Le piante alimurgiche

Da Sotto le querce.

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Piante Aromi Arrosti Condimenti Contorni Crudi Frittate Insalate Lessi Linfe Mesticanze Minestre Soffritti Stufati
Asparago bianco
Asparago comune
Asparago pungente
Bacchetta di re
Barba di becco
Barbatella
Bellavedova
Bietola
Bislunga
Borragine
Caccialepre
Cappero
Cardogna
Carlina
Cascellore
Cavolicello
Cicerchia porporina
Costolina
Crespigno comune
Crespigno spinoso
Dente di leone
Finocchio selvatico
Guado
Lampascione
Lattuga alata
Lattugaccio
Malva
Onopordo maggiore
Porcellana
Porraccio
Pratolina
Pungitopo
Radicchiella
Rapastrello
Romice scudato
Salsapariglia
Strigoli
Tamaro
Trinciatella
Vitalba

Introduzione

Le erbe spontanee commestibili del territorio Etneo

Il territorio etneo è ricco di piante erbacee spontanee molte delle quali, assieme ai funghi ed ai frutti di bosco, fino ad un passato non troppo lontano rappresentavano una fondamentale risorsa alimentare per le popolazioni locali (contadini, boscaioli, pastori, ecc.). Infatti, era prassi quasi quotidiana andare per le sciare, le timpe, i coltivi ed i boschi in cerca di verdure selvatiche.

Tale abitudine alimentare, principalmente, traeva origini da uno stato di necessità, data la cronica indigenza in cui versava la popolazione rurale e talora quella cittadina. Pure i cacciatori avevano l'abitudine di raccogliere piante selvatiche che trovavano nel loro girovagare.

Si cercavano verdure selvatiche anche per variare la dieta giornaliera, principalmente a base di pasta, carne e legumi, e per la mancanza delle diverse varietà di ortaggi carnosi, multicolori ed esotici che oggi si trovano, invece, in bella mostra nei negozi di frutta e verdura.

Da questa abitudine alimentare, attraverso i secoli, è giunto fino a noi un imponente patrimonio culturale, tramandato di generazione in generazione.

Esso consiste di vari elementi:

  1. i nomi dialettali con cui sono indicate le singole verdure;
  2. gli usi gastronomici mediante cui queste vengono (o venivano) consumate;
  3. le credenze che ruotano attorno a qualcuna di esse.

Nonostante la vastità e l'importanza di tale patrimonio culturale, la "civiltà delle macchine" esclude dalla sua logica questo aspetto relativo alle tradizioni locali.

A tal proposito, PIGNATTI (1971) afferma, a proposito delle piante utili della flora italiana, che "è prevedibile che nel giro di una generazione si sarà perduta perfino la memoria di quanto una volta l'uomo sapeva ricavare dal mondo vegetale; questo rappresenta una perdita netta, un ritorno all'ignoranza (.....), un passo indietro nelle nostre conoscenze, che non dovrebbe venire tollerato, tanto meno in questo secolo di lumi".

Trovandoci pienamente d'accordo con quanto afferma Pignatti e constatando con rammarico che, a distanza di qualche decennio, le sue previsioni si stanno avverando, desiderosi di salvare quanto ancora resta delle tradizioni etnee, abbiamo creduto opportuno intraprendere una ricerca etnobotanica sulle verdure selvatiche del territorio con i seguenti fini:

  1. censimento delle specie commestibili;
  2. recupero degli etimi dialettali che designano i singoli erbaggi;
  3. rilevamento delle caratteristiche gastronomiche;
  4. segnalazione di un eventuale peso economico;
  5. rinvenimento delle implicazioni sociali, folcloristiche e agronomiche connesse con l'uso delle verdure.

La ricerca in esame ha comportato numerosi rilevamenti sul campo, svariati colloqui con la gente del luogo e alcune verifiche presso lo "Schedario dell'Opera del Vocabolario Siciliano" dell'Università di Catania. Gli apporti più fruttuosi sono venuti dalle persone più anziane; mentre, pur rammaricandosene, la maggioranza dei giovani (salvo rare e lodevoli eccezioni) non possedeva alcuna nozione su questo aspetto delle tradizioni locali. Per quanto concerne il rilevamento degli usi gastronomici delle verdure non ci limitiamo in quest'opera a riportare solo quelli locali etnei, ma dove è stato possibile li abbiamo confrontati con analoghi usi presenti nelle tradizioni di altri contesti geografici italiani.

A tal proposito ci siamo serviti di svariate fonti che vengono riportate in bibliografia. Tutti i dati raccolti nelle inchieste, le osservazioni fatte in campagna e le notizie attinte dalla bibliografia sono stati elaborati e raccolti in schede, ciascuna contenente, oltre al nome scientifico della specie, i nomi volgari e dialettali, la famiglia d'appartenenza, i principali caratteri botanici, la distribuzione in Italia, la parte commestibile, gli usi alimentari locali e nazionali, l'eventuale commerciabilità e, infine, alcune notizie inerenti le credenze, le usanze e gli usi non alimentari dell'entità presa in esame.

