, in modo che l’umidità possa fuoriuscirne. Se l’albero è gelato è difficile inciderlo con un’accetta, ma sopra lo zero la corteccia si stacca a strisce lunghe e dritte. Questa tecnica può essere combinata con quella dell’essiccazione senza sramatura.

La legna che non si asciuga mai

Dunque abbattere in estate non è esattamente l’ideale, ma è fattibile. Se invece si abbatte nei mesi successivi, la legna avrà una qualità nettamente inferiore. Sono in molti a ritrovarsi alle prese con alberi che non si asciugano mai, soprattutto se sono stati abbattuti in autunno e sono dovuti restare nel bosco per un certo tempo, o se sono stati accatastati ancora umidi. In quel caso, non c’è essiccazione che tenga.

Sono stati esaminati alberi abbattuti in ognuna delle quattro stagioni, essiccati in uno spazio aperto oppure nel folto della foresta, scortecciati oppure no. Questi esperimenti hanno dimostrato che le latifoglie, se non vengono essiccate per bene fin dal principio, avranno sempre un tasso di umidità superiore rispetto a quelli che sono stati messi ad asciugare immediatamente. Se l’umidità resta all’interno del legno per un periodo protratto, ha inizio il naturale processo di decomposizione. Questo non implica necessariamente che l’albero marcisca o venga consumato dai funghi, ma i batteri attecchiscono e, in parole povere, formano una pellicola mucida intorno alle fibre del legno. E questa pellicola imprigiona l’umidità, cosicché nessuna essiccazione sortirà mai il risultato desiderato, e la qualità della legna sarà più bassa.

Questa pellicola produce due effetti negativi. Il primo è quello d’impedire all’acqua di evaporare del tutto, facendo sì che il contenuto di umidità non scenda mai al livello ottimale. Il secondo è quello d’impedire il contatto tra le fiamme e la fibra di legno, rallentando la combustione. Ma non è finita: la decomposizione produce a sua volta altra umidità – la cosiddetta “acqua metabolica” – che non incide minimamente sull’aspetto esteriore della legna. E qui sta la fregatura: sembrano ciocchi normalissimi, ma faticano a prendere fuoco e scaldano ben poco.

La legna secca, invece, non marcisce. Ecco perché è importante non lasciare i tronchi nel bosco: bisogna portarli a casa, segarli, spaccarli e mettere i ciocchi a essiccare il prima possibile, compatibilmente con gli altri lavori da svolgere. La betulla e il faggio sono particolarmente vulnerabili ai funghi. Le conifere con molta resina, come l’abete rosso e il pino, sono già più resistenti e possono resistere a un’attesa nel bosco. Esistono anche funghi che non decompongono il legno, ma agiscono sulle fibre, facendo sì che assorbano l’umidità dell’aria. Il rischio di un attacco da parte di questi funghi è maggiore in estate, quando l’albero ha un’umidità relativa del 30-40%. Queste specie sono attive al di sopra del 20% di umidità, ma non incidono più di tanto sulla qualità della legna.

Accendere il fuoco con legna attaccata da questi funghi non comporta nessun rischio per la salute: le spore di queste specie non sono dannose per le vie respiratorie, perlomeno non nei pochi minuti necessari a prelevare i ciocchi dalla legnaia e depositarli nella cesta accanto alla stufa.

I funghi che crescono su un ciocco non si propagheranno al resto della legnaia, se gli altri ciocchi sono asciutti: per attecchire hanno bisogno dell’umidità. In compenso, si trasmettono facilmente al legno verde anche a una certa distanza, perché le spore viaggiano nell’aria.

Insetti e parassiti

Per evitare gli insetti, occorre un’essiccazione rapida e ariosa, ma ci sono casi – per esempio quando l’albero è abbattuto da una raffica di vento – in cui non è possibile. La legna infestata dagli insetti deve sempre essere conservata all’aperto fino all’utilizzo, e un buon trucchetto è quello di tenerla da parte per un periodo molto freddo. La si porta in casa poco alla volta e la si brucia nel giro di poche ore. Con il gelo, infatti, gli insetti vanno in letargo, e si svegliano quando ormai il fuoco li sta bruciando.

L'importanza della luna

In Norvegia c’è ancora chi segue la tradizione di abbattere alberi in determinate fasi lunari. È una pratica che ha radici antichissime in tutta Europa, e la regola è molto precisa: l’albero va abbattuto nei giorni immediatamente successivi al plenilunio, ossia in luna calante. Era convinzione comune che in tal modo l’essiccazione fosse più rapida, e che la legna assorbisse meno umidità dall’aria fredda dell’autunno.

Studi moderni, fra cui una ricerca condotta in Svizzera, che dimostrano che gli alberi sono influenzati dalle fasi lunari. Appena prima del plenilunio, il diametro del tronco è leggermente maggiore, e torna a ridursi nel corso dell’ultimo quarto. Il contenuto di umidità non varia. Ma questo non vale per tutte le specie di alberi, e nemmeno per tutte le stagioni.

I ricercatori hanno appurato che il fenomeno è più evidente nel castagno e nell’abete rosso nei 3-5 giorni che precedono e seguono il plenilunio, tra novembre e febbraio. Nel resto dell’anno, non si osserva alcun cambiamento. L’essiccazione è più rapida in luna calante, proprio come afferma la tradizione. È vero però che queste differenze sono troppo piccole per avere un’utilità pratica: oscillano fra il 4% e il 12%, e riguardano soprattutto il legno destinato ai mobilifici e alle liuterie.

Il peso in kW

In silvicoltura, da molto tempo vige l’abitudine di calcolare approssimativamente il volume di un tronco moltiplicandone l’altezza per la circonferenza a 130 cm dal suolo (140 negli Stati Uniti). I criteri variano da specie a specie, ma in linea di massima una betulla alta 15 m con un diametro di 15 cm all’altezza del nostro petto avrà un volume di 0,12 m3, che corrisponde a circa 70 kg di legna essiccata, che in una stufa con un rendimento del 75% daranno 225 kWh. Ora, se l’elettricità ci costa 5 centesimi al kWh, l’albero varrà più di 11 euro.

Una betulla adulta, alta – poniamo – 25 m e con un diametro di 25 cm, darà 0,5 m3, cioè 300 kg di legna e 960 kWh, per un valore di 48 euro. Un pino silvestre può raggiungere un’altezza di trenta o quaranta metri, e se ha il calibro di quelli che normalmente vengono destinati al legname da costruzione darà circa 2 m3. Anche ipotizzando un potere calorifico basso, un pino di quelle dimensioni darà 2800 kWh. Molte abitazioni norvegesi dotate unicamente di riscaldamento a legna superano l’inverno consumando sette o otto grossi pini.

Energia verde permanente

Di norma si calcola che la famiglia media norvegese, che abita in una regione fredda dove si scende sotto lo zero da novembre a marzo, consumi annualmente 24 000 kWh, comprendendo luce, riscaldamento, boiler ed elettrodomestici. Perfino i nuclei familiari che puntano molto sulla legna riescono a ricavare da essa non più della metà del loro fabbisogno, ossia 12 000 kWh, a meno di non mettere in atto una ristrutturazione di ampio respiro, o di non installare una caldaia a legna che rifornisca sia i caloriferi, sia lo scaldabagno.

Per ricavare 12 000 kWh da una moderna stufa da salotto con un rendimento del 75%, occorrono circa 3000 kg di legna del tutto asciutta (cioè circa 10 m3 di betulla essiccata normalmente, ma di norma questi calcoli si fanno in chilogrammi e ipotizzando che la legna abbia lo 0% di umidità).

Per una fornitura permanente di energia, occorre un’area boschiva tale per cui la ricrescita annua pareggi il consumo annuo. E il tasso di ricrescita si misura dal sottobosco, al quale in molte parti del mondo viene assegnato un site index che esprime, per l’appunto, la capacità di ricrescita di un’area forestale, e del quale spesso si tiene conto nel calcolo delle imposte sulla proprietà terriera. In Norvegia esiste una mappatura digitale di tutte le proprietà boschive, ognuna con il suo site index, e generalmente si calcola che un betulleto incolto, con un site index medio, abbia un tasso di ricrescita annuo di 250 kg di legna asciutta per decaro (1000 m2). In condizioni ottimali, questo tasso può raggiungere i 500 kg/Da, o anche più, se il bosco viene curato con diligenza. Dunque un nucleo familiare avrà bisogno di 6-12 decari di bosco, da cui ricavare 12 000 kWh all’anno.

Ma, come vedremo in seguito, certe specie arboree danno una ricrescita annua di 1500 kg/Da. In quel caso, la “riserva boschiva” che occorre a un’abitazione si riduce ad appena due decari, ma richiederà di essere curata con molto impegno.

Il bosco ceduo

Alcuni appassionati norvegesi stanno riportando in auge un antichissimo metodo per incrementare la ricrescita, ossia quello del bosco ceduo, dove si sfrutta la capacità di certe latifoglie (betulla, quercia, frassino, nocciolo, castagno, pioppo e salice) di emettere ricacci direttamente dal ceppo. Il pollone sfrutta radici già esistenti, dunque crescerà più rapidamente di quanto non farebbe se dovesse generare radici per conto proprio: ha già la pappa pronta, per dirla in parole povere, e al quinto anno di età avrà un’altezza doppia di quella di un albero nato da un seme.

Quando quest’albero viene a sua volta abbattuto, il ciclo ricomincia daccapo, e il sistema di radici continua a rafforzarsi. Un ceppo di betulla è in grado di generare polloni per duecento anni, prima di marcire. La quercia ha una capacità di rigenerazione virtualmente illimitata: in Gran Bretagna – dove esiste una parola specifica, coppicing, per indicare questo tipo di silvicoltura – si trovano querce nate da radici che hanno più di duemila anni.

Anche un vecchio ceppo di betulla ormai marcio è in grado di ricacciare: questi due polloni sfruttano il sistema di radici originario e crescono in fretta. Un ceppo di quercia può continuare a ricacciare fino a duemila anni.

Negli ultimi anni questo metodo è stato riportato in auge, sotto il nome di “silvicoltura energetica”, per produrre combustibile ecologico. Dà una ricrescita annua tripla del normale, in certi casi addirittura quintupla. Si sfruttano alberi che crescono rapidamente nei primi anni, soprattutto il salice e il pioppo. In Svezia, ogni decaro di saliceto o pioppeto ceduo dà ogni anno dai dodici ai quindici quintali di legna asciutta, mentre le betulle ne danno annualmente 600 kg/Da. Gli alberi vengono abbattuti prima che “impigriscano”, ossia prima che il loro tasso di crescita rallenti.


