National Geographic - Artide. La fine dei ghiacci

Da Sotto le querce.

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La minaccia nascosta

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National Geographic
La minaccia nascosta

Il permafrost artico fonde più rapidamente del previsto, rilasciando gas serra che potrebbero accelerare il cambiamento climatico.

Testo di Craig Welch. Fotografie di Katie Orlinsky - National Geographic Italia settembre 2019


Craig Welch

Il permafrost artico fonde più rapidamente del previsto, rilasciando gas serra che potrebbero accelerare il cambiamento climatico.

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Il rilascio di metano, un potente gas serra, è una conseguenza della fusione del terreno sotto i laghi artici. D’inverno il ghiaccio di superficie intrappola il gas. In questo stagno vicino a Fairbanks, in Alaska, gli scienziati hanno perforato il ghiaccio e incendiato il metano che fuoriusciva.


Sergey Zimov getta un osso di mammut lanoso nel mucchio. Lo studioso è accovacciato nel fango sulla sponda dell’ampio fiume Kolyma, ai piedi di un alto argine di terra friabile. È estate in questa regione della Siberia orientale, ben al di sopra del Circolo Polare Artico, e non c’è traccia di brina o di neve. Eppure il fiume ha eroso la base di questa rupe chiamata Duvanny Yar, esponendo ciò che giace sotto: uno strato di terreno ghiacciato, o permafrost, spesso centinaia di metri, che si sta riscaldando a grande velocità.

Ramoscelli, altra materia vegetale e parti di animali dell’Era Glaciale - mascelle di bisonte, femori di cavallo, ossa di mammut - si riversano sulla spiaggia in cui sono immersi gli stivali di Zimov. «Adoro Duvanny Yar», dichiara mentre estrae i fossili dal fango. «Sembra di leggere un libro. Ogni pagina ci racconta qualcosa sulla storia della natura».

Il cambiamento climatico sta scrivendo un nuovo capitolo su 23 milioni di chilometri quadrati nel nord del nostro pianeta. Il permafrost artico non sta fondendo gradualmente, come avevano previsto gli scienziati. Da un punto di vista geologico, lo sta facendo praticamente dal giorno alla notte. Ammorbidendosi e cedendo, i terreni come quello di Duvanny Yar liberano vestigia del passato - e masse di carbonio - rimaste custodite nel terreno congelato per millenni. E penetrando nell’atmosfera in forma di metano o anidride carbonica, il carbonio promette di accelerare il cambiamento climatico, a prescindere dal fatto che gli esseri umani si sforzino o meno di ridurre le emissioni da combustibili fossili.

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Sergey Zimov, a destra, e il figlio Nikita gestiscono una stazione di ricerca artica a Cherskiy, in Russia. Sergey ha scoperto che il permafrost immagazzina più carbonio di quanto pensassero gli scienziati e che l’aumento delle temperature ne causa il rilascio nell’atmosfera.

Pochi conoscono questo pericolo meglio di Zimov. Da una fatiscente stazione di ricerca di Cherskiy, a circa tre ore di motoscafo da Duvanny Yar, ha passato decenni a dissotterrare i misteri di una regione artica sempre più calda.

Le più recenti scoperte suggeriscono che il carbonio si libererà più in fretta man mano che il pianeta si riscalda. Dalla velocità inattesa del riscaldamento artico e dal modo preoccupante in cui le acque di fusione si muovono attraverso i paesaggi polari, oggi i ricercatori sospettano che, per ogni grado centigrado in più di temperatura media della Terra, il permafrost potrebbe rilasciare l’equivalente di 4-6 anni di emissioni di carbone, petrolio e gas naturale: il doppio o il triplo di quanto si ritenesse possibile appena qualche anno fa. Nel giro di pochi decenni, se non riduciamo l’uso dei combustibili fossili, il permafrost potrebbe diventare una fonte di gas serra equiparabile alla Cina, nazione responsabile oggi della maggiore quantità di emissioni.

Finora non abbiamo tenuto conto di questi dati. Solo di recente il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ippc) ha cominciato a inserire il permafrost nelle sue proiezioni. Ovviamente il potenziale di riscaldamento del pianeta da parte del permafrost è molto contenuto rispetto a quello umano. Ma se speriamo di limitare l’innalzamento delle temperature entro 2°C, come hanno concordato 195 nazioni alla Conferenza di Parigi del 2015, i nuovi studi suggeriscono che potremmo dover tagliare le emissioni otto anni prima rispetto alle previsioni dei modelli dell’{[caps, e solo per compensare la fusione del permafrost}}. Forse questa è la ragione meno apprezzata per accelerare la transizione verso un’energia più pulita. Di fatto, per raggiungere qualsiasi obiettivo che ci prefiggiamo per combattere il riscaldamento globale, dovremo muoverci ancora più in fretta di quanto credessimo.