Le erbe spontanee come risorsa alimentare

L'uso delle verdure spontanee quali fonte di sostentamento, soprattutto per le popolazioni rurali, non è limitato solo al territorio etneo, ma è diffuso anche nelle altre regioni del nostro Paese.

Sull'utilità delle erbe commestibili si hanno ampie tradizioni orali e diverse testimonianze scritte; la prima pubblicazione che affronta l'argomento sotto il profilo scientifico è quella del medico fiorentino Giovanni Targioni-Tozzetti e risale al 1767. L'opera tratta i rimedi mediante i quali le popolazioni, ricorrendo all'uso dei prodotti spontanei della terra e principalmente delle verdure, riuscivano a sfamarsi durante le carestie (era appena passata quella del 1764), le pestilenze, le guerre, le calamità naturali, eventi, questi, che impedivano lo svolgimento delle normali pratiche agricole. L'opera dal titolo De alimenti urgentia e sottotitolo Alimurgia, ossia modo di rendere meno gravi le carestie, proposto per il sollievo dei popoli, introduce la locuzione alimurgia dalla quale deriva il termine fitoalimurgia che, ancora oggi, designa lo studio delle piante a scopo gastronomico e che deriva da tre vocaboli greci, phytón = pianta, alimos = che toglie la fame ed ergon = lavoro, attività.

Dopo TARGIONI-TOZZETTI (1767), diversi ricercatori si sono occupati di fitoalimurgia; tralasciando quelli dell'Ottocento, nel nostro secolo e particolarmente in coincidenza con le due guerre mondiali e l'autarchia fascista, segnaliamo MATTIROLO (1918), RICCARDO (1921) e ARIETTI (1941). Inoltre, in relazione alla crisi socioeconomica collegata alla seconda guerra mondiale, il prof. A. Tukakov ha redatto una carta fitoalimurgica dell'Istria e dell'Illiria per aiutare le popolazioni locali a superare, con le piante spontanee, le notevoli difficoltà alimentari dovute principalmente alle ristrettezze economiche (LANZANI ABBÀ, 1960). E' interessante sottolineare che, durante l'ultimo conflitto, le truppe statunitensi sbarcate in Italia disponevano di un manuale di fitoalimurgia, approntato da una commissione di botanici americani, da utilizzare come prontuario di sopravvivenza. Nello stesso periodo di stretta sussistenza, anche le nostre popolazioni locali, a prescindere dall'apporto scientifico di questa disciplina, della quale sconoscevano anche il nome, andavano per le campagne a raccogliere le verdure più impensabili per rifornire la parca mensa. Furono recuperate le più antiche tradizioni fitoalimurgiche locali, ad esempio, l'uso alimentare del Mazzacani (Carlina hispanica Lam.) e della Cicerchia (Lathyrus articulatus L.), e ne furono sperimentate altre, importate dagli sfollati provenienti da altre regioni, come la commestibilità dei Guddizzuni (Arctium lappa L.).

L'impiego alimentare delle verdure spontanee è una pratica diffusa in tutta l'Italia (ALIOTTA, 1987), ma la scelta delle piante può variare nei diversi distretti regionali; mentre alcune specie sono ritenute mangerecce su tutto il territorio nazionale, ad esempio il Caccialepre (Reichardia picroides (L.) Roth), altre, invece, vengono raccolte e consumate solo all'interno di delimitate aree geografiche (GULINO, 1984).

Nel territorio etneo, se da un lato si consumano specie la cui valutazione di commestibilità è esclusiva, dall'altro vi sono piante che nessuno raccoglie, pur essendo ritenute eduli in altre regioni italiane (CORSI e PAGNI, 1979a; ALIOTTA, 1987; MANZI, 1987); fra le prime citiamo il Cavolicello (Brassica fruticulosa Cyr.), la Bellavedova (Hermodactylus tuberosus (L.) Salisb.), il Guado (Isatis tinctoria L.), la Bacchetta del re (Asphodeline lutea (L.) Rchb.), la Salsapariglia (Smilax aspera L.), la Barbatella (Tolpis quadriaristata Biv.) e la Carlina spagnola (Carlina hispanica Lam.). Fra le seconde, invece, menzioniamo le piante qui appresso indicate con i loro nomi dialettali etnei, volgari e scientifici:

Nome dialettale Nome volgare Nome scientifico
Ainisca Farinaccio Chenopodium album L.
Ardica Ortica Urtica dioica L.
Erba di ventu Parietaria Parietaria officinalis L.
Ruvettu Rovo Rubus ulmifolius Schott
Paparina Papavero Papaver rhoeas L.
Ciuri di majo Ingrassabuoi Chrysanthemum coronarium L.
Guddizzùni Bardana Arctium lappa L.