Il primo passo consiste nel ripulire il bosco dai rami spezzati dal vento e dagli alberi di una specie diversa da quella desiderata. Dopodiché, con un decespugliatore, lo si sfoltisce in modo da lasciare una distanza di circa un metro e mezzo fra un albero e l’altro (anche se certe specie, come la betulla, tollerano una distanza inferiore). Dopodiché, lo si suddivide in settori, per esempio a seconda dell’età degli alberi pronti per l’abbattimento. Per i pioppi destinati alla cippatrice, quest’età può essere appena di cinque anni, dunque il pioppeto andrà diviso in cinque settori. La betulla, invece, può richiedere una rotazione di quindici o vent’anni. Tuttavia, questa suddivisione è soltanto una strategia di comodo: lo scopo principale del bosco ceduo è quello di far sì che i polloni crescano rapidamente.

Ogni anno si abbatte un settore non attiguo a quello abbattuto l’anno precedente, perché altrimenti i polloni, non dovendo protendersi in cerca di luce, non diventeranno alti come quelli che crescono all’ombra degli alberi contigui; e oltretutto la superficie di taglio resterà troppo esposta ai venti. Bisogna abbattere d’inverno, o comunque prima che la linfa cominci a scorrere, perché altrimenti i ceppi ne saranno danneggiati. Nel caso della betulla, un ceppo basso (circa 10 cm) con un taglio leggermente obliquo darà polloni più vigorosi. Il frassino richiede ceppi alti, e il nocciolo molto bassi.

L’anno successivo spunteranno i polloni. Spesso il ceppo ne ricaccerà un intero fascio, che dovrà essere gradualmente sfoltito. Si va avanti così, anno dopo anno, fino a ottenere un bosco regolare, in cui gli alberi di ogni settore hanno la stessa altezza. I veri appassionati, prendendo spunto da chi pratica il giardinaggio biologico, concimeranno il bosco ceduo con le ceneri della stufa, che contengono tutte le sostanze di cui ha bisogno l’albero: ferro, potassio, fosforo, calcio e magnesio. L’albero non ha nulla in contrario a una porzione supplementare di nutrimento. L’ideale sarebbe spargere le ceneri sulla neve, oppure mescolarle con acqua, in modo che quest’alimentazione integrativa non sia troppo brusca.

Ci sono metalli pesanti (cadmio, piombo, rame e zinco) che l’albero può assorbire dal terreno. In tal caso, le sue ceneri ne conterranno una grande quantità, e non saranno utilizzabili come concime per le colture alimentari. Tuttavia, possono essere usate per i boschi. In Svezia, a Kågeröd, le acque reflue comunali vengono sfruttate per fertilizzare le “silvicolture energetiche”, triplicando il tasso di crescita degli alberi. In tal modo, il bosco funge anche da depuratore di rifiuti tossici.

Alla luce di tutto questo, il ciclo del bosco ceduo ha un’efficienza inappuntabile: le ceneri degli alberi abbattuti l’anno precedente nutrono i polloni di quest’anno, o in ogni caso ripuliscono il suolo boschivo.

Quali alberi danno la legna migliore?

La differenza qualitativa fra i tipi di legna non dipende solamente dall’essiccazione, ma anche – e soprattutto – dal cosiddetto “potere calorifico”, che in pratica dipende dalla compattezza. I legni duri pesano di più, danno più calore rispetto a un legno poroso, a parità di volume. Per fare un esempio, un ciocco di quercia dà il 60% di calore in più rispetto a un ciocco di ontano delle stesse dimensioni. A parità di peso, invece, diversi tipi di legna danno lo stesso calore.

In molti casi, il problema del legno pesante è che, dopo un po’, la stufa diventa troppo calda. Nei periodi di clima meno rigido, va benissimo una legna leggera, spaccata a ciocchi più sottili, che danno un fuoco più piccolo e con meno emissioni, e danno giusto il calore che occorre alla casa.

Un buon trucchetto è quello di bruciare legna leggera insieme a un grosso ciocco di legno duro, per esempio faggio o quercia. Quando i legni leggeri saranno ridotti in cenere, la brace del ciocco continuerà ad ardere per parecchio tempo ancora, e la stufa non si spegnerà. Quest’accorgimento viene sfruttato dai contadini norvegesi che devono uscire di casa per lavorare all’aperto. Se invece si ha una caldaia con combustione separata dei gas emessi dalla legna, c’è chi suggerisce di bruciarvi tre tipi diversi di legna contemporaneamente, perché le loro caratteristiche leggermente diverse favoriscono una combustione più completa.

Perciò, va benissimo avere una riserva differenziata: legna leggera e tagliata sottile, da usare come esca o come combustibile nei periodi meno freddi, e grossi ciocchi di legno duro per la notte e per le settimane di gelo intenso. In generale, inoltre, è importante abbattere le specie arboree che crescono più rapidamente, altrimenti ci si ritrova con un bosco incolto.

In un caminetto senza parascintille sarebbe meglio evitare i legni di conifere, soprattutto quello dell’abete rosso, perché sparano faville. Lo stesso vale anche per i fuochi da campeggio, se si ha intenzione di pernottare accanto al falò.

Tradizionalmente, la legna viene sempre venduta al volume, ma nel 2011 l’Istituto norvegese boschi e paesaggi ha avviato un progetto dal titolo Dal m3 al kWh, con l’obiettivo d’introdurre una misurazione pratica, basata sull’energia. L’idea è quella di marchiare i sacchi di legna con il numero di kilowattora che contengono.

Le tabelle di potere calorifico

Esistono buone tabelle che riportano il potere calorifico delle varie specie arboree, ma è bene prenderle con le molle: si tratta di valori medi, ricavati da alberi provenienti da svariate regioni, e ciascuna specie può presentare variazioni considerevoli, soprattutto le conifere. L’abete rosso e il pino, se crescono lentamente su un terreno povero, avranno un legno molto più pesante e denso rispetto a quelli cresciuti in fretta su un terreno ricco e a bassa quota. In Norvegia, il peso specifico del legno d’abete può variare dai 300 ai 600 kg/m3, dunque può essere più poroso dell’ontano, oppure addirittura più denso della quercia.

Diverso è il caso delle latifoglie come il frassino, la quercia, l’olmo, il castagno e il noce americano, che hanno un legno più duro quando crescono in fretta (e dunque in sezione presentano anelli più spessi). Quasi tutti gli altri alberi decidui presenti in Nord Europa – come il pioppo, il faggio, il salice, la betulla, l’acero, l’ontano e il sorbo – presentano ben poche differenze, indipendentemente dal fatto che la loro crescita sia stata rapida o lenta: la variazione di densità del legno della betulla norvegese, cresciuta a bassa altitudine, è soltanto del 15% da una regione all’altra. Fanno eccezione gli alberi che si trovano in zone dove le condizioni ambientali non permettono una stagione di crescita normale: per questi ultimi, si verifica il processo contrario, ossia una crescita lenta dà un legno più poroso. Questo vale, per esempio, per le betulle montane vicine al limitare del bosco.

Le specie arboree

Betulla

La betulla è la regina dei boschi norvegesi, e gode di un meritato primato fra gli alberi da cui ricavare legna da ardere, al punto da mettere in ombra altre ottime specie arboree. Molti, qui in Norvegia, s’intestardiscono a usare soltanto la betulla per alimentare le loro stufe.

Questo primato ha una sua motivazione: le betulle sono tante (costituiscono il 74% dei boschi decidui norvegesi), crescono dritte e raggiungono grandi altezze. Fa eccezione la betulla montana, che a volte ha un tronco contorto, difficile da utilizzare per alimentare le stufe di piccole dimensioni. Invece la betulla bianca, quando cresce in boschi fitti, ha un tronco che per buona parte della sua lunghezza è privo di nodi. Il legno ha una struttura piuttosto compatta e omogenea, tant’è che viene assai apprezzato nei mobilifici.

E anche quando la si brucia si comporta in modo esemplare: ha un elevato potere calorifico e non spara scintille. Inoltre, anche la corteccia è infiammabile, perciò è utilissima come esca, e le foglie danno un fondo di braci molto intenso. Ma il legno di betulla ha anche un’esigenza particolare: un’essiccazione rapida, perché se viene attaccato da funghi e muffe si rovina molto rapidamente. Se, dopo averla abbattuta, la si lascia a terra, marcirà nel giro di poco. Inoltre, nella betulla bianca, il tronco fino a uno o due metri dalla radice può essere difficile da spaccare.

La crescita della betulla è più rapida nei primi cinquant’anni di età, dopodiché rallenta. Raramente supera i duecento anni. La Betula pubescens può raggiungere i 20 m di altezza, la betulla bianca quasi 30. La densità media, dopo l’essiccazione, è di 500 kg/m3.

Abete rosso

L'abete rosso

Questa specie arborea ha un suo posticino nella cultura del fuoco a legna: brucia facilmente e dà calore molto in fretta, perciò è l’ideale per riscaldare una casa fredda. In più, la sua struttura lo rende facile da ridurre a bastoncini sottili, da sfruttare come esca. Nessuna legnaia è completa, senza un po’ di esca d’abete. Tagliato sottile, l’abete rosso (o il pioppo) va benissimo anche per alimentare le cucine economiche a legna, proprio perché brucia rapidamente e in modo regolare.

Il legno di abete rosso ha una struttura compatta, con sacche di linfa che esplodono al fuoco, ecco perché scoppietta e spara scintille.

L’abete rosso può raggiungere i 35 m di altezza, o anche di più, se si tratta di un peccio di Sitka. La densità del legno è molto variabile: la media è di 380 kg/m3, ma i valori oscillano fra i 300 e i 600.

Pino

Il potere calorifico è alto, e la legna è di ottima qualità, se ben essiccata. Se invece è umida, è praticamente ininfiammabile: anche mettendola in un rogo enorme, è come se fosse fatta di amianto. I Sámi della Lapponia svedese, quando devono accendere un falò sulla neve alta, usano come base alcuni pini appena abbattuti, proprio perché sono praticamente ignifughi, e impediscono che il calore sciolga la neve facendo sprofondare il falò nel corso della notte. Il legno di pino dà fiammate grandi e luminosissime, tant’è vero che anticamente si usava gettarlo nel camino alla sera, per avere abbastanza luce da poter continuare il lavoro. Questo trucchetto si può benissimo sfruttare per un bel falò all’aperto.