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La valle del fiume Alatna, che scorre verso sud dai monti Brooks dell’Alaska, è diventata un corridoio per la fauna selvatica che si sposta a nord, inoltrandosi in un’Artide dal clima sempre più mite. Le popolazioni dei castori sono in aumento, e i loro stagni - alcuni visibili in alto a sinistra, al di là del fiume - accelereranno la fusione del permafrost.


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Gli antichi strati di permafrost artico, che qui si possono osservare nella parete del cratere di Batagaika,contengono resti o rganici di foglie, erba e animali morti migliaia di anni fa, durante l’Era Glaciale. Tutto il carbonio risultante è rimasto intrappolato nella terra ghiacciata… finora.


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A Newtok, sul fiume Ninglick, in Alaska, il permafrost ha ceduto a tal punto che le case distano ormai appena poche decine di metri dall’acqua. Il villaggio sta per spostarsi in un nuovo sito 15 km a monte: l’anteprima di un processo che un giorno potrebbe coinvolgere molti villaggi dell’Alaska.

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Zimov arrivò per la prima volta a Cherskiy negli anni Settanta come studente universitario, per affiancare una spedizione come cartografo. Si innamorò del paesaggio aspro e del senso di isolamento. Qualche anno dopo tornò e fondò la Stazione scientifica del Nordest, inizialmente sotto gli auspici dell’Accademia russa delle scienze. Oggi la stazione di ricerca che gestisce insieme al figlio Nikita è di sua proprietà. E pur essendo una struttura improvvisata che opera con un budget molto limitato, attrae studiosi dell’Artide da tutto il mondo.

Un giorno dell’estate 2018, io e la fotografa Katie Orlinsky raggiungiamo Zimov a bordo di una vecchia nave che porta rifornimenti a una struttura di monitoraggio atmosferico presso la baia di Ambarchik, vicino alla foce del Kolyma sul Mar Glaciale Artico. Attraversiamo prati spugnosi su una passerella ricavata da vecchi termosifoni. Mentre procediamo, Zimov sonda il terreno con un’asta di metallo per controllare la profondità del permafrost solido.

Il permafrost - terreno che rimane ghiacciato tutto l’anno - è ricoperto da un massimo di quattro metri di terra e detriti vegetali. Questo strato di suolo, chiamato strato attivo, in genere si scongela ogni estate e torna a gelare d’inverno, proteggendo il permafrost dal calore crescente dell’aria. Ma nella primavera del 2018 una squadra che lavorava per Nikita ha scoperto che il terreno di supericie attorno a Cherskiy non si era congelato affatto durante la lunga e buia notte polare. Era un fatto senza precedenti: a gennaio in Siberia il freddo è così estremo che anche il respiro umano può congelare. Il suolo avrebbe dovuto essere congelato, ma 75 centimetri sotto la supericie c’era solo fanghiglia.

«Tre anni fa la temperatura del terreno sopra il permafrost era 3 gradi sottozero», spiega Zimov. «Poi è scesa a meno 2. Poi a meno 1. Quest’anno era due gradi sopra lo zero».

Da un certo punto di vista la cosa non dovrebbe sorprenderci. A partire dal 2014 abbiamo vissuto i cinque anni più caldi sulla Terra dalla fine dell’Ottocento e l’Artide si sta riscaldando a velocità doppia rispetto al resto del pianeta perché perde ampie porzioni di banchisa, che contribuisce ad abbassare le temperature e a raffreddarlo.

A livello globale le temperature del permafrost sono in aumento da mezzo secolo. Sul North Slope dell’Alaska sono cresciute di 5,8 gradi in 30 anni. Il disgelo localizzato del permafrost ha eroso coste e fatto sprofondare strade e scuole. Le estati calde stanno già sconvolgendo la vita degli abitanti dell’Artide.

Ma ciò che gli Zimov hanno documentato nel 2018 è qualcosa di diverso, con implicazioni che vanno oltre la regione artica: una fusione dei ghiacci invernale. La colpa, paradossalmente, è stata delle pesanti nevicate. La Siberia ha un clima secco, ma già da diversi inverni prima del 2018 la regione è stata ricoperta da una spessa coltre di neve. La neve ha agito come una coperta, intrappolando il calore estivo nel terreno. In un sito di ricerca a 18 chilometri da Cherskiy, Mathias Goeckede dell’istituto tedesco Max Planck ha scoperto che la profondità della neve è raddoppiata negli ultimi cinque anni. Nell’aprile 2018, le temperature nello strato attivo erano aumentate di 6 gradi.