Nell'Italia centro-settentrionale, ad esempio, la Fedia cornucopiae (L.) Gaertner, detta Piede di gallina, è considerata la "regina delle insalate" (CORBETTA, 1991), mentre sull'Etna, dove pure forma copiose popolazioni, nessuno la utilizza come alimento, tant'è che non possiede alcun nome dialettale.

Nella società attuale, la fitoalimurgia riveste ruoli ben diversi rispetto a quelli del passato: non più necessità alimentare, ma puro interesse per i prodotti naturali. Durante gli ultimi anni, diversi studiosi, quali FRANKE (1985), SOUCI (1986) e FRITZ (1989), hanno evidenziato che le verdure spontanee contengono elevate concentrazioni di sali minerali, proteine, un alto tasso di vitamine A e C e notevoli percentuali di fibre, in quantità maggiori rispetto agli ortaggi coltivati. Per queste proprietà esse risultano utili a integrare e migliorare l'alimentazione, al giorno d'oggi particolarmente ricca di cibi a base di carne e di piatti elaborati che favoriscono l'insorgenza delle cosiddette malattie del benessere (arteriosclerosi, obesità, ecc.). L'introduzione nella dieta di prodotti naturali, quali le verdure, così ricchi di fibre e di principi nutritivi ridurrebbe la richiesta, nelle farmacie e nelle erboristerie, di correttivi alimentari, più o meno artefatti, primi fra tutti i cosiddetti ispessenti (prodotti a base di fibre vegetali come ad esempio la comune crusca).

Le conoscenze fitoalimurgiche rendono, inoltre, possibile l'individuazione e la conservazione dell'enorme potenziale genetico (germoplasma) delle specie spontanee. In un'epoca nella quale i processi di selezione artificiale sono orientati verso poche cultivar merceologicamente produttive ed imposte dalla strategia di mercato, la salvaguardia di tale patrimonio assume un ruolo di estrema importanza. A proposito dei rischi della monocoltura, diversi agronomi del nostro Paese, fra cui BIANCO e PIMPINI (1990) e BRANCA (1991), stanno svolgendo accurati studi fitoalimurgici al fine di individuare le verdure spontanee che manifestino potenzialità alimentari, in modo da poter trarre nuove forme orticole e produrre miglioramenti genetici (maggiore rusticità, maggiore resistenza alle malattie) nelle attuali varietà di ortaggi, mediante incroci con le specie spontanee botanicamente affini; risultati soddisfacenti, ad esempio, sono già stati ottenuti nel pomodoro (Lycopersicon esculentum Miller).

Limiti della trattazione

Il presente lavoro riguarda esclusivamente le piante spontanee commestibili presenti nel territorio etneo.

Per territorio etneo intendiamo tutta la superficie della Sicilia orientale ricoperta dai prodotti magmatici del vulcano. Si estende dalla costa ionica fino ai contrafforti delle Madonie (da Est ad Ovest) e dalla Piana di Catania fino alle propaggini dei Peloritani (da Sud a Nord). Numerosi sono i comuni in questo territorio, molti dei quali ricadono all'interno del Parco dell'Etna. Quelli nei quali abbiamo effettuato la nostra indagine, sono: Nicolosi, S. Giovanni la Punta, Pedara, S. Venerina, Zafferana, Milo, Linguaglossa, Castiglione di Sicilia, Randazzo, Bronte, Maletto, Adrano, Biancavilla, Ragalna e Belpasso.

Le piante commestibili del territorio etneo sono piuttosto caratteristiche rispetto a quelle dei terreni sedimentari circostanti; alcune specie si trovano quasi esclusivamente su suoli vulcanici (terri niuri), altre ancora formano qui popolazioni più abbondanti che altrove. Di contro, alcune specie copiose nei terreni sedimentari (terri forti) sono assenti o si presentano in esigue popolazioni su terreno vulcanico come ad esempio: Hirschfeldia incana (L.) Lagreze-Fossat. (Ameriddi), Brassica nigra (L.) Koch (Sinapi), Cynara cardunculus L. (Cacucciuliddi) e Urospermum dalechampii (L.) Schmidt (Ciconia di chiana).

Queste verdure sono abbastanza conosciute dagli abitanti dei paesi etnei, ma si rinvengono unicamente presso i venditori ambulanti o nei negozi di frutta e verdura. La nostra trattazione, pertanto, prende in esame solo le specie che crescono su terreno vulcanico.

Esiste, poi, un'altra categoria di piante che, pur spontanee e presenti nel territorio etneo, pur fornendo prodotti eduli, non sono prese in esame in quanto non rientrano fra le verdure. Sono le piante aromatiche e quelle che danno frutti eduli, come l'Origano, la Menta, la Nepetella, l'Alloro, il Rovo, il Lampone, il Castagno, il Corbezzolo (presente nel territorio, ma raro), ecc.

Infine, alcune specie, vengono utilizzate dalle popolazioni locali per reali o presunte proprietà officinali, proprietà che non vengono prese in considerazione in questo lavoro.

