Marcel Mauss

Da Sotto le querce.
Marcel Mauss (Épinal, 10 maggio 1872 – Parigi, 10 febbraio 1950) è stato un antropologo, sociologo e storico delle religioni francese, massimo esponente della scuola di Émile Durkheim. I suoi studi si concentrano soprattutto sulla magia, il sacrificio e sullo scambio del dono. Mauss ha influenzato profondamente il fondatore dell'antropologia strutturale Claude Lévi-Strauss. Il suo libro più famoso è il Saggio sul dono (1923).
Marcel Mauss (Épinal, 10 maggio 1872 – Parigi, 10 febbraio 1950) è stato un antropologo, sociologo e storico delle religioni francese, massimo esponente della scuola di Émile Durkheim. I suoi studi si concentrano soprattutto sulla magia, il sacrificio e sullo scambio del dono. Mauss ha influenzato profondamente il fondatore dell'antropologia strutturale Claude Lévi-Strauss. Il suo libro più famoso è il Saggio sul dono (1923).

Saggio sul dono

Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche.

1923

Mauss dono.png

incipitEcco alcune strofe dell’Havamal, uno dei vecchi poemi dell’Edda scandinava, che possono servire da epigrafe al presente lavoro, per l'immediatezza con cui immettono il lettore nell'atmosfera di idee e di fatti in cui si silupperà il nostro assunto.

Non ho mai trovato uomo tanto generoso
e tanto munifico nel nutrire i suoi ospiti
che «rivere non fosse ricevuto»,
né uomo tanto… [l'aggettivo manca]
del proprio bene
che ricevere in cambio gli fosse sgradito.

incipitEcco alcune strofe dell’Havamal, uno dei vecchi poemi dell’Edda scandinava, che possono servire da epigrafe al presente lavoro, per l'immediatezza con cui immettono il lettore nell'atmosfera di idee e di fatti in cui si silupperà il nostro assunto.

Non ho mai trovato uomo tanto generoso
e tanto munifico nel nutrire i suoi ospiti
che «rivere non fosse ricevuto»,
né uomo tanto… [l'aggettivo manca]
del proprio bene
che ricevere in cambio gli fosse sgradito.

I doni scambiati e l'obbligo di ricambiarli (Polinesia)

A proposito dello hau, dello spirito delle cose e, in particolare, di quello della foresta e della selvaggina che essa contiene, Tamati Ranaipiri, uno dei migliori informatori maori di Elsdom Best, ci offre del tutto casualmente e senza alcuna prevenzione, la chiave del problema.

Vi parlerò dello hau… Lo hau non è il vento che soffia. Niente affatto. Supponete di possedere un oggetto determinato (taonga) e di darmi questo oggetto; voi me lo date senza un prezzo già fissato. Non intendiamo contrattare al riguardo. Ora, io do questo oggetto a una terza persona che, dopo un certo tempo, decide di dare in cambio qualcosa come pagamento (utu); essa mi fa dono di qualcosa (taonga). Ora, questo taonga che mi dà è lo spirito (hau) del taonga che ho ricevuto da voi e che ho dato a lei. I taonga da me ricevuti in cambio dei taonga (pervenutimi da voi), è necessario che ve li renda. Non sarebbe giusto (tika) da parte mia conservare per me questi taonga, siano essi graditi (rawe) o sgraditi (kino). Io sono obbligato a darveli, perché sono un hau del taonga che voi mi avete dato. Se conservassi per me il secondo taonga, potrebbe venirmene male, sul serio, perfino la morte. Questo è lo hau, lo hau della proprietà personale, lo hau dei taonga, lo hau della foresta. Kati ena (basta su tale argomento).

Per comprendere interamente l'istituzione della prestazione totale e del potlàc [1], resta da ricercare la spiegazione di altri due momenti complementari; la prestazione totale, infatti, non implica soltanto l'obbligo di ricambiare i regali ricevuti, ma ne presuppone altri due, non meno importanti: l'obbligo di fare regali, da una parte, l'obbligo di riceverli, dall'altra. La teoria completa di queste tre obbligazioni, di questi tre temi dello stesso complesso fornirebbe una spiegazione fondamentale di tale forma di contratto tra clan polinesiano.