Il legno di pino ha una densità media di 440 kg/m3, ma può variare molto: quello cresciuto lentamente su un suolo povero può essere molto duro e denso. Se nel riscaldamento si usa molto legno di pino, occorre pulire spesso la stufa e la canna fumaria, perché il suo olio produce molta fuliggine.

Quercia

La pianta giovane ha un tronco abbastanza dritto e facile da lavorare, mentre quella vecchia tende a dividersi in grossi rami contorti. È facile da tagliare quand’è umida, e mentre si essicca emana un profumo mielato. Può impiegare anche due anni a essiccarsi per bene. Fra le specie arboree più comuni in Norvegia, la quercia ha un potere calorifico fra i più alti (superata di poco dal faggio). In realtà, da noi si trova soltanto nelle regioni più meridionali, ma si sta propagando verso nord. Può vivere fino a duemila anni, e in Norvegia ne esistono diverse che hanno superato il millennio di età. La densità media è di 550 kg/m3.

Faggio

Il faggio

Ha il potere calorifico più alto fra tutti gli alberi diffusi in Scandinavia, e nella fredda Norvegia, dove i faggi scarseggiano, sono in molti a sperare che prima o poi questo albero allarghi il proprio habitat alle latitudini più settentrionali.

Cresce lentamente, ma può superare i quattrocento anni di età. Ne esistono di molto grandi, possono raggiungere un’altezza di 40 m e un diametro di 1,5 m.

La corteccia è secca e rigida, quasi come una pelle d’elefante, e il legno si lavora senza troppe difficoltà. Data la durezza, occorre una motosega molto affilata, ma i ciocchi freschi si spaccano facilmente. Il potere calorifico medio è di 570 kg/m3.

Frassino

Il frassino ha un’indiscutibile utilità, e i nostri antenati lo sapevano: ha un legno durissimo e robusto, che per secoli è stato utilizzato per costruire i telai dei carri e delle carriole.

È sempre stato molto apprezzato come combustibile, soprattutto perché ha un tasso di umidità molto basso, in certi casi appena del 34%. Se abbattuto in inverno, può essere messo nella stufa fin da subito (anche se non brucerà granché bene), da cui il detto inglese Dry or green, fit for a queen; ma per riscaldare come si deve ha bisogno di essere messo a essiccare. Inoltre è facile da spaccare.

Il frassino ricaccia polloni dal ceppo, perciò è adatto alla coltivazione di boschi cedui. Il tronco cresce per una buona lunghezza prima di diramarsi, perciò è semplice da abbattere, nonostante la forma contorta. Ha un’ottima densità: 550 kg/m3.

Acero

È un albero piuttosto robusto, in grado di resistere alla salsedine e a un ambiente moderatamente inquinato. Può raggiungere un’altezza di quasi 30 m.

Può essere molto lento a essiccarsi, perciò è consigliabile lasciarlo asciugare per un paio di stagioni. In compenso, sulla densità non c’è nulla da eccepire: 530 kg/m3.

Pioppo tremulo

È l’albero dal quale tipicamente si ricavano fiammiferi, per due ragioni: brucia in modo regolare con una fiamma bassa, ed è facile da tagliare in modo uniforme. Non ha un potere calorifico granché elevato, ma è facile da tagliare a pezzettini piccoli da usare come esca o per alimentare una cucina a legna.

Si propaga rapidamente sui terreni brulli, e cresce molto in fretta. Raggiunge con facilità i 25-30 m di altezza, e ha una densità media di 400 kg/m3.

Gli attrezzi

È importante conoscere il venditore tanto quanto il produttore: non per niente, nelle campagne norvegesi si parla di “paesi Stihl”, “paesi Jonsered” e “paesi Husqvarna” a seconda del marchio che ne domina il mercato grazie ai consigli del negoziante locale. Da molti anni, il commercio di motoseghe in Norvegia è praticamente limitato a queste tre ditte. Una volta i marchi erano molti di più, ma si sono ridotti a causa delle varie fusioni e acquisizioni aziendali. La tedesca Dolmar, per esempio, è piuttosto rara quassù da noi, pur essendo stata ampiamente utilizzata dal nostro esercito.

Nella motosega, più ancora delle dimensioni del motore, conta la corretta affilatura. È talmente importante che, quando la sega è spuntata a causa del cattivo uso, in norvegese si dice che è skamfilad, “limata a vergogna”. Una catena affilata darà trucioli grossi e squadrati, e non sarà necessario spingere la sega dentro al tronco, perché ci entrerà da sé. Se produce trucioli piccoli e tondi, oppure polvere, urge un’affilatura.

A intaccare il legno è il dente più grosso, quello incavato, chiamato “tagliente”. L’altro, detto “limitatore di profondità”, determina quanto a fondo andrà il primo.

Ogni maglia della catena ha due denti: il tagliente (o dente di taglio) e il limitatore di profondità. Il primo esegue il taglio, il secondo determina quanto andrà a fondo. È buona norma affilare i taglienti ogni volta che si fa il pieno di carburante e di olio. Occorre una lima tonda e una dima per far sì che l’angolo di affilatura sia lo stesso per tutti i denti. La lima va passata spingendola sempre in avanti, e sempre lo stesso numero di volte per ogni dente (di solito ne bastano tre). È importantissimo che l’affilatura sia omogenea, perché altrimenti la catena sobbalza o vibra. Si può lasciar cadere una gocciolina di smalto rosso sul primo tagliente che si affila, in modo da sapere da quale si è partiti.

Non vanno affilati soltanto i taglienti, ma anche i limitatori di profondità, altrimenti la catena non farà presa sul legno. Il metodo è lo stesso di prima – lima e dima – ma stavolta bisogna usare una lima piatta. È prassi comune lasciarli alti quando si abbattono alberi a legno duro o quando la temperatura è inferiore allo zero (è la cosiddetta affilatura invernale), altrimenti la catena avanzerà a scatti e perderà velocità. Per i legni più morbidi, si possono tenere più bassi i limitatori di profondità (affilatura estiva) in modo da accelerare il taglio.

Alla fine della stagione dell’abbattimento, il boscaiolo lungimirante svuoterà il serbatoio del carburante della motosega e la rimetterà in moto finché non sarà a secco e si spegnerà. Così facendo, si evita che le piccole e delicate membrane del carburatore s’incollino l’una all’altra. Inoltre, sarà saggio svuotare anche il serbatoio dell’olio, perché si verifica sempre qualche piccola perdita.

Sega ad arco

Ottime seghe ad arco vengono prodotte da Bahco e da G-Man (quest’ultima è nata dall’unione della Edsbytool con la norvegese Grorud Jernvarefabrikk, e ha cominciato a usare il nome G-Man sul mercato internazionale prima ancora che la produzione venisse trasferita in Svezia).

Le seghe fra i 24 e i 36 pollici sono le più adatte all’abbattimento degli alberi. La parte più importante è la lama: ce ne sono da legno secco o da legno verde. Queste ultime hanno un dente più largo ogni quattro o cinque taglienti, che serve a rimuovere i trucioli umidi in modo che la sega non traballi durante il taglio. La lama da legno secco si può usare anche sui tronchi congelati. Le più efficienti sono quelle a denti grossi. Quelle a denti fini sono più adatte al legname da costruzione.

Accette

Spaccar legna è una delle pochissime cose per le quali l’accetta è ancora oggi lo strumento più adatto. Anzi, a usarla con la tecnica giusta, ha la stessa efficienza di uno spaccalegna idraulico, perché quest’ultimo va impugnato in diversi modi e richiede un maggiore tempo di attesa. Inoltre, l’accetta è uno di quegli strumenti il cui utilizzo è reso piacevole da certe caratteristiche invisibili all’occhio: l’equilibrio, l’angolo del manico e la qualità dell’acciaio.

Se un’accetta è buona, si potrebbe quasi imprimervi a fuoco il proprio nome. A differenza della motosega, non conosce usura: tutt’al più, si distrugge direttamente.

Molti, seguendo l’istinto, acquistano un’accetta grossa e pesante, nell’eventualità di spaccare i ciocchi più duri che ci siano, senza tenere conto del tipo di legna di cui dispongono: se si seguono i cicli stagionali e ci si rifornisce di legno di latifoglie, fresco o congelato che sia, lo strumento migliore sarà un’accetta leggera dal manico corto. Un altro argomento a favore di questa scelta è il secondo principio della dinamica, secondo il quale, raddoppiando la velocità, si quadruplica la forza d’impatto. Un’accetta da 1,5 kg a 13 m/s sviluppa la stessa forza di un’accetta da 2,5 kg a 10 m/s. Un esperimento effettuato dalla Hultafors dimostra che una persona dalla forza fisica media è in grado di maneggiare per diverse ore un’accetta che non pesi più di 1,6 kg.

Nelle accette, una minima differenza strutturale può comportare un’enorme differenza pratica. Un’accetta a lama lunga può penetrare più in profondità, e questo è molto utile se si lavora su alberi con molti rami, ma se si ha il viziaccio di ruotare un pochino il polso mentre si vibra il colpo, l’angolo d’impatto sarà tanto più inclinato quanto più lunga è la lama. Quanto al manico, se è lungo conferisce all’accetta una velocità decisamente maggiore, ma comporta molto esercizio per riuscire a vibrare colpi precisi. È molto utile un certo allargamento all’estremità inferiore del manico: impedirà all’accetta di sfuggirci di mano e ci consentirà colpi meglio assestati. Un manico ricurvo è più ergonomico e permette una maggiore accelerazione, soprattutto se quando si vibra il colpo si lascia scivolare giù la mano più alta appena prima dell’impatto; se però il manico è troppo inarcato, si rischieranno piccoli errori nell’angolazione del polso, a scapito della precisione del colpo. L’angolo della lama deve essere adatto all’utilizzo: normalmente, deve puntare qualche grado più in giù verso la lunghezza del manico, altrimenti il filo della lama non penetrerà nel legno in modo ottimale.

L’accetta non va mai usata come martello, né battuta sul retro per qualsivoglia altro motivo, perché in quel punto l’acciaio non è temperato, l’occhio si deformerebbe e la testa si staccherebbe. Per la manutenzione della lama occorre rimuovere le irregolarità servendosi di una lima piatta, dopodiché si può procedere ad affilarla con una cote, in acqua.