Nomi scientifici e dialettali

Da tempo immemorabile, l'uomo ha attribuito diversi nomi alle piante che lo circondano. Ciò ha comportato che le diverse specie hanno nomi che rientrano, fondamentalmente, in tre categorie diverse; precisamente la denominazione dialettale, quella volgare e quella scientifica.

La denominazione dialettale è tipica delle specie conosciute dall'uomo e usate per fini alimentari, merceologici (piante che forniscono fibre, legno, ecc.), simbolici (piante di buon augurio, ecc.) o ornamentali (nelle case, nei cortili, ecc.). Queste specie hanno la prerogativa di fare parte della cultura popolare locale che ha loro attribuito un nome tramandato verbalmente. Tale denominazione è legata, in genere, ad un'area linguistica ristretta, all'interno della quale viene compresa ed ha una significativa rilevanza nella comunicazione tra i diversi individui.

Come è stato evidenziato da diversi autori (PICCITTO e TROPEA, 1977-1990), il territorio etneo ricade almeno entro due aree dialettali: quella dei dialetti etnei sud-orientali e quella dei dialetti etnei nord-occidentali. Inoltre, durante le escursioni si è potuto constatare che all'interno di ciascuna di queste aree esistono microdistretti linguistici i quali usano, almeno per i nomi delle verdure, termini dialettali caratteristici, totalmente dissimili da quelli usati in distretti vicini, a volte distanti tra loro anche solo pochi chilometri.

Per portare un esempio la Lactuca viminea (L.) Presl (Lattuga alata) è chiamata Scursunara a Ragalna, Erba-scursuni a Nicolosi, Pischiacunigghiu a Zafferana, Peririnigghiu a Randazzo, Virinella a Maletto, Guttaru a Bronte, Cardedda di petra a Castiglione. E ancora, nella stessa località, alcune verdure vengono chiamate con più termini vernacolari. Ad esempio il Foeniculum vulgare Miller. ssp. piperitum (Ucria) Coutinho (Finocchio selvatico) è denominato sia Finucchieddu rizzu sia Finucchieddu di timpa; per contro, in località differenti, lo stesso nome dialettale può indicare verdure diverse, ad esempio il termine Sparacogna indica l'Asparago pungente (Asparagus acutifolius L.) in alcune località del territorio etneo, mentre designa il Pungitopo (Ruscus aculeatus L.) in altre ed in altre ancora definisce il Tamaro (Tamus communis L.).

Alcune caratteristiche del nome dialettale riguardano l'affinità del termine con il nome volgare italiano, la sua etimologia e il suo numero grammaticale. Per quanto concerne la relazione tra nome vernacolo e nome italiano, in alcuni casi esiste una affinità più o meno stretta fra le due espressioni, ad esempio i termini dialettali Caccialebbra, Pucciddana e Marba corrispondono ai nomi in italiani Caccialepre, Porcellana e Malva; in altri casi non vi è alcuna relazione fra i due modi di dire, ad esempio i nomi vernacoli delle verdure Raja, Catanziculi e Razza non hanno alcuna somiglianza con i rispettivi nomi volgari italiani Salsapariglia, Cascellore e Rapastrello. Sull'etimologia del nome dialettale a volte è possibile rintracciare un collegamento fra il nome e qualche particolare carattere della pianta, ad esempio Cardedda è diminutivo di cardo, Cudidda è diminutivo di coda (con riferimento alla morfologia dello scapo). In altri casi il nome dialettale non sembra avere riferimento ad alcuna peculiarità morfologica; è questo il caso di Zubbi, Catanziculi e Muni. Infine, riguardo al numero grammaticale, diverse piante hanno nomi sia singolari che plurali, altri invece sono esclusivamente plurali, come Cauliceddi, Coscivecchi, Razzi, Scoddi, Zubbi ecc.; probabilmente, ciò sta a significare che questi erbaggi sono usati per l'alimentazione sempre in numero molteplice di individui.

La denominazione volgare è il nome (o i nomi) attribuito ad una specie nella lingua nazionale. L'aggettivo volgare (dal latino vulgaris = comune) indica che il termine si riferisce al linguaggio comune, affiancandosi a quello scientifico e a quello dialettale. L'appellativo volgare è usato in tutto il territorio nazionale ed è rivolto ad un pubblico colto ma non specializzato. Esempi di denominazione volgare sono Betulla, Cappero, Crescione, Piantaggine, Pungitopo.

Come i nomi dialettali, anche il nome volgare spesso non si riferisce ad una singola specie, ma ne compendia più di una. Ciò accade soprattutto quando le specie sono poco distinguibili l'una dall'altra; ad esempio il termine Margherita di campo è usato per una quindicina di specie diverse; di contro, altre specie sono indicate con più di un nome, ad esempio la verdura Lampascione è detta anche Lampuglione, Muscaro, Cipollaccio, Cipollone, Giacinto del pennacchio, Cipolla canina, Porrettaccio e Zazzeruto.