Sarà facile trovare un gran numero di fatti concernenti l'obbligo di ricevere. Un clan, una famiglia, una comitiva, un ospite non sono liberi di non chiedere ospitalità, di non ricevere regali, di non commerciare, di non stipulare alleanze tramite le donne e il sangue. I Dayak hanno perfino sviluppato tutto un sistema giuridico e morale sul dovere che si ha di dividere il pasto con chi vi assiste o lo ha visto preparare.

L'obbligo di donare non è meno importante; il suo studio offrirebbe la possibilità di comprendere come sia invalso tra gli uomini il sistema dello scambio. Possiamo indicare solo alcuni fatti. Rifiutarsi di donare, trascurare di invitare, così come rifiutare di accettare equivalgono ad una dichiarazione di guerra; è come rifiutare l'alleanza e la comunione. Si fanno dei doni perché si è forzati a farli, perché il donatario ha una specie di diritto di proprietà su tutto ciò che appartiene al donatore. Questa proprietà si esprime e si concepisce come un vincolo spirituale. Così, in Australia, il genero che deve tutti i prodotti della caccia al suocero e alla suocera, non può mangiare niente davanti a loro, per paura che il loro solo respiro avveleni ciò che mangia.

È insita in tutto ciò una serie di diritti e di doveri di consumare e di ricambiare, che corrispondono a diritti e doveri di regalare e di ricevere. Ma questa stretta mescolanza di diritti e di doveri simmetrici e opposti cessa di apparire contraddittoria, se si pensa che esiste, prima di tutto, una mescolanza di legami spirituali tra le cose, che appartengono in qualche misura all'anima, e gli individui e i gruppi, che si trattano entro certi limiti come oggetti.

Tali istituzioni esprimono solamente un fatto, un regime sociale, una mentalità definita: insomma, tutto, cibo, donne, bambini, beni, talismani, terreno, lavoro, servizi, uffici sacerdotali, e ranghi, è materia di trasmissione e di restituzione. Tutto va e viene, come se ci fosse uno scambio spirituale comprendente cose e uomini, tra i clan e gli individui, suddivisi per ranghi, sessi e generazioni.

Conclusioni di sociologia economica e di economia politica

Sottoponiamo ora alla prova decisiva l'altra nozione da noi contrapposta a quella di dono e di disinteresse: la nozione di interesse, di ricerca individuale dell'utile. Anche questa nozione opera diversamente rispetto al modo in cui agisce nel nostro spirito. Se un qualche motivo equivalente anima capi trobriandiani o americani, clan andamani, ecc., o animava, un tempo, generosi Indiani, nobili Germani o Celti nel fare doni o spese, non si tratta ora né si trattava prima di un motivo legato alla fredda ragione dal mercante, del banchiere e del capitalista. Presso queste civiltà, la molla dell'interesse funziona diversamente che da noi. Si tesaurizza, ma allo scopo di spendere, di «obbligare», di disporre di «uomini ligi». Si effettuano scambi, ma di oggetti di lusso, di ornamenti, di vestiario, o di cose che vengono immediatamente consumate, di banchetti. Si ricambia ad usura, ma per umiliare colui che ha donato o scambiato per primo, non soltanto per ricompensarlo della perdita che gli procura un «consumo differito». Esiste un interesse, ma questo interesse è solo analogo a quello che, a quanto si dice, ci guida.

Tra l'economia relativa amorfa e disinteressata, all'interno dei sottogruppi, che regola la vita dei clan australiani o americani del Nord (Est e Prateria), da un lato; e l'economia individuale basata sul puro interesse, che le nostre società hanno conosciuto, almeno parzialmente, subito dopo la sua scoperta da parte delle popolazioni semitiche e greche, dall'altro; tra questi due tipi di economia si è scaglionata, io dico, tutta una immensa serie di istituzioni e di avvenimenti economici, non certo guidata dal razionalismo economico, di cui si costruisce così volentieri la teoria.