E il fenomeno non si limitava alla Siberia. Vladimir Romanovsky, esperto di permafrost della University of Alaska, ha osservato per anni lo strato attivo gelare completamente entro metà gennaio in circa 180 siti di rilevazione in Alaska. Ma poiché anche questi luoghi sono stati interessati da pesanti nevicate, ultimamente il congelamento è slittato prima a febbraio, poi a marzo. Nel 2018 otto dei siti di rilevazione di Romanovsky vicino a Fairbanks e una dozzina sulla Penisola di Seward non sono praticamente mai gelati del tutto.

Il permafrost di tutto il mondo contiene fino a 1.600 miliardi di tonnellate di carbonio, quasi il doppio di quello presente nell’atmosfera. Nessuno si aspetta che fonda del tutto o anche solo in gran parte. Fino a poco tempo fa i ricercatori presumevano che il permafrost avrebbe perso il 10 per cento al massimo del suo contenuto di carbonio. E questo, si pensava, sarebbe avvenuto nell’arco di almeno 80 anni.

Ma da quando lo strato attivo ha smesso di gelare in inverno gli eventi hanno cominciato a precipitare. Il calore supplementare permette ai microbi di divorare la materia organica nel terreno - e di emettere anidride carbonica o metano - per tutto l’anno anziché solo per qualche mese ogni estate. E il calore invernale impregna il permafrost stesso, portandolo a fondere più in fretta.

«Molti dei presupposti che davamo per scontati si stanno sgretolando», dice la chimica atmosferica Róisín Commane, che monitora le emissioni per via aerea. Lei e i suoi colleghi hanno scoperto che la quantità di CO2 che veniva dal North Slope dell’Alaska all’inizio dell’inverno è aumentata del 73 per cento dal 1975.

Certo, pochi inverni nevosi non costituiscono una tendenza; lo scorso inverno è caduta meno neve a Cherskiy e il terreno si è di nuovo raffreddato in misura considerevole. Anche a Fairbanks è nevicato poco. Eppure in alcuni dei siti di Romanovsky in Alaska lo strato attivo ha di nuovo trattenuto abbastanza calore da impedire un congelamento completo.

«È davvero incredibile», dice Max Holmes, del Centro di ricerca Woods Hole del Massachusetts, che ha studiato il ciclo del carbonio sia in Alaska sia a Cherskiy. «Ho sempre immaginato la fusione del permafrost come un processo lento e regolare, e forse questi cinque anni sono stati solo un’eccezione. Ma se invece non fosse così? Se le cose stessero cambiando molto più in fretta?»

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Gli antichi strati di permafrost artico, che qui si possono osservare nella parete del cratere di Batagaika,contengono resti o rganici di foglie, erba e animali morti migliaia di anni fa, durante l’Era Glaciale. Tutto il carbonio risultante è rimasto intrappolato nella terra ghiacciata… finora.


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A Newtok, sul fiume Ninglick, in Alaska, il permafrost ha ceduto a tal punto che le case distano ormai appena poche decine di metri dall’acqua. Il villaggio sta per spostarsi in un nuovo sito 15 km a monte: l’anteprima di un processo che un giorno potrebbe coinvolgere molti villaggi dell’Alaska.

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Zimov arrivò per la prima volta a Cherskiy negli anni Settanta come studente universitario, per affiancare una spedizione come cartografo. Si innamorò del paesaggio aspro e del senso di isolamento. Qualche anno dopo tornò e fondò la Stazione scientifica del Nordest, inizialmente sotto gli auspici dell’Accademia russa delle scienze. Oggi la stazione di ricerca che gestisce insieme al figlio Nikita è di sua proprietà. E pur essendo una struttura improvvisata che opera con un budget molto limitato, attrae studiosi dell’Artide da tutto il mondo.

Un giorno dell’estate 2018, io e la fotografa Katie Orlinsky raggiungiamo Zimov a bordo di una vecchia nave che porta rifornimenti a una struttura di monitoraggio atmosferico presso la baia di Ambarchik, vicino alla foce del Kolyma sul Mar Glaciale Artico. Attraversiamo prati spugnosi su una passerella ricavata da vecchi termosifoni. Mentre procediamo, Zimov sonda il terreno con un’asta di metallo per controllare la profondità del permafrost solido.