Infine, la denominazione scientifica, basata sulla nomenclatura binomia in lingua latina introdotta da Linneo nel 1753, rappresenta l'unica terminologia che designa in modo inequivocabile una specie. Né il nome volgare, né quello dialettale offrono, infatti, alcuna garanzia sulla corretta corrispondenza fra un nome e una determinata specie. In questo lavoro, per la nomenclatura e la determinazione delle specie sono stati consultati diversi autori, quali FIORI (1923-29), TUTIN et al. (1964-84) e PIGNATTI (1982).

La raccolta

Erborinare (o erborare o erborizzare) è il termine comunemente utilizzato per indicare la raccolta di piante erbacee spontanee commestibili.

Le verdure presenti nel territorio etneo sono una quarantina e sono riconosciute dai raccoglitori più per tradizione orale che per il tramite di manuali floristici o fitoalimurgici. Nel dialetto locale tali verdure sono denominate vidduri boni per distinguerle da quelle non commestibili dette vidduri sarbaggi e da quelle coltivate dette vidduri mansi.

Le parti commestibili di una pianta sono diverse in rapporto alla specie: foglie, fusto, germogli, fiori, radici, tuberi e bulbi.

E' possibile utilizzare le parti aeree di piante giovani, appena germogliate oppure di quelle adulte che hanno emesso i nuovi germogli laterali e comunque prima della fioritura. Con l'avanzare della maturità, infatti, la verdura diventa più fibrosa, perde l'originario sapore gustoso e diviene poco gradevole; in altri termini, essa non è più buona da mangiare e in dialetto, allora, si dice che è spicata.

La porzione da raccogliere può essere in certe specie il cespo (a troffa o trofa), come nella Borragine, o la rosetta di foglie basali (a zotta), come nel Cascellore. In altre specie si raccoglie, invece, l'asse fiorifero, quando però è ancora tenero e con i fiori in boccio (spicuni, spicummi, giummu, giumbu, curina), come nel Lattugaccio e nella Costolina.

In altre specie ancora le parti commestibili sono i nuovi getti laterali, formati dall'intera fronda (foglie giovani e fusto tenero), i quali sono chiamati, in varie località etnee, con l'appellativo di taddi. Questo termine merita particolare attenzione poiché deriva dal greco tallos con il significato di germoglio. I taddi, oltre che dalle piante erbacee, ad esempio il Cavolicello e il Lattugaccio, si raccolgono anche da quelle lianose, come nella Salsapariglia e nella Vitalba. Infine, un cenno particolare meritano i turioni (sparaci) che si prelevano da talune specie, quali l'Asparago pungente o il Tamaro; essi consistono in giovani germogli, perlopiù allungati e subcilindrici, con l'apice a cono e gli abbozzi delle foglie appressate all'asse.

Pochi sono, invece, gli erbaggi ricercati per le loro porzioni sotterranee, citiamo la Bellavedova per i tuberi, il Lampascione e il Porraccio per i bulbi.

Dalle indagini condotte nel territorio etneo è, difatti, emerso che nella cultura fitoalimurgica locale l'interesse per la parte edule delle verdure è rivolto quasi esclusivamente alla porzione aerea delle verdure, mentre l'uso delle parti sotterranee sta ormai scomparendo; solo pochi degli interpellati ne erano a conoscenza e per di più solo in aree ristrette del territorio in esame. Al contrario, nelle tradizioni fitoalimurgiche di altre regioni le parti sotterranee (radici, tuberi e bulbi) hanno la stessa popolarità di quelle aeree; ad esempio, le radici della Barba di becco (Tragopogon porrifolius L.) sono note in tutto il territorio nazionale, i tuberi dello Zigolo (Cyperus esculentus L.) sono utilizzati nel trapanese e commerciati con il nome di cabbasisi, i bulbi del Lampascione sono ritenuti una prelibatezza e venduti nei negozi di frutta e verdura nel napoletano e in Puglia.

La raccolta delle verdure è sempre manuale, a volte con l'aiuto di un coltello o di una zappetta.

Le verdure spontanee si rinvengono sull'Etna dal piano mediterraneo-basale fin quasi al limite superiore del piano montano-mediterraneo; cioè dal livello del mare fino a 1500 m s.l.m. Alcune, come il Cappero, si trovano quasi esclusivamente in prossimità delle coste, mentre altre, come la Bacchetta del re, attecchiscono soltanto al disopra dei 700 m. Esse, in genere, crescono negli incolti, nei coltivi, ma anche presso i ruderi, le macerie e i bordi di strada.

Per quanto concerne gli incolti, alcune specie prediligono i luoghi aperti (pianori, sciare), come gli Strigoli e il Guado, altre, invece, sono piante di sottobosco, come il Pungitopo e il Tamaro. Tra i coltivi, i luoghi preferenziali sono i vigneti ed i pometi, come pure le colture irrigue (come per la Porcellana). Qui, le verdure si sviluppano abbondantemente sulla terra smossa dalle pratiche agricole; verdure tipiche dei coltivi dell'Etna sono, ad esempio, il Cavolicello e il Cascellore. Infine, negli orti sono frequenti il Crespigno e la Borrana, lungo i bordi dei sentieri e delle strade di campagna il Finocchio selvatico e il Lattugaccio, sui muri in pietra il Caccialepre e la Lattuga alata.