Lo stesso termine interesse è recente, di origine tecnico-contabile: «interest», latino, che si usava scrivere nei libri di conti, di fronte alle rendite da percepire. Nelle morali antiche più epicuree, non l'utilità materiale, ma il bene e il piacere vengono ricercati. È stata necessaria la vittoria del razionalismo e del mercantilismo perché fossero poste in vigore ed elevate all'altezza di principî, le nozioni di profitto e di individuo. È quasi impossibile datare – dopo Mandeville (Favola delle api) – il trionfo della nozione di interesse individuale. Solo con la difficoltà, però, e per mezzo di perifrasi, è possibile tradurre queste ultime parole in latino o in greco, ovvero in arabo. Anche gli uomini che scrissero in sanscrito classico, che usarono il termine artha, abbastanza vicino alla nostra idea di interesse, si fecero dell'interesse, come delle altre categorie dell'azione, un'idea diversa dalla nostra. I libri sacri dell'India classica ripartiscono già la attività umane secondo: la legge (dharma), l'interesse (artha) il desiderio (kama). Ma è dell'interesse politico che si tratta innanzitutto: quello del re e dei brahmani, dei ministri, quello del regno e di ciascuna casta. La letteratura considerevole dei Nitiçastra non è di natura economica.

Sono state le nostre società occidentali a fare, assai di recente, dell'uomo, un «animale economico». Ma ancora non siamo diventati tutti esseri di questo genere. Sia presso la massa della nostra popolazione che presso le élites, la pura spesa irrazionale fa parte della popolazione corrente; ed è ancora caratteristica di alcune sopravvivenze della nostra nobiltà. L’homo oeconomicus non si trova dietro di noi, ma davanti a noi; come l'uomo della morale e del dovere, come l'uomo della scienza e della ragione. L'uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice.

D'altronde, noi siamo per fortuna ancora lontani da questo costante e freddo calcolo utilitario. Si analizzino, per esempio, in modo approfondito, statistico, come ha fatto Halbwachs per le classi lavoratrici, i consumi e le spese degli occidentali appartenenti alle classi medie. Quanti sono i bisogni che ci preoccupiamo di soddisfare? e quante tendenze, che non hanno per fine ultimo l'utile, non assecondiamo? Quanto destina il ricco, quanto può destinare della propria rendita alla utilità personale? Il denaro profuso in lusso, in arte, in follie, in servitori, non lo fa somigliare ai nobili di un tempo o ai capi barbari di cui abbiamo descritto i costumi?

È un bene che sia così? Questo è un altro problema. Forse è un bene che ci siano altri mezzi per spendere e fare degli scambi oltre alla pura spesa. Secondo noi, però, non è nel calcolo dei bisogni individuali che si troverà il metodo economico migliore. Noi dobbiamo, io credo, anche quando desideriamo accrescere la nostra ricchezza, non identificarci con dei finanzieri, ma diventare contabili e amministratori più esperti. Il perseguimento brutale degli scopi dell'individuo nuoce ai fini e alla pace dell'insieme, al ritmo del suo lavoro e delle sue gioie e – di rimbalzo – all'individuo stesso.

Come abbiamo visto poc'anzi, già alcuni importanti settori, alcune associazioni delle nostre stesse imprese capitalistiche cercano, raggruppandosi, di legare a sé i propri dipendenti, anch'essi riuniti in gruppi. D'altra parte, tutti i raggruppamenti sindacali, quelli dei datori di lavoro come quelli dei salariati, pretendono di difendere e di rappresentare con lo stesso fervore l'interesse generale e l'interesse individuale dei propri aderenti o delle loro corporazioni. Questi bei discorsi sono infiorati, in verità, di molte metafore. Bisogna riconoscere, però, che non solo la morale e la filosofia, ma perfino l'opinione pubblica e la stessa economia cominciano a innalzarsi a un livello «sociale». Si avverte, ormai, che è possibile far lavorare gli uomini, solo se essi sono certi di essere pagati lealmente tutta la vita per il lavoro che hanno lealmente eseguito per gli altri e per se stessi nello stesso tempo. Il produttore sente di nuovo – ha sempre sentito –, ma questa volta in modo più acuto, di dare in cambio qualche cosa che è più di un prodotto o di un tempo di lavoro; egli sente di dare qualcosa di se stesso, il proprio tempo, la propria vita, e vuole essere ricompensato, sia pure moderatamente, per questo dono. Rifiutargli tale ricompensa equivale a incitarlo alla pigrizia e al rendimento minimo.