Tipi di accetta

La scure da boscaiolo si usa per la sramatura o per abbattere piccoli alberi. Ha una testa sottile e un taglio curvo, atto a tagliare le fibre del legno. Di solito ha una testa piuttosto leggera (quella classica è da due libbre, cioè circa 0,9 kg). Il manico ha generalmente una lunghezza media, e il bilanciamento della scure la rende adatta soprattutto ai colpi laterali. L’angolo di taglio è acuto, 30° o anche meno, e la lama dev’essere sempre affilatissima.

L’accetta da spacco non è fatta per tagliare, ma per esercitare una pressione laterale, in modo che il ciocco – per l’appunto – si spacchi. A questo scopo, ha una testa cuneiforme e tende a essere sbilanciata in avanti, proprio perché è pensata per il colpo dritto verso il basso. Normalmente la testa ha un peso di 1,3-1,6 kg. Per ciocchi facili da spaccare – betulla poco nodosa, per esempio – va benissimo un’accetta leggera con una testa lievemente cuneiforme. Se invece si lavora su legna tenace, secca o nodosa, questo tipo di testa tende a incastrarsi, perciò è meglio usare un’accetta in cui la forma a cuneo sia più pronunciata. Tuttavia, al lato pratico, la differenza non è poi tanta, perché un cuneo più pronunciato richiede più forza per penetrare nel ciocco. Bisogna osservare l’angolo dell’ultimo centimetro di lama, ossia quello che s’introduce nel legno e comincia a dividerlo: se è troppo acuto, la testa resterà incastrata; se invece è troppo ottuso, l’accetta rimbalzerà. Molte ditte hanno fissato l’angolo ottimale fra i 32° e i 35°, ed è a questa misura che dovremo attenerci quando affiliamo l’accetta, anche se per spaccare legna non occorre una lama particolarmente affilata.

Il ceppo

In primo luogo, il ceppo deve essere largo, in modo da non traballare. In caso contrario, il contatto instabile con il terreno ruberà energia all’impatto dell’accetta. A questo stesso scopo, sarà opportuno posizionarlo su un terreno molto duro, o – meglio ancora – roccioso.

Un altro elemento importantissimo è l’altezza. In Norvegia si ha la tendenza a utilizzare ceppi alti per ridurre le sollecitazioni alla schiena, e ogni volta che si capita sull’argomento emerge chiaramente che le dimensioni del ceppo sono una questione privata. Ma non è detto che questa tradizione sia la scelta migliore: se il ceppo è troppo alto, l’accetta non avrà il tempo di raggiungere una buona velocità prima di colpire il ciocco. Un colpo “a ore due” sarà notevolmente più debole di un colpo “a ore quattro”, dato che – come ormai ben sappiamo – raddoppiando la velocità si quadruplica la forza d’impatto. L’accetta ha la maggior forza di penetrazione quando il filo della lama colpisce ad angolo più o meno retto, dunque l’altezza del ceppo dev’essere calibrata alla lunghezza del ciocco, alla lunghezza del manico dell’accetta e alla statura dello spaccalegna. Sarei tentato di costruire una formula matematica, ma basterà il consiglio generico dei fabbricanti di accette: se il ciocco è lungo 30-40 cm, il ceppo non deve superare l’altezza del nostro ginocchio, anzi, varrebbe la pena di provarne uno ancora più basso.

C’è chi pianta chiodi nel ceppo, taglia le teste e le appuntisce, ottenendone spine a cui fissare il ciocco da spaccare, per farlo stare dritto. Gli appassionati, poi, trattano il lato inferiore del ceppo con un mordente o con il catrame, per evitare che infradici dal basso, diventando più morbido e rubando energia all’accetta. Ma il trucchetto più scaltro – nonché semplice e gratuito – è quello di posare sul ceppo un copertone consunto, che tratterrà i pezzi di legno, così non occorrerà raccattarli qua e là a ogni colpo d’accetta. Inoltre, nella cavità interna si raccoglieranno parecchi frantumi di legno da usare come esca nella stufa. Il copertone può essere semplicemente appoggiato, ma se proprio si desidera fissarlo, occorrerà qualche accorgimento affinché la superficie del ceppo non si riempia di acqua piovana e schegge. Per esempio, si possono inchiodare ai margini del ceppo alcune asticelle di legno, in modo che siano a filo con la superficie, così vi si potrà avvitare un copertone leggermente più largo del ceppo stesso. In tal modo, l’acqua e le schegge cadranno nell’apertura fra il bordo del ceppo e quello del copertone. Un’altra furberia è quella di rimuovere i fili di ferro dal lato dello pneumatico rivolto verso l’alto, per renderlo meno rigido. Le automobili moderne hanno spesso ruote grosse, quindi è meglio usare un copertone vecchio, prelevato da un’utilitaria di una volta, con ruote da 13 o 14 pollici. Un’alternativa semplice, facilmente realizzabile anche per i ciocchi molto grossi, è quella di avvolgerli con un nastro elastico. Con un po’ di pratica, li si può spaccare direttamente a terra, ma preferibilmente d’inverno, quando il suolo è gelato.

Tecniche di taglio

Nelle giuste condizioni, il taglio ad accetta si svolge con grande rapidità, ed è anche una delle fasi più soddisfacenti di tutto il lavoro di chi fa legna. Tagliare una betulla appena abbattuta a - 10° C è un’esperienza magica, come l’aurora boreale: ogni colpo con cui l’acciaio divide il legno ghiacciato ha una risonanza melodiosa, che riverbera contro la neve e i tronchi degli altri alberi. È un lavoro efficiente e divertente, al punto che non si vorrebbe smettere mai.

La corretta posizione ginocchia-piedi-schiena per lo spacco ad ascia.

Per lavorare con l’accetta in modo efficiente e sicuro, è bene mantenere un ritmo costante. Niente bambini né cani fra i piedi. Scarpe protettive, occhiali protettivi. Per avere una postura ideale, occorre piazzarsi davanti al ceppo a gambe leggermente divaricate e posare il filo dell’accetta contro il ciocco per determinare la distanza. Si solleva l’accetta, ma non abbastanza da dover distendere i gomiti o chinare la testa all’indietro. Velocità, ritmo e precisione contano assai più della forza bruta, e il bravo spaccalegna tira leggermente l’accetta verso di sé appena prima dell’impatto, in modo da imprimerle un’ulteriore accelerazione. C’è chi, nel vibrare il colpo, lascia scivolare la mano più alta giù per il manico. In ogni caso, è importante flettere le ginocchia in modo da accompagnare il colpo con tutto il corpo. In tal modo, si aumenta la velocità, e se si sbaglia mira si colpirà il suolo. Se invece si mantiene una postura bene eretta, si rischia di perdere il controllo dell’accetta e di conficcarsela in una caviglia o in un piede.

Lo spacco ad ascia è una questione di disposizione mentale. Il colpo deve avere soprattutto velocità, e spesso capita che il ciocco si divida quando noi abbiamo deciso che debba dividersi: questo atteggiamento ci spinge a colpire con rapidità e decisione.

È importante anche “leggere” il legno, per capire dove colpire. Già, perché di solito il legno ha dei piani di frazione naturali, che in primavera appaiono come minuscole screpolature già un paio di giorni dopo il taglio. Spesso è più facile dividerlo dall’alto, ossia quando il ciocco è posato sul ceppo nella stessa direzione in cui è cresciuto. Tuttavia, dato che i rami di un albero si protendono verso l’alto, i nodi ostacoleranno l’avanzata dell’accetta nel legno, perciò capita spesso che il ciocco venga spaccato capovolto.

Il filo dell’accetta dovrebbe incrociare il minor numero possibile di anelli annuali, per non trovarsi ostacolato dalla direzione naturale delle fibre. Inoltre, dovrebbe passare fra un nodo e l’altro, oppure esattamente al centro di un nodo.

Spacco in lungo

Non sta scritto da nessuna parte che il ciocco vada posizionato in verticale. I boscaioli di una volta erano esperti nello spacco longitudinale, ossia con colpi alla corteccia. Anzi, anticamente era il metodo più usato. E la ragione è molto semplice: prima dell’invenzione della sega, gli alberi venivano abbattuti con la scure, perciò avevano estremità coniche, impossibili da appoggiare su un ceppo. Inoltre, per spaccare un grosso ciocco longitudinalmente occorrono meno colpi. Perciò si trovava più comodo dividere i tronchi in sezioni molto lunghe, spaccarle da un capo all’altro e da ultimo dividerle in pezzi della lunghezza giusta.

Un metodo è quello di utilizzare come piano di appoggio un grosso tronco steso a terra. Cinque o sei ciocchi vengono posati perpendicolarmente, con un’estremità sul tronco e l’altra a terra. Lo spaccalegna si posiziona dietro al tronco e, con un’accetta affilata, preferibilmente dalla testa sottile e dal taglio arcuato, si assesta un colpo in prossimità dell’estremità, sempre a metà fra i nodi. Eventualmente, si continua a colpire la spaccatura finché il ciocco non si divide. Dopodiché si fa un passo di lato per attaccare il ciocco successivo. Volendo, l’operazione può essere eseguita su un pendio, in modo da poter lavorare da un’angolazione vantaggiosa.

Ormai è quasi caduto nel dimenticatoio, ma è ancora efficacissimo per spaccare ciocchi da 60-80 cm, soprattutto se si ha poco spazio per lo spacco e l’essiccazione e si è costretti a lavorare con ciocchi di lunghezza doppia, che possono essere spaccati già nel bosco e sono più facili da trasportare.

Spaccare in ginocchio

Un altro metodo, che potrà forse sembrare un po’ scomodo a chi non l’ha mai provato, è quello di spaccare senza ceppo, mettendosi in ginocchio. È in realtà una posizione molto ergonomica, che dà meno affaticamento alla schiena. Si usa su legna facile da spaccare, e su un terreno duro e gelato. Con un’accetta corta e leggera, il lavoro fila a velocità sorprendente, e non occorre nemmeno piegarsi per posare i ciocchi sul ceppo: basta posarli a terra a semicerchio e spaccarli con una serie di colpi rapidi.

Elgå: la legnaia al vento del sud

La legnaia ha una parete divisoria e, praticamente, quattro comparti. La facciata anteriore è apribile in tutta la sua ampiezza, e quella posteriore è sganciabile, perciò la ventilazione è buona, e si può accedere alla legna da ambo le parti.