Il permafrost - terreno che rimane ghiacciato tutto l’anno - è ricoperto da un massimo di quattro metri di terra e detriti vegetali. Questo strato di suolo, chiamato strato attivo, in genere si scongela ogni estate e torna a gelare d’inverno, proteggendo il permafrost dal calore crescente dell’aria. Ma nella primavera del 2018 una squadra che lavorava per Nikita ha scoperto che il terreno di supericie attorno a Cherskiy non si era congelato affatto durante la lunga e buia notte polare. Era un fatto senza precedenti: a gennaio in Siberia il freddo è così estremo che anche il respiro umano può congelare. Il suolo avrebbe dovuto essere congelato, ma 75 centimetri sotto la supericie c’era solo fanghiglia.

«Tre anni fa la temperatura del terreno sopra il permafrost era 3 gradi sottozero», spiega Zimov. «Poi è scesa a meno 2. Poi a meno 1. Quest’anno era due gradi sopra lo zero».

Da un certo punto di vista la cosa non dovrebbe sorprenderci. A partire dal 2014 abbiamo vissuto i cinque anni più caldi sulla Terra dalla fine dell’Ottocento e l’Artide si sta riscaldando a velocità doppia rispetto al resto del pianeta perché perde ampie porzioni di banchisa, che contribuisce ad abbassare le temperature e a raffreddarlo.

A livello globale le temperature del permafrost sono in aumento da mezzo secolo. Sul North Slope dell’Alaska sono cresciute di 5,8 gradi in 30 anni. Il disgelo localizzato del permafrost ha eroso coste e fatto sprofondare strade e scuole. Le estati calde stanno già sconvolgendo la vita degli abitanti dell’Artide.

Ma ciò che gli Zimov hanno documentato nel 2018 è qualcosa di diverso, con implicazioni che vanno oltre la regione artica: una fusione dei ghiacci invernale. La colpa, paradossalmente, è stata delle pesanti nevicate. La Siberia ha un clima secco, ma già da diversi inverni prima del 2018 la regione è stata ricoperta da una spessa coltre di neve. La neve ha agito come una coperta, intrappolando il calore estivo nel terreno. In un sito di ricerca a 18 chilometri da Cherskiy, Mathias Goeckede dell’istituto tedesco Max Planck ha scoperto che la profondità della neve è raddoppiata negli ultimi cinque anni. Nell’aprile 2018, le temperature nello strato attivo erano aumentate di 6 gradi.

E il fenomeno non si limitava alla Siberia. Vladimir Romanovsky, esperto di permafrost della University of Alaska, ha osservato per anni lo strato attivo gelare completamente entro metà gennaio in circa 180 siti di rilevazione in Alaska. Ma poiché anche questi luoghi sono stati interessati da pesanti nevicate, ultimamente il congelamento è slittato prima a febbraio, poi a marzo. Nel 2018 otto dei siti di rilevazione di Romanovsky vicino a Fairbanks e una dozzina sulla Penisola di Seward non sono praticamente mai gelati del tutto.

Il permafrost di tutto il mondo contiene fino a 1.600 miliardi di tonnellate di carbonio, quasi il doppio di quello presente nell’atmosfera. Nessuno si aspetta che fonda del tutto o anche solo in gran parte. Fino a poco tempo fa i ricercatori presumevano che il permafrost avrebbe perso il 10 per cento al massimo del suo contenuto di carbonio. E questo, si pensava, sarebbe avvenuto nell’arco di almeno 80 anni.

Ma da quando lo strato attivo ha smesso di gelare in inverno gli eventi hanno cominciato a precipitare. Il calore supplementare permette ai microbi di divorare la materia organica nel terreno - e di emettere anidride carbonica o metano - per tutto l’anno anziché solo per qualche mese ogni estate. E il calore invernale impregna il permafrost stesso, portandolo a fondere più in fretta.

«Molti dei presupposti che davamo per scontati si stanno sgretolando», dice la chimica atmosferica Róisín Commane, che monitora le emissioni per via aerea. Lei e i suoi colleghi hanno scoperto che la quantità di CO2 che veniva dal North Slope dell’Alaska all’inizio dell’inverno è aumentata del 73 per cento dal 1975.

Certo, pochi inverni nevosi non costituiscono una tendenza; lo scorso inverno è caduta meno neve a Cherskiy e il terreno si è di nuovo raffreddato in misura considerevole. Anche a Fairbanks è nevicato poco. Eppure in alcuni dei siti di Romanovsky in Alaska lo strato attivo ha di nuovo trattenuto abbastanza calore da impedire un congelamento completo.