E' preferibile scartare le verdure che crescono lungo i bordi delle strade trafficate e nelle monocolture, nel primo caso per gli scarichi inquinanti degli autoveicoli e l'accumulo di polvere, nel secondo a causa del largo uso di fitofarmaci, prodotti chimici spesso velenosi i cui residui permangono nelle verdure. I fitofarmaci sono, per altro, responsabili della scomparsa dai coltivi di diverse specie di verdure spontanee.

E' consigliabile anche evitare la raccolta delle verdure che crescono vicino ai centri abitati, poiché potrebbero essere contaminate da patogeni fecali, pericolosi qualora la verdura venisse consumata cruda. In realtà, tale pericolo era più frequente in passato, quando le acque di scolo defluivano in canali a cielo aperto e le epidemie di tifo e di colera erano molto comuni; da ciò, forse, discende un antico proverbio, sentito nel brontese, Viddura cruda e fìmmini a nuda pottunu l'ommu a sepottura, ovvero l'uomo che abusa dell'eros o consuma verdura cruda va presto incontro alla morte. Infine, nel rispetto ambientale, non bisogna eccedere nella raccolta delle piante e nel caso di piante perenni non estirpare le radici ma limitarsi a prelevarne solo le parti eduli, poiché le stesse da lì a poco oppure l'anno successivo, rigetteranno.

Gli usi

Le verdure spontanee, una volta raccolte, vengono direttamente consumate oppure messe in commercio.

Il commercio delle verdure spontanee è praticato, in genere, come occupazione secondaria, perlopiù da contadini o boscaioli. Tuttavia, pur trattandosi di merce a costo zero, fatta eccezione del dispendio di tempo necessario a cercarla e raccoglierla, la sua vendita non offre mai notevoli introiti, specialmente a confronto del commercio dei funghi selvatici.

Di norma gli erbaioli vendono le verdure raccolte direttamente al pubblico, su banchetti improvvisati ai margini delle strade o nei mercati rionali oppure girando con il carrettino o con il motofurgone. In effetti, alcune verdure, ad esempio il Cavolicello, il Finocchio selvatico e l'Asparago pungente, sono piuttosto richieste dal consumatore; in questi casi l'erbaiolo rifornisce il fruttivendolo il quale vende, poi, la merce nei negozi di frutta e verdura a prezzi maggiorati., Tuttavia, nel complesso, il commercio delle verdure spontanee rimane poco proficuo a causa non solo del basso valore della merce, ma anche dal breve periodo di disponibilità del prodotto, legato al ciclo stagionale delle diverse specie.

Per poter essere consumate, le verdure devono essere innanzitutto pulite. Pulire l'erbaggio (annittari a viddura) è un'operazione, di norma, molto semplice, che consiste nella eliminazione delle parti secche e degli eventuali frammenti di erbe non commestibili accidentalmente frammisti alla verdura, quindi nel lavaggio accurato, fatto sempre con acqua fredda. In taluni casi, però, la pulitura della verdura è più complessa; ad esempio, i getti della Bacchetta di re devono essere prima "spellati", i turioni degli Asparagi e quelli del Tamaro devono essere separati dalla porzione apicale tenera e da quella basale tenace e, soprattutto, i "carducci" della Cardogna e dell' Onopordo devono essere sottoposti ad una complessa operazione di rimozione delle loro innumerevoli spine aguzze.

Dopo la pulitura, la verdura può essere consumata cruda o cotta a seconda del tipo. Le verdure crude si preparano generalmente in insalata, con eventuale aggiunta di origano e pomodoro. Classica è l'insalata ottenuta con la Porcellana.

Le verdure destinate alla cottura possono essere consumate singolarmente oppure mescolate ad altre e in tal caso si parla di mesticanze. Le mesticanze (vidduri maritate o mmischigghi) si approntano per bilanciare il sapore forte di certi erbaggi con quello debole di altri. La cottura si compie esclusivamente in acqua (verdure lessate).

Un classico esempio è dato dal Caccialepre mescolato con il Crespigno e il Finocchio selvatico.

Nella maggior parte dei casi, però, prevale l'uso di verdure di un solo tipo le quali si preparano lessate o saltate in padella e servite come piatto unico o come condimento di frittate. Un tipico piatto serale, consumato da numerose generazioni di gente dell'Etna, è stato la minestra di verdure con il suo abbondante infuso (u brodu) nel quale inzuppare il pane.

Per alcune verdure la cottura deve essere preceduta da opportuni accorgimenti; ad esempio, le cime di Vitalba vanno sbollentate in abbondante acqua per eliminare le sostanze tossiche in esse presenti, oppure le cime del Cappero devono subire un complesso trattamento in acqua e sale per allontanare la sostanza amara che contengono. In qualsiasi modo vengano consumate, crude o cotte, in mesticanza, come piatto unico o come contorno, le verdure dell'Etna hanno, comunque, un sapore che non ha eguali, perché risultato di una crescita spontanea secondo ritmi biologici naturali.