Una volta, Ole ricavava tutta la sua legna da un betulleto verso monte. A causa della distanza e del percorso disagevole, normalmente optava per l’essiccazione senza sramatura, e questo richiedeva di abbattere gli alberi all’inizio della gemmazione. Le foglie continuavano a crescere, assorbendo l’umidità dell’albero. Dopo qualche settimana provvedeva alla sramatura e alle solite fasi del lavoro. Questo metodo è adattissimo agli alberi che crescono distanti dal posto in cui serve la legna, perché dà ciocchi molto più leggeri.

«In primavera continuavo ad andare su nel bosco per vedere se erano spuntate le gemme. La regola è questa: l’albero va abbattuto quando le gemme sono grandi come orecchie di topo. E di solito, in queste zone, succede all’inizio di giugno. A quel punto, bisogna sbrigarsi ad abbattere, perché in quella stagione la linfa monta in fretta, e se la gemmazione è troppo avanzata si avrà un legno molto umido.»

«È il vento a seccare davvero la legna, passando fra un pezzo e l’altro. Certo, conta anche il caldo, ma la legna fresca deve essere esposta al sole e al vento. Il più possibile!»

Ha costruito un capanno lungo e stretto, con la parete posteriore sganciabile e quella anteriore interamente occupata da porte. Aprendole tutte, permette all’aria di attraversare l’intera provvista di legna. Questo capanno sorge in cortile ed è posizionato con il lato posteriore esposto al vento del sud. All’interno, la legna è accatastata in modo da essere attraversata longitudinalmente dalla corrente d’aria. Il tetto è in lamiera ondulata scura, che assorbe calore e accelera l’essiccazione. Grazie alla parete sganciabile, la legna può essere accatastata da ambo i lati del capanno. Con l’approssimarsi dell’inverno, Ole chiude le porte e riaggancia la parete posteriore, in modo da bloccare l’ingresso alla neve. Lo spazio viene sfruttato pienamente, e allo stesso tempo è facile prelevare la legna. Naturalmente, il capanno è dotato anche di uno scomparto di riserva, che contiene una provvista permanente, nell’eventualità di un inverno particolarmente gelido.

La legnaia

La legna è di miglior qualità (ossia più asciutta e meno vulnerabile ai funghi) quando si essicca rapidamente. A questo scopo, bisogna esporre al vento e al sole una superficie maggiore possibile, e al tempo stesso proteggere la legna dalla pioggia. Per mettere a essiccare la legna, se ci tocca scegliere fra un punto assolato e uno battuto dai venti, bisogna preferire quest’ultimo.

Girano molte voci su cataste così compatte (catasta stretta) che fra un pezzo e l’altro non passa neppure una cartina da sigaretta, e si potrà senz’altro fare, ma solo se la legna è già asciutta. Se invece deve ancora essere essiccata, la catasta dev’essere quanto più rada possibile (catasta larga), a patto di non renderla instabile. Anche qui c’è una regoletta: la legna fresca dev’essere accatastata in modo che fra un pezzo e l’altro ci sia abbastanza spazio da dare rifugio a un topo, ma non tanto da permettere al gatto d’inseguirlo.

La legna va disposta su un rialzo, in modo da non essere a contatto con l’umidità del terreno.

Estetica

Una buona legnaia richiede scrupolosità e criterio, e rivela qualcosa sul carattere di chi l’ha eretta. Già, perché ci sono pericoli in agguato: una bella struttura scultorea può rivelarsi capricciosa e instabile. Inoltre, occorre calcolare anche il restringimento della legna: da quand’è fresca a quando è asciutta, il suo volume si riduce dal 7% al 20%.

Trucchetti

La prima regola è quella di trovare un metodo di accatastamento adatto al tipo di legno. Se i pezzi sono ricurvi, stanno meglio in una catasta bassa, o in un essiccatoio, o al centro di una catasta tonda. Se invece sono dritti, ci si può sbizzarrire. Più sono lunghi, più sono facili da accatastare. Sotto i 25 cm, purtroppo, crollano con facilità, perciò la catasta deve essere bassa, oppure eretta a ridosso di un muro. Fra i 30 e i 40 cm (se trovano posto nella nostra stufa) è molto più facile creare una catasta che stia in piedi da sola. Con i ciocchi da 60 cm, non ancora spaccati, si può formare una catasta di qualunque altezza e qualunque forma, con qualunque vento.

Una competenza di base è quella di saper erigere una torre incrociata, fatta di ciocchi di medie dimensioni spaccati a metà e disposti a strati alterni per il lungo e per il largo. È stabile su tutti i lati e dunque può costituire l’angolo di una catasta in parallelo, tenendola ferma.

L’accatastamento deve essere un processo lento, almeno all’inizio. Il segreto sta nel considerare ogni pezzo di legno come un mattone, compensando fin da subito le irregolarità, posandolo con forza e scrollandolo un poco, in modo che trovi la propria collocazione in modo naturale e acquisisca una sua microstabilità. Le obliquità si ingigantiscono strato per strato, quindi vanno compensate con un altro pezzo di legno che abbia la stessa inclinazione, posandolo a rovescio sopra il precedente. Di tanto in tanto, occorre scuotere leggermente la catasta per individuarne i punti deboli, e osservarla da una distanza di qualche passo per verificare che sia ben dritta. Se non lo è, si può posare un pezzo in più, per pareggiare il livello; questo metodo è malvisto dai puristi, perché introduce un elemento di asimmetricità, ma soprattutto perché può dare instabilità alla catasta quando la legna si essicca e si riduce di dimensioni.

Quanta legna ho?

Il calcolo della massa compatta di una legnaia (ossia il volume effettivo della legna, tolti gli spazi vuoti fra un pezzo e l’altro) presenta sempre un margine d’incertezza, perché i pezzi non sono mai perfettamente dritti, e hanno nodi e altre irregolarità. Perciò la massa compatta sarà tanto più piccola quanto più sono sottili i pezzi. Inoltre è inversamente proporzionale alla lunghezza dei pezzi. Secondo i calcoli di Norsk Standard, una catasta fatta di pezzi da 30 cm ha una massa compatta corrispondente al 74% della massa apparente; se invece è fatta di pezzi da 60 cm, la massa compatta sarà il 65%.

Corteccia in su o in giù?

Lungo le coste, è tradizione accatastare con la corteccia in su. E c’è un motivo: le piogge d’inverno cadono oblique, spinte dalle raffiche di vento, e dato che la corteccia è impermeabile è meglio che sia rivolta verso l’alto, in modo che la legna si essicchi più in fretta.

Nell’entroterra, invece, l’inverno non porta pioggia, ma neve. E anche il vento è meno forte. Qui, perciò, è uso comune accatastare con la corteccia in giù.

Ma c’è un fatto che invalida quest’argomentazione: l’umidità evapora dalle estremità di ogni pezzo di legno, quindi l’esposizione della corteccia non fa nessuna differenza (sempre che la catasta sia coperta, beninteso).

La corteccia dovrebbe essere rivolta all’ingiù negli strati più bassi della catasta, per proteggere la legna dall’umidità che sale dal terreno, e all’insù negli strati più alti, in mancanza di una buona copertura.

Metodi di accatastamento

Catasta norvegese a muro aprico, a triplo strato, con paletti di sostegno.
Stig Erik Tangen, di Løten, davanti a una catasta quadrata aperta. Questo metodo è adatto alla legna corta e nodosa, ed è il parente più prossimo della catasta circolare. Dietro si vede un essiccatoio in rete metallica.

Catasta norvegese a muro aprico

Un classico, nei paesi che non lo vietano. Funzionale, stabile, facile da erigere. La legna viene accatastata a ridosso del muro di casa rivolto a sud. Se non è troppo vicino ad altri edifici o a un albero, l’aria circola meglio. La catasta deve sorgere su un sostegno (per esempio un bancale) che tenga a distanza l’umidità del terreno.

Sarebbe bene mantenere una colonna d’aria fra la legna e la parete. Inoltre occorre tenere presente che il rischio di crolli è direttamente proporzionale all’altezza, dunque sarà meglio che la catasta s’inclini verso il muro anziché verso l’esterno, soprattutto perché ogni pezzo di legno si restringe di più all’estremità rivolta verso il sole.

Fasi di costruzione della catasta circolare: trovata una base orizzontale, si erige una catasta cilindrica, e nello spazio vuoto al centro si gettano altri ciocchi che sorreggano le pareti. Raggiunto il metro di altezza, si dispongono i pezzi in modo da formare un tetto bombato, da coprire preferibilmente con ciocchi piatti con la corteccia verso l’alto.

Catasta circolare

Il principio di base sta nel disporre la legna ad anello. Se il diametro è consistente, si possono posare due o tre anelli concentrici. I pezzi corti, storti o comunque inadatti vengono gettati al centro. Gli anelli devono salire dritti fino all’altezza di circa un metro, dopodiché bisogna premere leggermente l’estremità interna dei pezzi, giro dopo giro, continuando a riempire il buco al centro in modo che il mucchio sorregga le pareti. In cima si posano i pezzi piatti, a mo’ di tegole, con la corteccia rivolta verso l’alto in modo da non lasciar entrare l’acqua piovana. Il tempo di essiccazione è direttamente proporzionale al diametro della catasta.

C’è chi pianta un palo al centro e vi incide una tacca all’altezza della cima della catasta, per poter tenere d’occhio la riduzione di volume della legna, e dunque anche il grado di essiccazione. Altri, invece, vi piantano un tubo da stufa e alla fine lo sfilano, per favorire la circolazione dell’aria.

Legna da 60 cm accatastata usando il metodo della posa a bracciata. Dopo l’essiccazione verrà tagliata una seconda volta, e portata in legnaia.

Posa a bracciata

Ha alle spalle una ricca tradizione e permette un’essiccazione eccezionale. È più facile costruirla con legna lunga (40-60 cm) posata su pali messi in orizzontale sul terreno. Anche qui tornerà utile la torre incrociata, che costituisce le estremità di ogni catasta a bracciata che si rispetti. In alternativa, si possono piantare dei pali nel terreno, oppure accatastare la legna a ridosso di un albero.

Per ottenere la migliore essiccazione, la catasta deve essere disposta in direzione est-ovest, in modo che il vento del sud l’attraversi per il largo.

Catasta quadrata aperta

Questa è una catasta massiccia, che fa risparmiare spazio e funziona bene con i ciocchi corti. Di solito si erige su bancali disposti a quadrato.