«È davvero incredibile», dice Max Holmes, del Centro di ricerca Woods Hole del Massachusetts, che ha studiato il ciclo del carbonio sia in Alaska sia a Cherskiy. «Ho sempre immaginato la fusione del permafrost come un processo lento e regolare, e forse questi cinque anni sono stati solo un’eccezione. Ma se invece non fosse così? Se le cose stessero cambiando molto più in fretta?»


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E se questo cambiamento si autoalimentasse, come già accade, per esempio, nel caso della banchisa artica? La banchisa rilette i raggi del sole, tenendo fresco il mare sottostante. Ma quando fonde l’oceano assorbe il calore, che a sua volta fa fondere altro ghiaccio.

Di regola, i punti di non ritorno in cui si innescano questi circoli viziosi sono difficili da individuare. «Sappiamo che ci sono soglie che è meglio non varcare», spiega Chris Field dell’Istituto Woods per l’ambiente della Stanford University. «Ma non sappiamo esattamente dove si collochino».

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Gli Zimov sono convinti che gli animali da pascolo abbiano contribuito a proteggere le praterie artiche durante l’Era Glaciale, in parte concimando l’erba. Nella speranza di ripristinare la steppa, e di rallentare la fusione del permafrost, padre e figlio ora portano cavalli selvatici e altri erbivori in una zona che costeggia un affluente del fiume Kolyma. Lo chiamano Parco del Pleistocene.

Nel caso del permafrost, poi, ci sono troppe cose che semplicemente non vediamo. Il permafrost copre un’area vasta oltre il doppio dell’Europa in alcune delle zone meno accessibili al mondo. Solo una piccola parte viene monitorata direttamente. Gli studiosi esaminano piccole porzioni di terreno, ne sorvegliano altre a distanza e riguardo al resto si limitano a inferenze: a differenza di quanto succede per la banchisa artica, che può essere interamente monitorata dal satellite. «Si può andare online e vedere esattamente che cosa è successo alla banchisa», spiega l’esperto di permafrost Ted Schuur. «Con il permafrost non abbiamo modo di vedere nulla. Abbiamo a stento gli strumenti per misurare quello che succede».

C’è poi un tipo di permafrost che preoccupa particolarmente i ricercatori: quel 20 per cento circa che contiene immensi depositi di ghiaccio solido. Una parte di questo ghiaccio si è formata quando l’acqua è filtrata nel terreno ed è congelata venendo a contatto con il permafrost; una parte si è creata nell’arco di migliaia di anni nel corso degli inverni artici, quando il terreno si contraeva e si spaccava in motivi poligonali. In primavera l’acqua di fusione riempiva le fessure, per poi congelare di nuovo. Nel tempo il ghiaccio sepolto è cresciuto in enormi cunei avviluppati dal permafrost. Duvanny Yar ne è piena.

Una struttura del genere può disfarsi in un lampo. Quando il permafrost si disintegra, fonde anche il ghiaccio sepolto. E l’acqua di fusione trasporta calore, che incrementa la fusione e si lascia alle spalle cunicoli e sacche d’aria. Il terreno sprofonda per riempire queste cavità, causando depressioni sulla superficie che si riempiono di pioggia e acqua di fusione. L’acqua approfondisce le cavità e ne divora le sponde fessurate, finché le pozzanghere diventano stagni e gli stagni laghi. Questo porta una maggiore quantità di suolo a riscaldarsi e una maggiore quantità di ghiaccio a fondere.

La fusione improvvisa del permafrost trasforma il paesaggio; provoca frane e fa cadere gli alberi nelle foreste. Merritt Turestsky, ecologa della University of Guelph, in Canada, ha monitorato questo fenomeno in una foresta di pecci mariani vicino a Fairbanks nell’arco degli ultimi 15 anni, scoprendo che gli allagamenti stanno destabilizzando radici e tronchi. Turetsky sospetta che tutti gli alberi della sua “foresta ubriaca” cadranno presto e saranno inghiottiti dalle nuove zone umide. La fusione del permafrost porta sempre a emissioni di gas serra, e l’acqua stagnante accelera il fenomeno. Il gas che filtra dal fango privo di ossigeno sotto stagni e laghi non è solo anidride carbonica ma anche metano che, come gas serra, è 25 volte più potente dell’anidride carbonica. L’ecologa Katey Walter Anthony ha misurato per vent’anni il metano proveniente dai laghi artici. I suoi ultimi calcoli, pubblicati nel 2018, suggeriscono che i nuovi laghi prodotti dalla fusione improvvisa potrebbero quasi triplicare le emissioni di gas serra da permafrost previste.