Schede

Asparago bianco

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Nome
ASPARAGO BIANCO
Altri nomi volgari
Taxon
Asparagus albus L.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva probabilmente dal greco 'sparassien' con il significato di strappare per la presenza di spine oppure da 'asparagos' (da spargaô': è rigonfio). Il secondo termine (albus= bianco) fa riferimento al colore bianco del fusto e dei rami.
Caratteri botanici
L'asparago bianco è una pianta a fusto cilindrico, flessuoso, biancastro. I rami principali anch'essi di colore bianco sono patenti. Le foglie sono trasformate in spine dure e pungenti. I cladodi sono molli disposti in fascetti di 6-12, caduchi. I fiori sono ermafroditi e raggruppati in ombrellette dense.
Habitat
Questa specie è presente, oltre che in Sicilia, anche in Sardegna, Corsica e Calabria dove è abbastanza frequente sui terreni sedimentari, mentre sull`Etna ha una diffusione localizzata nel settore sud-orientale e in particolare è abbondante sui terreni lavici di Ragalna, Biancavilla ed anche fra le sciare incolte del costruendo Parco Gioeni di Catania.
Parti commestibili
Di questo erbaggio si consumano gli `asparagi`; cioè i turioni (micci). I turioni dell`Asparago pungente spuntano nel sottobosco a fine inverno e in primavera.
Uso alimentare
Lessi Stufati Frittate
I turioni dell`Asparago bianco si consumano come i turioni dell`Asparago coltivato e dell'Asparago pungente; Al palato manifestano un sapore amaro che è considerato un pregio. E` anche apprezzata la loro azione diuretica. Come quelli dell'Asparago pungente si preparano in vari modi: stufati (affogati), cioè cotti in padella con poca acqua; lessati e poi conditi con olio e limone. Sono pure buoni come condimento per la pasta o per i risotti o come ingredienti delle frittate.
Commercio
ASPARAGO BIANCO
Diffusione
L`impiego alimentare dell`Asparago bianco è localizzzato solo nelle aree ove è presente.
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: Sparacogna (pianta)
Belpasso: Sparaciu jancu
Biancavilla: Sparaciu jancu
Bronte: Sparaciu jancu
Ragalna: Sparacogna (pianta), Sparaciu jancu

Asparago comune

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Nome
ASPARAGO COMUNE
Altri nomi volgari
Asparagio, Sparago.
Taxon
Asparagus officinalis L.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Caratteri botanici
L`Asparago comune è una specie decisamente diversa da Asparagus albus L. e A. acutifolius L. poiché ha i rami aerei annuali; essi seccano a fine estate non lasciando traccia visibile del rizoma sotterraneo. I rami, assai ramificati e, di norma, alti fino a 2 m, portano cladodi parecchio molli e densi. La specie è dioica (come Asparagus acutifolius). I fiori, unisessuali, sono isolati o appaiati, con un perigonio a campanella di 3+3 tepali saldati alla base e di colore biancastro. Negli individui maschili essi sono leggermente più grandi e numerosi di quelli femminili che, a maturità, producono bacche rosse delle dimensioni di un cece.
Habitat
Sull`Etna l`Asparago comune, detto Sparaciu `mpiriali, si riscontra quasi esclusivamente in coltivazione negli orti. Secondo alcuni abitanti di Nicolosi e di Randazzo si rinviene anche allo stato spontaneo, probabilmente inselvatichito.
Parti commestibili
L’Asparago comune produce turioni primaverili che sono molto robusti. In campagna, la ricerca di questi turioni è difficile poiché vicino ad essi manca la vistosa parte aerea dell`annata precedente, come si riscontra, invece, nell`Asparago pungente. Gli erborinatori riescono a rintracciarli poiché conoscono le località di crescita per esperienze acquisite negli anni precedenti.
Uso alimentare
Lessi Stufati Frittate
I turioni dell`Asparago comune si consumano come i turioni dell`Asparago coltivato; essi però hanno un aroma più marcato anche se inferiore a quello dell'Asparago pungente e dell'Asparago bianco.
Commercio
Diffusione
L`Asparago comune, in Italia, è abbastanza diffuso (manca, però in Sardegna) e in molte zone è inselvatichito. Dall’asparago comune, per selezione, l’uomo, sin da tempi antichissimi (se ne hanno testimonianze nei geroglifici egiziani), ha ottenuto l’Asparago coltivato. Di esso, attualmente, esistono numerose cultivar nelle quali si riscontra una maggiore produzione di turioni, un aumento delle loro dimensioni.
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: Sparaciu manzu
Belpasso: Specie non rinvenuta nel territorio
Biancavilla: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Bronte: Sparaciu manzu
Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Asparago pungente