Una volta completata, ha esattamente lo stesso aspetto di quella chiusa, ma viene costruita con un metodo diverso: invece di procedere dal centro alla periferia, si costruiscono le pareti esterne, al centro delle quali vengono gettati pezzi alla rinfusa, come per la catasta circolare. Questo sistema è molto utile quando si hanno molti ciocchi ritorti o sbilenchi, come può capitare con gli alberi di grandi dimensioni che hanno rami grossi. La catasta quadrata aperta non deve essere molto grande, perché le pareti esterne non reggerebbero alla pressione interna e crollerebbero.

L'essiccazione

Nelle campagne è diffusa la convinzione che la legna non debba essere troppo secca, ovvero che esista un tasso di umidità ottimale. Ebbene, non è vero: deve essere più secca che si può. L’umidità, per poca che sia, riduce il rendimento. La legna essiccata male è difficile da ardere, dà meno calore, ricopre di fuliggine la canna fumaria e guasta tutto il piacere del fuoco. Senza contare che inquina.

C’è un’enorme differenza fra una legna semiasciutta (con un tasso di umidità del 25-30%) e una essiccata come si deve (17-18%): quest’ultima dà molto più calore e prende fuoco assai più facilmente, mentre la prima arde male, sibila (quando l’acqua contenuta nelle fibre va in ebollizione il vapore sfoga dalle porosità alle estremità del ciocco) ed emette fumo nero, segno di una combustione inefficiente. A creare questo fumo non è l’umidità in sé, ma il fatto che il fuoco della stufa non sia abbastanza intenso da bruciare tutti i gas.

Tempi di essiccazione

Nella legna fresca, l’umidità costituisce circa metà del peso totale (a volte anche di più), perciò da una catasta di medie dimensioni evaporeranno diverse centinaia di litri d’acqua. Ed è qui che arriva la bella notizia: quasi tutti i tipi di legno si asciugano in tempi sorprendentemente brevi, se l’albero viene segato e spaccato subito dopo l’abbattimento, e se ci si regola in base alle stagioni e ai venti.

Nei climi a umidità moderata, quasi tutti i legni – anche quelli duri – saranno pronti per la stufa già nell’inverno dell’anno stesso, se sono stati messi a essiccare in primavera. Nelle regioni relativamente asciutte dell’entroterra norvegese, la betulla, l’abete rosso e il pino spaccati in pezzi da 30-35 cm sono pronti già dopo due mesi, se vengono accatastati come si deve.

Secca entro fine giugno

Le crepe sono un buon segno: indicano che l’essiccazione è a buon punto. Quelle raffigurate nella fotografia sono tipiche del periodo in cui si verifica il processo di massima evaporazione dell’umidità. Da lì in poi, via via che ci si avvicina al termine dell’essiccazione, le crepe si richiudono un poco.

In Norvegia, la dicitura «essiccata in primavera» su una partita di legna è un marchio di qualità. In una catasta di betulla, eretta all’inizio della primavera in un punto ben ventilato, l’umidità può scendere dal 45% al 35% già nei primi due giorni, e al 30% entro la fine della prima settimana. Un solo mese in buone condizioni di essiccazione può ridurla al 22%. Due mesi, al 15%. Questi dati confermano in pieno la credenza dei nostri vecchi. Se la catasta è già scesa al 15% di umidità, non ha più senso proseguire l’essiccazione, e i pezzi possono benissimo essere portati in legnaia.

Un’essiccazione biennale darà comunque un vantaggio: raddoppia la provvista di legna, e in caso di emergenza si può intaccare la riserva dell’anno successivo. Per esempio, nell’eventualità di una lunga interruzione di corrente, ci si può accattivare le simpatie di tutto il quartiere rifornendo di legna i vicini imprevidenti.

Come si essicca la legna?

La prima regola di una buona essiccazione è la lunghezza dei pezzi: quelli corti si asciugano prima. Infatti l’acqua evapora dalle estremità con una velocità dieci o quindici volte maggiore che dai lati. Un altro accorgimento è quello di spaccare i ciocchi, perché la corteccia imprigiona l’umidità, un po’ come la buccia di un’arancia. Inoltre, una volta nella stufa, i ciocchi spaccati offriranno più superficie al fuoco, dunque la combustione sarà più efficiente. Un buon espediente è quello di scortecciare a strisce i ciocchi più sottili (come quelli ricavati dai rami), che sono troppo stretti per essere spaccati. Questi ultimi, infatti, asciugano più lentamente perché la superficie delle estremità è troppo poca in rapporto alla lunghezza, la qual cosa spiega come mai si ha la brutta sorpresa di vedere che fanno più fatica a prendere fuoco rispetto ai pezzi più grossi.

Durante l’essiccazione, l’umidità all’interno del legno scorre verso l’esterno ed evapora, dunque è essenziale che la catasta permetta una buona circolazione dell’aria, perché altrimenti l’acqua si condensa sulla superficie dei pezzi, trasformandoli nel terreno ideale per la proliferazione di funghi e muffe.

La struttura del legno è costituita da cellule cave, intrise di acqua, che si asciugano partendo dall’interno. Quando comincia a seccare anche la parete cellulare, ecco che alle estremità del ciocco si formano delle screpolature, che sono tutt’altro che desiderabili nel legname da costruzione, ma sono anzi un buon segno quando compaiono nella legna da ardere, perché indicano che l’essiccazione è a buon punto. All’inizio sono minuscole, come le rughette intorno agli occhi di una donna di mezz’età, ma con il passare dei giorni si aprono sempre di più. Tipicamente, compaiono nei primi giorni caldi e assolati dell’anno, e in un primo momento significano soltanto che l’estremità del ciocco è secca: l’interno è ancora verde. C’è chi si spaventa, nel vederle sparire nel corso dell’estate, e teme che la legna già asciutta si stia inumidendo di nuovo, ma in realtà è esattamente il contrario: semplicemente, seccandosi anche all’interno, il ciocco si è ritirato e le crepe si sono richiuse. O, più precisamente, sono ancora lì, ma non saltano all’occhio.

Generalmente, i legni più leggeri si seccano più in fretta di quelli duri, ma al lato pratico non c’è poi tanta differenza, se i ciocchi sono lunghi 30-40 cm. Gli unici ad avere un’essiccazione davvero lenta sono la quercia e l’acero.

È divertente notare come la legna, durante la fase più intensa dell’essiccazione, si raffreddi. Questo avviene perché l’umidità, evaporando, sottrae il cosiddetto “calore latente”. È lo stesso fenomeno per cui, per tenere in fresco le bottiglie di birra, le avvolgiamo in un fazzoletto bagnato e le lasciamo al sole.

Equilibrio

Quando la legna è asciutta, passerà alla cosiddetta “umidità di equilibrio”. In altre parole, la sua umidità seguirà le oscillazioni di quella dell’aria, perciò in autunno potrebbe aumentare un po’, ma non tanto da pareggiarla. Un buon sistema per controllare il processo di essiccazione è quello di marchiare quattro o cinque pezzi della catasta e pesarli di settimana in settimana. Quando il peso cessa di calare, è perché ha raggiunto l’umidità di equilibrio.

A 20° C, un’umidità atmosferica del 60% darà un’umidità di equilibrio poco superiore al 10%, ma è raro che il clima sia così asciutto. La notte è sempre più umida del giorno, e in una giornata piovosa si può raggiungere anche il 90-98%. Inoltre, l’umidità di equilibrio non ha un andamento lineare: quando l’umidità dell’aria supera l’80-85%, la legna tende ad assorbirla molto di più, e al 95% l’umidità di equilibrio si assesta intorno al 20%. La stagione più umida è l’autunno, perciò una catasta all’aperto non scenderà mai sotto il 14-15%, neppure nelle annate asciutte.

Il principio dell’umidità di equilibrio ci permette di capire se occorre un’essiccazione della durata di due stagioni: se le condizioni climatiche non permettono alla legna di asciugarsi per bene prima che l’umidità dell’aria riprenda a salire, bisognerà attendere una stagione in più. Nel secondo anno, l’umidità della legna sarà in equilibrio con l’umidità minima dell’aria, che in genere si raggiunge all’inizio della primavera. A quel punto, la legna perderà qualche altro punto percentuale.

Quant'è secca la legna?

La legna buona è dura, secca e pulita. Chi ha esperienza la sa riconoscere soppesandola in mano. Le crepe sono un buon segno, ma – come dicevamo – si aprono quando l’interno è ancora umido. Un altro metodo è annusarla: il buon aroma di linfa e resina s’indebolisce via via che il legno si essicca.

Se è essiccata bene, i cerchi annuali sono leggermente sporgenti. Un buon trucchetto è quello di battere due pezzi l’uno contro l’altro: se sono secchi, produrranno un tocco melodioso; se sono freschi, daranno un tonfo sordo. Ma questa sorta di test acustico non è molto preciso: per produrre quel rumore ovattato, la legna deve essere davvero molto umida.

Quanto calore otterrò?

In teoria, un chilo di legno completamente essiccato contiene 5,32 kWh, indipendentemente dall’albero da cui proviene: che sia un legnaccio di scarto oppure rovere di prima qualità, darà sempre la stessa quantità di energia. (Fanno eccezione la corteccia e i rami della betulla, che danno il 20% in più.) In pratica, però, il calore emesso sarà inferiore, intorno ai 3,2 kWh. Questo calo dipende da due fattori: l’umidità del legno e il fatto che la stufa non riesca a sfruttare tutta quanta l’energia. Un’umidità del 20%, dunque relativamente bassa, sarà sufficiente a ridurre il valore a 4,2 kWh. La percentuale di calo sarà leggermente superiore a quella dell’umidità, per motivi tecnici legati alla combustione.

Nessuna stufa è in grado di sfruttare tutta l’energia contenuta nella legna, principalmente a causa di una combustione incompleta dei gas, ma anche perché una parte del calore viene assorbita dalla canna fumaria. I modelli di una volta hanno un rendimento che oscilla fra il 40% e il 60%, mentre quelli moderni si assestano fra il 60% e l’80%. Quello di un caminetto può essere molto basso, anche del 10-15%. In Norvegia è convenzione presupporre, per le stufe moderne, un rendimento del 75%. Questo significa che dei 5,32 kWh originari ce ne restano solo 3,2. Se la stessa legna viene bruciata in una stufa con un rendimento del 40%, questo valore scende a 1,7. Se invece la bruciamo nel caminetto, non ci rimane quasi niente: appena 0,6 kWh. Ma se riusciamo a sfruttarla in condizioni ottimali (esistono caldaie con un rendimento del 90%), e se l’abbiamo essiccata fino al 13% di umidità (ossia il valore più basso che si possa raggiungere con una catasta all’aperto e un’estate molto asciutta), otterremo nientemeno che 4,1 kWh per ogni chilogrammo.