Non è chiaro fino a che punto questo messaggio abbia raggiunto le istituzioni. Lo scorso ottobre l’Ipcc ha pubblicato un nuovo rapporto sul più ambizioso dei due obiettivi sulla limitazione dell’aumento di temperatura stabiliti nella Conferenza di Parigi del 2015. Il pianeta si è già riscaldato di circa un grado dall’Ottocento. Secondo il rapporto, limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi anziché a 2 esporrebbe 420 milioni di persone in meno a frequenti ondate di caldo estremo e dimezzerebbe il numero di piante e animali che subirebbero una perdita di habitat. Potrebbe forse anche salvare fino a 2 milioni di chilometri quadrati di permafrost. Ma per raggiungere l’obiettivo, secondo l’Ipcc, il mondo dovrebbe tagliare le emissioni di gas serra del 45 per cento entro il 2030, eliminarle del tutto entro il 2050 e sviluppare tecnologie capaci di eliminarne grandi quantità dall’atmosfera.

Ma la sfida potrebbe essere ancora più difficile. Nel rapporto sull’obiettivo di 1,5 gradi l’Ipcc ha preso in considerazione per la prima volta le emissioni del permafrost, ma quel rapporto non includeva i dati sulle emissioni della fusione improvvisa. I modelli climatici non sono ancora abbastanza sofisticati da includere questo tipo di mutazione rapida del paesaggio. Ma su richiesta di National Geographic Katey Walter Anthony e il climatologo Charles Koven hanno messo a punto modelli approssimativi che tengono conto delle emissioni della fusione improvvisa. Per bloccare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi, hanno stimato, dovremmo azzerare le emissioni da combustibili fossili almeno del 20 per cento più in fretta, non oltre il 2044, quindi con sei anni di anticipo rispetto alla tabella di marcia dell’Ipcc. In pratica, ci resterebbe appena un quarto di secolo per trasformare da cima a fondo il sistema energetico globale.

«Stiamo affrontando un futuro ignoto con strumenti insufficienti», dice Koven. «E le incognite non sono tutte dalla nostra parte. Le cose potrebbero prendere una piega peggiore del previsto per diversi motivi». Per esempio, con la formazione di nuovi laghi.


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Il villaggio di Newtok, in Alaska, 380 abitanti, sta sprofondando man mano che il permafrost sottostante fonde. Durante una caccia estiva agli uccelli, quattro giovani yupik - da sinistra, Kenyon Kassaiuli, Jonah Andy, Larry Charles e Reese John - attraversano una passerella allagata.


Qualche settimana dopo aver lasciato la Siberia, io e Orlinsky facciamo un giro in gommone nel Parco nazionale Gates of the Arctic, in Alaska, con l’ecologo Ken Tape, della University of Alaska. Un idrovolante ci scarica al lago Gaedeke, al centro dei monti Brooks, da dove ci dirigiamo a sud lungo il fiume Alatna. Il sole di settembre danza sulle acque. Dopo due chilometri avvistiamo rami masticati sugli argini. Una settimana dopo arriviamo a un lago di 15 ettari che prima non esisteva. Al centro c’è un’enorme tana di castori.

Tape si avvale da anni di fotografie aeree e satellitari per monitorare il cambiamento della flora e della fauna selvatica in Alaska e l’effetto che potrebbe avere sul permafrost. Mentre il permafrost fonde e le stagioni di crescita si allungano, l’Artide diventa più verde: gli arbusti nelle pianure fluviali dell’Alaska, per esempio, sono quasi raddoppiati. (La crescita della vegetazione assorbirà più carbonio, ma un’indagine condotta nel 2016 ha concluso che il verde artico non sarà nemmeno lontanamente sufficiente a controbilanciare lo scongelamento del permafrost). La vegetazione sta attirando gli animali a nord.

«Appena ho pensato ai castori ne ho approfittato », spiega Tape. «Pochissime specie lasciano un marchio tanto evidente da essere visibile dallo spazio».

Nelle immagini riprese dal 1999 al 2014, che coprono appena tre bacini idrici, il ricercatore ha individuato 56 nuove colonie di castori che negli anni Ottanta non esistevano. Gli animali stanno colonizzando in massa l’Alaska settentrionale, avanzando di circa otto chilometri l’anno. Tape è convinto che oggi ci siano 800 colonie nell’Alaska artica, compresa la tana gigante sull’Alatna. Tape l’ha soprannominata “Tana Mahal”.