Potremmo, forse, indicare una conclusione sociologica e pratica a un tempo. La famosa sûra LXIV, «disinganno reciproco» (Giudizio finale), rivelata alla Mecca da Maometto, dice di Dio:

  1. Le vostre ricchezze e i vostri figli sono una tentazione, mentre Dio tiene in riserva una ricompensa magnifica.
  2. Temete Dio con tutte le le vostre forze; ascoltate, ubbidite, fate elemosine (sadaqa) nel vostro interesse. Colui che si guarderà dalla propria avarizia sarà felice.
  3. Se farete a Dio un prestito generoso, egli ci ripagherà doppiamente e vi perdonerà perché e riconoscente e pieno di longanimità.
  4. Egli conosce le cose visibili e invisibili, egli è il potente, il saggio.

Sostituite al nome di Allah quello di società e quello del gruppo professionale oppure sommate i tre nomi, se siete religiosi; sostituite al concetto di elemosina quello di cooperazione, di un lavoro, di una prestazione eseguita per gli altri: avrete così una idea abbastanza precisa dell'arte economica che sta per nascere laboriosamente. La vediamo già operare in certi raggruppamenti economici e in mezzo alle masse che hanno assai spesso, in misura maggiore che i loro dirigenti, il senso che i propri interessi, dell'interesse comune.

Studiando questi lati oscuri della vita sociale, si giungerà, forse, a illuminare un poco la strada che deve essere imboccata dalle nazioni d'occidente, dalla loro morale e dalla loro economia.

Note

  1. potlàc: Nei sistemi economici e giuridici che hanno preceduto i nostri, non si constatano mai, per così dire, semplici scambi di beni, di ricchezze e di prodotti nel corso di un affare concluso tra individui. Innanzitutto, non si tratta di individui, ma di collettività che si obbligano reciprocamente, effettuano scambi e contrattano; le persone presenti al contratto sono persone morali: clan, tribù, famiglie che si fronteggiano e si contrappongono, sia per gruppi, che stanno l'uno di fronte all'altro nel luogo stesso dello scambio, sia per mezzo dei loro capi, come pure nell'uno e nell'altro modo insieme. Inoltre, ciò che essi si scambiano non consiste esclusivamente un beni e in ricchezze, in mobili e in immobili, in cose utili economicamente. Si tratta, prima di tutto, di cortesie, di banchetti, di riti, di prestazioni militari, di donne, di bambini, di danze, di feste, di fiere, di cui la contrattazione è solo un momento e in cui la circolazione delle ricchezze è solo uno dei termini di un contratto molto più generale e molto più durevole. Queste prestazioni e contro-prestazioni si intrecciano sotto una forma, a preferenza volontaria, con doni e regali, benché esse siano, in fondo, rigorosamente obbligatorie, sotto pena di guerra privata o pubblica. Abbiamo proposto di chiamare tutto questo il sistema delle prestazioni totali. […] C'è prestazione totale nel senso che è tutto il clan che contratta per tutti, per tutto ciò che possiede e per tutto ciò che fa, tramite il suo capo. Ma tale prestazione assume, per parte del capo, un andamento agonistico molto spiccato. Essa è essenzialmente usuraia e suntuaria; si assiste, prima di ogni altra cosa, a una lotta dei nobili per assicurarsi una gerarchia da cui trae un ulteriore vantaggio il loro clan. Proponiamo di riservare il nome di potlàc a questo genere di istituzione che si potrebbe chiamare, con minore azzardo e con maggiore precisione, ma anche più estesamente: prestazioni totali di tipo agonistico.