Se la legna è ancora fresca, il risultato sarà disastroso: con tutta l’energia che va sprecata per buttare fuori l’acqua, il calore rimasto sarà così poco che per un certo tempo la stufa – per buona che sia – non raggiungerà neppure la temperatura necessaria per un funzionamento corretto.

Legna secca e vecchia

Esperimenti pratici hanno dimostrato che la legna essiccata può restare in legnaia per venti o trent’anni senza che il potere calorifico ne risenta in modo degno di nota. Con il tempo, evaporano alcune sostanze volatili e alcuni oli, e il pino è quello che ne perde di più, soprattutto i terpeni e l’esanale.

La stufa

La differenza fra le stufe vecchie e quelle a combustione rapida è che queste ultime hanno un rifornimento supplementare d’aria preriscaldata, un sistema che in Norvegia è comunemente chiamato “postbruciatore”, anche se è una definizione impropria. L’aria passa attraverso canali che vengono scaldati dalla stessa camera di combustione, e quando si scontra con i fumi permette di accenderli e bruciarli con più facilità, anche se il fuoco non è molto potente. Perciò queste stufe consumano meno legna. Indicativamente, una vecchia stufa sfrutta circa il 40-60% dell’energia contenuta nella legna, mentre quelle a combustione pulita ne sfruttano il 60-80%. Esiste addirittura una manciata di modelli con un rendimento del 92%. In ogni caso, l’emissione di polveri sottili si riduce sensibilmente: mentre scrivo (2013) esistono stufe con un fattore di emissione di particolato bassissimo, appena 1,25 g/kg.

Tiraggio

Per conoscere il funzionamento di una stufa, occorrono due nozioni fondamentali: il tiraggio, ossia il risucchio attraverso la canna fumaria, derivante dalla differenza di temperatura fra interno ed esterno, e il registro, ossia quello che regola l’aria che entra nella camera di combustione. Le due valvole agiscono di concerto (senza tiraggio, la stufa non può incamerare aria), ma hanno un effetto diverso sulla combustione. Dal registro dipende l’intensità con cui la legna può bruciare. Dal tiraggio, invece, dipendono diverse cose. Tutte le stufe funzionano in modo ottimale con un grado di tiraggio ben preciso: non deve essere troppo basso, perché altrimenti ci si ritrova con il salotto invaso dal fumo, ma nemmeno troppo alto, perché accelererebbe la combustione e i fumi non avrebbero il tempo di bruciare del tutto (lo si capisce dalle lunghe fiammate gialle che lambiscono la volta della stufa). Purtroppo le leggi della natura giocano a nostro sfavore, perché il tiraggio è inversamente proporzionale alla temperatura esterna, perciò ci fa perdere più calore proprio nelle giornate più gelide.

Per ovviare a quest’inconveniente, si può installare nella canna fumaria un’apposita valvola, che si regola manualmente a seconda dei casi, dando una riduzione di tiraggio fra lo 0% e il 70%. La si lascia completamente aperta al momento dell’accensione, dopodiché la si stringe finché le fiamme non si abbassano, preferibilmente acquisendo un lucore bluastro al centro. In tal modo, si ottimizza il consumo di legna, ottenendo un apporto di calore non lontano da quello degli odierni modelli a combustione pulita: la stufa non ha “fame” di legna e la combustione è effettivamente più pulita, a patto di stringere la valvola solo dopo che il fuoco ha cominciato ad ardere con una certa intensità.

Uso e manutenzione

La stufa va controllata regolarmente, soprattutto per individuare eventuali crepe. Gli isolanti danneggiati vanno sostituiti, perché altrimenti l’aria entra da dove non dovrebbe, e il rendimento cala. Se lo sportello è in vetro, lo si può pulire con carta di giornale, oppure con una spugna, tuffandola nella cenere e strofinando la lastra: benché molti siano convinti che, così facendo, la cenere si trasformi in liscivia, in realtà non si fa altro che produrre una frizione che pulisce il vetro (per fare la liscivia, l’acqua deve essere bollente).

Molto importante – ma spesso trascurata – è la pulizia delle superfici interne della camera di combustione e della canna fumaria, ricoperte di fuliggine. Bisognerebbe farla almeno una volta durante la stagione in cui la stufa viene usata, perché la fuliggine funge da isolante, e uno strato di soli 3 mm fa perdere il 10% del calore, che viene risucchiato dalla canna anziché essere irradiato dal metallo. Mezz’ora di lavoro con paglietta e bidone aspiracenere aumenterà notevolmente il rendimento.

Il caminetto

Purtroppo, il caminetto presenta notevoli svantaggi. Immagazzina il calore soltanto nelle pietre di cui è composto, perciò la quantità che viene irradiata nella stanza è molto più bassa di quella data dalle stufe. È molto più difficile, se non addirittura impossibile, ottenere una combustione completa, perché il fuoco non ha la turbolenza né la condensazione del calore che invece hanno luogo in una stufa, perciò emette una gran quantità di fumo e fuliggine. Questa è la ragione per cui in molte regioni i caminetti sono vietati. L’inquinamento si può ridurre grazie all’“accensione dalla cima” e attizzando a intervalli regolari, assicurandosi che ci siano fiamme nitide e braci grosse, e con continue aggiunte di legna. Inoltre, è buona norma lasciare sul fondo del camino uno strato di cenere, per mantenere accese le braci e il calore residuo dopo che il fuoco si è spento.

La cucina a legna

Una volta, le cucine a legna si trovavano un po’ in tutte le case norvegesi. Oggi, le cucine dell’italiana La Nordica sono in grado di assicurare la stessa piacevole efficienza. Possono riscaldare anche una stanza grande o un rustico, oltre a fornire tutto il calore necessario a cucinare.

Forno, piastra e riscaldamento della cucina, tutto in uno. Usatela per preparare il caffè in un pentolino, e lo servirete ai vostri ospiti in un’atmosfera che nessun barista al mondo è in grado di ricostruire. Di norma sono piuttosto larghe, hanno spazio per pentole grosse e hanno un apposito cassetto che permette di vuotare le ceneri mentre il fuoco è ancora acceso. Spesso la piastra è provvista di anelli mobili, per dare maggiore effetto. Il metallo è spesso, in modo da mantenere costante la temperatura. Di solito, come combustibile, si usano pezzi sottili di pioppo o abete rosso, che permettono un buon controllo del calore.

Non è certo una cucina-giocattolo, anzi: è un sistema di provata funzionalità, che costituisce il cuore stesso dell’abitazione. Ancora oggi i più accaniti sostenitori del fornello a induzione restano stupefatti di fronte all’efficienza con cui la cucina a legna porta a ebollizione grossi pentoloni d’acqua in pochissimo tempo, con un’emissione di calore sorprendentemente uniforme. Fra le varie ditte produttrici, spiccano la Josef Davidssons Eftr (svedese) e La Nordica (italiana). Quest’ultima ha svariati modelli provvisti di un forno capiente, con finiture modernissime.

La caldaia a legna

La caldaia a legna ottimizza la combustione in modo del tutto diverso rispetto alla stufa. Tutti i modelli moderni hanno un sistema a gassificazione: la legna viene portata a una temperatura ben determinata, e i fumi vengono bruciati in un comparto separato. Per diversi decenni, la gassificazione è stata una tecnologia dormiente (le vecchie caldaie avevano un’unica camera di combustione), ma ora ha ripreso vigore grazie alle sonde per fumi e ai sensori di temperatura. La legna viene riscaldata in modo controllato e appositi ugelli trasferiscono i gas in un secondo comparto. Il registro dell’aria e il tiraggio si regolano automaticamente, per una combustione ottimale e pulita.

Generalmente, le caldaie delle abitazioni private sono progettate in modo da richiedere uno o due carichi al giorno durante l’inverno, ma i serbatoi più grossi possono conservare il calore per giorni. Alcuni modelli inviano un segnale a un pannello di monitoraggio installato in salotto, per avvisare che è ora di caricare altra legna. Molte caldaie hanno un serbatoio per la legna della capienza di 100-200 litri o anche più, in certi casi sono provviste di alimentazione automatica, e generalmente funzionano con ciocchi da 50-120 cm.

Il fuoco

Per accendere, la cosa più importante è capire davvero che cosa accade quando un pezzo di legno brucia. Grazie a questa conoscenza, si riuscirà ogni volta (a patto che la legna sia asciutta, beninteso), e si sarà anche in grado di determinare il momento in cui la stufa comincia a inquinare.

A questo scopo, ora seguiremo una semplice lezione sulla combustione della legna, che sostanzialmente si divide in tre fasi: vapori, gas, braci.

Quando un ciocco viene posato sul fuoco, la prima cosa che accade è l’evaporazione dell’acqua contenuta nel legno. Questo processo assorbe energia senza restituirci nulla, ed è proprio per questa ragione che la legna verde ci ruba calore. Dopo un po’, la parte esterna del ciocco è completamente secca, e incomincia la seconda fase: la temperatura si alza, e la legna comincia a sprigionare gas. Sembra che il ciocco stia prendendo fuoco, e invece sta accadendo qualcosa che non ci saremmo aspettati: non è il legno a bruciare, ma i gas che ne stanno uscendo. Ecco che cosa sta alimentando le fiamme che vediamo. Quando i gas si esauriscono, è il momento della terza fase: il legno diventa carbone incandescente, con temperature che possono anche superare i 550° C. Ora occorre un minore apporto di aria.

In realtà, ognuna delle fasi incomincia prima che si sia conclusa la precedente, e viene favorita dalle altre due. Per semplificare un po’, possiamo dire che il legno si asciuga fino a sprigionare i gas, i quali s’incendiano nel momento in cui s’incontrano con l’aria fresca e raggiungono una certa temperatura. In altre parole, le fiamme sono prodotte dalla combustione dei gas. Ecco perché tutto il fumo che esce dal comignolo è energia sprecata. I gas bruciano a circa 350° C, e per una combustione ottimale necessitano di molta aria.

Ora possiamo anche capire come mai una combustione impropria è inquinante: il ciocco comincia a sprigionare gas intorno ai 100-150° C, ma per bruciarli occorre raggiungere i 350° C, ed è in questa fase intermedia che sfuggono i gas incombusti. Osservando il ciocco, si noterà che cessa di fumare nel momento in cui prende fuoco. Dunque la combustione più efficiente e più pulita avrà luogo quando la stufa è ben calda.