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Per migliaia di anni, gli abitanti dei villaggi inupiaq lungo il North Slope dell’Alaska hanno cacciato la balena artica. Una sola balena può sfamare una comunità per buona parte dell’anno, a patto che la carne e il grasso vengano conservati nel modo corretto, cosa che tradizionalmente si fa in ghiacciaie scavate nel permafrost. Con la fusione del permafrost, le ghiacciaie si allagano.

Lo spettacolo è notevole: un mucchio di rami e alberelli, alto circa 2,5 metri per oltre 10 di larghezza, intonacato con il fango e il muschio, in un lago con l’acqua alta fino alla cintola circondato da paludi. L’acqua è stata deviata dal fiume per mezzo di una serie di dighe. «Tutto l’acquitrino attorno alla Tana Mahal è nuovo», spiega Tape. «Se tornassi indietro di 50 anni, qui non troveresti neanche un castoro.»

Tape ha deciso di esplorare l’Alatna anche perché una guida aveva trovato del legno masticato dai castori lungo il fiume Nigu. Il Nigu nasce vicino al lago Gaedeke, la sorgente dell’Alatna, ma dall’altra parte dello spartiacque continentale, per cui scorre verso nord, immettendosi nel fiume Colville e finendo nel Mar Glaciale Artico. Lungo l’Alatna, sopra la Tana Mahal, abbiamo trovato altri stagni e dighe abbandonate. Tape adesso pensa che i castori si stiano dirigendo verso il North Slope, e che stiano usando l’Alatna per attraversare i monti Brooks. «Stiamo vedendo questa espansione in tempo reale», dice.

Ma il ricercatore non può dimostrare che sia il cambiamento climatico a provocarla; la popolazione di castori è in aumento dalla fine del commercio delle loro pelli, un secolo e mezzo fa. Comunque sia, questi costruttori dagli incisivi sporgenti potrebbero trasformare in modo significativo i paesaggi del permafrost. «Immagina di essere un imprenditore edile e di chiedere il permesso per costruire tre dighe sulla metà dei corsi d’acqua della tundra artica», dice Tape. «Questa potrebbe essere la portata del fenomeno».

Tape ne ha avuto un’anteprima. A sudest di Shishmaref, sulla Penisola di Seward, in Alaska, le foto di un afffluente del iume Serpentine non mostrano alcun cambiamento tra il 1950 e il 1985. Entro il 2002, i castori erano arrivati e avevano allagato il paesaggio. Entro il 2012, una parte del terreno aveva ceduto, trasformandosi in zona umida. Il permafrost stava scomparendo.

Qualche centinaio di castori non cambierà l’Artide. Ma gli animali potrebbero dirigersi a nord anche in Canada e in Siberia, e si riproducono in fretta. L’esperienza argentina è istruttiva: nel 1946, 20 castori furono deliberatamente introdotti nel sud per promuovere il commercio di pellicce. Oggi la popolazione si aggira attorno ai 100 mila individui.


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Un orso polare esamina un’automobile vicino a Kaktovik, in Alaska. La fusione della banchisa sta spingendo sempre più orsi sulla terraferma in cerca di cibo, proprio come la fusione e l’allagamento delle ghiacciaie obbliga molti abitanti dell’Alaska a immagazzinare pesce e carne all’aperto.


Nella visione di Zimov del passato e del futuro del permafrost artico anche gli animali selvatici svolgono un ruolo centrale, ma si tratta di bestie più grandi dei castori, e il loro effetto sul permafrost è più beneico. Le mandrie di bisonti, mammut, cavalli e renne che abitavano le steppe del Pleistocene, sostiene da tempo Sergey Zimov, non si limitavano a mangiare l’erba. La mantenevano. La concimavano e la compattavano, calpestando muschi e arbusti e strappando alberi.

Dall’ultima glaciazione queste praterie secche lussureggianti sono state sostituite nella Siberia Orientale dalla tundra umida, dominata dai muschi al nord e dalle foreste a sud. Un agente fondamentale di questo cambiamento, secondo Zimov, sono stati i cacciatori umani che decimarono le mandrie di grossi animali da pascolo, circa 10 mila anni fa. Senza gli erbivori a concimare il suolo, l’erba avvizzì; senza l’erba ad assorbire l’acqua, il suolo diventò più umido. Muschi e alberi presero il sopravvento. Ma se gli esseri umani non avessero spinto l’ecosistema oltre il punto di non ritorno migliaia di anni fa, ci sarebbero ancora i mammut a pascolare in Siberia.

Quasi 25 anni fa, sulle pianure vicino a Cherskiy, Zimov ha creato un progetto dimostrativo di 144 chilometri quadrati chiamato Parco del Pleistocene. La sua idea era riportare nell’area grandi animali da pascolo per verificare se potevano ripristinare le praterie. Lui e Nikita hanno portato cavalli selvatici nel recinto e in seguito trasportato yak e pecore dal lago Baikal. La primavera scorsa, Nikita ha prelevato 12 bisonti dalla Danimarca, trasportandoli per 14.600 chilometri attraverso la Russia su camion e chiatte. Nel 2018 gli Zimov hanno unito le forze con il genetista George Church, della Harvard University, che è convinto di poter clonare il mammut. La speranza è che un giorno queste bestie oggi estinte scorrazzino per il Parco del Pleistocene, prosperando nell’Antropocene.

Il parco è il banco di prova definitivo per l’ipotesi di Zimov e, come lui spera, un’assicurazione contro il futuro cambiamento climatico. Le praterie, soprattutto quando sono coperte di neve, rilettono più luce solare dei boschi. Gli animali da pascolo calpestano la neve alta, consentendo al calore di fuoriuscire dal terreno. Entrambi i fattori contribuiscono a raffreddare il terreno. Se la fauna selvatica riuscisse a ripristinare le praterie, rallenterebbe lo scongelamento del permafrost e dunque il cambiamento climatico. Per fare davvero la differenza, però, bisognerebbe sguinzagliare il contenuto di migliaia di zoo su milioni di ettari di Artide.

Gli Zimov sostengono che i risultati del loro parco da 14.400 ettari siano promettenti. Anche con appena un centinaio di animali, le loro praterie si mantengono decisamente più fresche rispetto al terreno nelle aree circostanti.

L’abisso tra le ambizioni di Zimov e la realtà del parco è indiscutibilmente enorme. Un pomeriggio, io e Orlinsky percorriamo prati mollicci fino a un tratto di palude per vedere i cavalli. Nikita ci carica su un mini carro armato a otto ruote e ci porta attraverso i salici. Dopo una ripida ascesa incappiamo in alcuni larici striminziti. È per questo che ci servono erbivori giganti, spiega Nikita: «Al momento non abbiamo animali capaci di uccidere questi alberi». Ci racconta che passa un sacco di tempo a raccogliere fondi, di recente anche in California, solo per far sì che questo esperimento vada avanti.

Certo, il progetto non è immune alle critiche. Alcuni studiosi mettono in dubbio le stime degli Zimov sulla quantità di animali di grossa taglia che vagavano per la Siberia nel Pleistocene, o insistono sul fatto che la loro teoria sul mutamento ecologico, sia passato sia presente, sia in troppo semplicistica. Ma soprattutto le critiche sembrano prendere di mira l’audacia degli Zimov. Max Holmes dell’Istituto di Woods Hole, che li conosce bene, vede un guizzo di genialità nel loro lavoro. Gli Zimov sono «ai margini», dice Holmes, «ma spesso è proprio lì che nascono le grandi idee e i grandi cambiamenti».

Al di fuori del Parco del Pleistocene, il mondo moderno ha reagito al riscaldamento dell’Artide con indifferenza. Abbiamo passato decenni a ignorare le prove del cambiamento climatico e a sperare che le cose non precipitassero. Facciamo affidamento su progressi tecnologici che sembrano sempre dietro l’angolo. E lo facciamo a dispetto del fatto che i climatologi - in particolare gli esperti di permafrost - ribadiscano che tutti i segnali puntano verso il bisogno di un’azione urgente e drastica.

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Josiah Olemaun, giovane cacciatore di balene inupiaq di Utqiaġvik (Barrow), in Alaska, si concede una pausa dopo aver depositato carne di balena nella ghiacciaia familiare scavata nel permafrost.

Gli Zimov sono diversi: hanno passato la vita a combattere un paesaggio spietato che ricompensa la tenacia. Tentare di salvare il permafrost ripristinando la steppa artica, chiedono, è davvero tanto più folle che contare sulla possibilità che gli esseri umani rivedano in tutta fretta il sistema energetico mondiale? Forse abbiamo bisogno di un poco di follia.

«Combattere il cambiamento climatico richiede azioni molteplici su molteplici fronti», dice Nikita. Solo se li combiniamo insieme possiamo evitare che il futuro sia «una catastrofe totale».


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