Accensione

Ora che sappiamo tutte queste cose, sarà più facile capire come mai il fuoco necessita di tre materiali diversi: in primo luogo qualcosa di molto infiammabile, poi alcuni bastoncini di legno sottili, i quali a loro volta daranno fuoco ai ciocchi più grossi.

Le riviste non vanno bene, perché la carta patinata è fatta circa per metà da minerali industriali (cioè, praticamente, roccia), dunque brucia malissimo e produce una gran quantità di cenere.

Se tarda ad attecchire, non bisogna lesinare con la carta o con i cubetti: per l’ambiente, la cosa migliore è portare in breve tempo il fuoco a una certa intensità, in modo da bruciare i gas. Sarà inoltre opportuno conoscere bene il funzionamento di tutte le valvole della stufa.

Se la temperatura di casa non è molto più alta di quella esterna, ci sarà poco tiraggio. In quel caso, non bisogna esitare a impiegare molto materiale di accensione. Quando la stufa si sarà riscaldata, il tiraggio aumenterà e sarà più facile mantenere vivo il fuoco.

Nelle giornate con i maggiori sbalzi di temperatura (in autunno e in primavera) può capitare che l’aria della canna fumaria sia più fredda di quella esterna, cosa che tipicamente avviene nelle seconde case rimaste inabitate per più di una settimana. In quel caso, il tiraggio inverte la direzione e il fumo invade la stanza. Quando ci si ritrova in questi frangenti, può essere utile bruciare due o tre carichi di carta di giornale. Magari la casa si riempirà di fumo, ma non appena il fuoco avrà preso impeto spingerà fuori il “tappo” di aria fredda nella canna fumaria, ripristinando il tiraggio.

Il metodo “valle e ponte”

All’inizio è importante lasciare entrare abbastanza aria, soprattutto dal basso. A questo scopo, esiste un ottimo metodo che noi chiamiamo “dosso e cunetta”. Si posano due ciocchi paralleli, a distanza di 10-15 cm, e nel mezzo, ossia al centro della “valle”, si colloca la carta di giornale appallottolata o un cubetto accendifuoco. Sui ciocchi, a mo’ di “ponte”, si posa la legna da esca, che così resterà sollevata al di sopra della cenere e ben ventilata dal basso.

Volendo, si può posare un ciocco di medie dimensioni di traverso sul “ponte”: la legna da esca brucerà fino a crollare, così il ciocco cadrà, incendiando la “valle”.

Inquinamento al minimo

Quando la stufa sarà ben calda e avrà grosse braci, soltanto allora sarà il momento di aggiungere i ciocchi. Se li si posa troppo presto, la temperatura della stufa si abbasserà, allungando la fase di evaporazione dell’acqua. Fa eccezione il metodo dell’accensione dall’alto.

Anche quando il fuoco ha preso impeto, è importante caricare sempre almeno due ciocchi per volta, mai uno per uno, e metterli sempre a qualche centimetro di distanza l’uno dall’altro: il calore di ognuno dei due farà sprigionare i gas dall’altro e li incendierà.

Se la combustione è perfetta, verranno bruciati tutti i fumi e tutta la fuliggine, e ogni potenziale agente inquinante verrà convertito in calore. Raggiungere questo scopo è meno difficile di quanto sembri. Il segreto sta nell’avere legna ben essiccata, dare alla stufa una buona provvista di aria in modo che il fuoco arda con vigore, e aggiungere ciocchi quando le braci sono ancora intense.

Quando la casa è calda, la temperatura si regola scegliendo il tipo di legna e la quantità da caricare, senza agire sul registro dell’aria. La legna tagliata sottile non necessita di grandi fuochi per bruciare completamente, e lo stesso vale anche per i legni leggeri dal basso potere calorifico. Tocca aggiungerne più spesso, ma bruciando un grosso ciocco insieme a pezzi sottili si evita che la stufa si spenga. Per sapere come regolarsi, basta uscire di casa e studiare il colore e l’odore del fumo: la combustione ideale non dovrebbe produrre fumi avvertibili alla vista o all’olfatto, ma soltanto un leggero sbuffo di vapori chiari. (Anche se la legna avesse lo 0% di umidità, la sua combustione produrrebbe inevitabilmente un po’ di vapore.)

Il fuoco deve essere vigoroso e intenso, certo, ma a tutto c’è un limite: se la stufa viene sovraccaricata di legna sottile, la superficie complessiva di combustione sarà eccessiva e si sentiranno gli scricchiolii del metallo, che per il troppo calore si espande e applica una torsione alle giunture della stufa. A quel punto si rischia l’incendio, o quantomeno un danneggiamento della stufa e della canna fumaria.

Se ci si trova in una situazione di emergenza e si ha la necessità di alimentare il fuoco con legna non del tutto asciutta, la si può spaccare a pezzi sottili e bruciarla insieme ad altra legna ben essiccata, in modo da accelerare la fase di evaporazione.

Accensione dalla cima

L’accensione dall’alto è adatta soprattutto alle stufe moderne con presa d’aria nella parte superiore. La legna viene impilata stretta, poi si accende un fuocherello in cima. Un metodo efficace ed elegante è quello di posare un po’ di legna da esca di traverso sopra la pila, e incendiarla con un cubetto accendifuoco.

L’obiettivo dell’accensione dall’alto è quello di posizionare le fiamme nella parte superiore della stufa. Quasi tutti alimentano il fuoco posandovi sopra i ciocchi, e trovano che la tecnica contraria sia improponibile. Eppure funziona, e per una ragione elementare: i gas emessi dalla legna vanno sempre verso l’alto. Dunque la fiamma deve trovarsi in cima al mucchio, altrimenti i gas non bruciano e non scaldano: inquinano e basta. Il rimedio è semplice: a stufa fredda si posa uno strato uniforme di ciocchi (o anche due o tre strati, se la stufa è molto grande). Sopra questi si posa la legna da esca, magari insieme a un cubetto accendifuoco che alzi la temperatura fin da subito. Il fuoco sulla cima deve essere abbastanza grande da dare fuoco ai ciocchi sottostanti; andrà benissimo il metodo “valle e ponte”.

Ben presto il fuoco comincerà a farsi strada verso il basso. I ciocchi si scaldano e sprigionano gas che vanno verso l’alto, ma lassù c’è sempre una fiamma che li brucia. Nel frattempo, si scaldano i canali della combustione secondaria, e questo fa aumentare il tiraggio. Secondo le indicazioni della Jøtul, la legna da esca può essere ammucchiata fino ai forellini per l’ingresso secondario dell’aria.

Questo metodo è adatto soprattutto alle stufe a combustione pulita dotate di un ampio sportello, perché generalmente in queste la presa d’aria si trova in alto. Tuttavia, si può benissimo sfruttare anche nei caminetti o nei falò all’aperto, in modo da bruciare buona parte del fumo.

Riscaldamento per tutta la notte

Molti norvegesi, prima di coricarsi, hanno il viziaccio di sovraccaricare la stufa e stringere il registro dell’aria. Questa pratica era molto comune nei tempi andati, perché era l’unico modo per tenere calda la casa durante la notte, dato che la stufa in ghisa non immagazzina il calore. Perciò la si sovraccaricava e si chiudeva l’aria. Ma così facendo tutti i gas vengono risucchiati dalla canna fumaria senza essere bruciati, dunque si produce parecchio inquinamento, si spreca tanta preziosa energia e si riempie la canna fumaria di fuliggine, con conseguente rischio d’incendi.

Perciò la scienza consiglia di cambiare tattica: prima di coricarsi, mettere nella stufa alcuni ciocchi piuttosto grossi, di un legno molto duro e nodoso (e dunque anche compatto), su uno strato di braci intense. Dopo che i ciocchi hanno preso fuoco, si può abbassare leggermente l’apporto d’aria, ma solo dopo che si è superata la fase in cui la legna emette vapori e fumi. Magari dopo qualche ora la stufa si spegnerà, ma le case odierne hanno un buon isolamento termico e conservano il calore prodotto fino a quel momento (e il calore in questione sarà assai di più di quello prodotto da una stufa che resta tiepida ancora per un’oretta o due).

Nella camera di combustione si può benissimo lasciare uno strato piuttosto spesso di ceneri: terrà calde le braci, e al mattino la canna fumaria sarà ancora tiepida e darà un buon tiraggio. Se prima di coricarsi si predispongono alcuni fogli di giornale e un po’ di legna da esca, sarà già tutto pronto per riaccendere il fuoco in men che non si dica.

La legna che non scalda

Quando si alimenta la stufa ad abete rosso o altri legni leggeri, soprattutto se tagliati sottili, in grande quantità in una stufa rovente, con molta brace e registro dell’aria chiuso, salterà la fase dell’evaporazione e comincerà direttamente a sprigionare gas. E quest’emissione è così veloce che certe vecchie stufe non sono in grado di fornire l’ossigeno necessario per bruciare i gas, che quindi vengono risucchiati dalla canna fumaria e restano incombusti. I gas costituiscono la metà dell’energia contenuta nel legno. Così, l’unico calore che si riesce a sfruttare è quello dato dalla combustione del carbone. Il resto va in fumo – letteralmente – dimezzando il potere calorifico della legna.

Nelle stufe a combustione pulita, costruite appositamente per bruciare anche i fumi, il problema si presenta molto di rado.

Inoltre, questo fenomeno può verificarsi quando il fuoco avvampa troppo, e una ricerca condotta dalla ditta Jøtul dimostra che una combustione più intensa di quanto la stufa non sia in grado di reggere ne diminuisce l’efficienza, proprio perché i gas non hanno il tempo di bruciare.

Lo spazzacamino

Quando scoppia un incendio nella canna fumaria, si comincia a sentire un insolito rombo. Spesso sono i vicini ad avvisarci, perché vedono scintille o fiamme uscire dal nostro comignolo. Un piccolo incendio di fuliggine secca può essere del tutto innocuo, anzi, tutt’al più ripulisce la canna fumaria.

La fuliggine oleosa, invece, è tutt’altra faccenda: può superare i 1200° C, e scendere a grandi falde fino a intasare la canna o cadere dentro alla stufa. A temperature del genere, la canna fumaria scoppia e il tetto s’incendia. Per evitarlo, bisogna alimentare il fuoco in modo corretto, usando legna asciutta, e spazzare regolarmente la canna. In Scandinavia è prassi generale chiudere tutte le valvole di tutte le stufe, anche quelle spente. Così facendo, s’interrompe l’apporto di aria all’incendio. Dopodiché, si telefona all’istante ai pompieri.