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Nome
ASPARAGO PUNGENTE
Altri nomi volgari
Corruda, Asparagina e Sparagnella.
Taxon
Asparagus acutifolius L.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal vocabolo con cui i latini designavano la pianta (insieme ad altre specie affini senza tuttavia distinguerle), probabilmente derivante dal greco sparassien con il significato di strappare per la presenza di spine oppure da asparagos (da spargaô: è rigonfio). Il secondo termine (acutifolius = foglie aguzze) fa riferimento ai rami trasformati in foglie appuntite.
Caratteri botanici
Pianta con rizoma strisciante dal quale si formano numerosi fusti aerei, spesso lianosi, verdi e striati da giovani, legnosi a maturità, con rami trasformati in foglie ( cladodi ) aghiformi e rigide, spinose all’apice. I fusti e i cladodi persistono per più di un anno, formando intricati ed irti cespugli lianosi. L`Asparago pungente è una specie dioica, presenta cioè individui unisessuali, maschili e femminili. Entrambi in primavera, producono fiori piccoli, bianchicci e poco appariscenti; da quelli femminili, a maturità, si formano bacche nerastre, piccole quanto un grano di pepe.
Habitat
Questa pianta ha tipica distribuzione mediterranea, infatti è rara o assente nel nord Italia, mentre è abbondante nelle regioni meridionali e nelle isole. Nel territorio etneo si trova abbastanza di frequente nelle sciare, nelle macchie e nei boschi aridi, dal livello del mare fino a 1500 m di altitudine.
Parti commestibili
Di questo erbaggio si consumano gli 'asparagi'; cioè i turioni (micci). A tal proposito è bene precisare che il termine 'a sparago' è ambivalente; esso designa sia alcune specie di piante (fra cui quella qui esaminata), sia i turioni, cioè i germogli che emergono dal rizoma sotterraneo. Lo stesso nome indica anche quelli dell’Asparago coltivato dalla tipica forma affusolata con l’apice arrotondato. I turioni dell`Asparago pungente spuntano nel sottobosco a fine inverno e in primavera. Essi differiscono da quelli dell’Asparago coltivato sia perché sono più contorti e più sottili sia perché hanno le squame membranose con la base marcatamente speronata, mentre è ottusa nell`Asparago coltivato. I turioni dell’Asparago pungente sono, inoltre, poco appariscenti, ma la raccolta è facilitata dalla presenza dei voluminosi tralci persistenti che la stessa pianta ha prodotto nell’anno precedente. Il fitto intrico della macchia non crea, in genere, difficoltà nella raccolta.
Uso alimentare
Lessi Stufati Frittate Condimenti
I turioni dell`Asparago pungente si consumano come i turioni dell`Asparago coltivato; essi però hanno un aroma più marcato. Al palato manifestano un sapore amaro che è considerato un pregio. E` anche apprezzata la loro azione diuretica. Si preparano in vari modi: stufati (affogati), cioè cotti in padella con poca acqua; lessati e poi conditi con olio e limone. Sono pure buoni come condimento per la pasta o per i risotti o come ingredienti delle frittate. Queste ultime sono sicuramente quelle più apprezzate e vengono preparate, tradizionalmente, durante le feste pasquali, che di norma cadono quando si ha la massima produzione dei turioni. L`allestimento della `pasta con gli asparagi` (o del riso) richiede alcune accortezze. Occorre, innanzi tutto, separare le tenere cime dei turioni dai rispettivi 'gambi', che sono duri. Successivamente, in un’opportuna quantità di acqua e in recipiente separato, si sbollentano appena le cime e si cuociono più a lungo i gambi. Indi si soffriggono le cime e nell`acqua in cui sono state sbollentate le cime e cotti i gambi si fa cuocere la pasta. Infine si mescola quest`ultima con le cime, riscaldando un poco (CONSOLI, 1991a).
Commercio
ASPARAGO PUNGENTE
Diffusione
L`impiego alimentare dell`Asparago pungente è diffuso, compatibilmente con la sua presenza, in tutta Italia, e i suoi turioni, di norma, sono più ricercati di quelli delle altre specie selvatiche ed anche di quella coltivata. In Romagna si mangiano anche crudi nelle insalate miste. In Toscana e in Sardegna si conservano sott`olio (CORSI e PAGNI, 1979b; CAMARDA e VALSECCHI, 1990). In varie regioni centrosettentrionali, dove l`Asparago pungente è raro, le Amministrazioni locali hanno emanato leggi per regolarne la raccolta o, in alcuni casi, per designarla “specie protetta” (CHIEJ-GAMACCHIO, 1990). L`uso culinario dei turioni è praticato anche all`estero, specialmente nei Paesi mediterranei, dove, come s`è detto, l`Asparago pungente è abbondantemente presente.
Osservazioni
- L`addobbo sacro Nel nostro territorio, ed in varie parti della Sicilia, i tralci dell`Asparago pungente venivano usati, con il nome di Sparacogna, come addobbo di soggetti sacri. Essi, infatti, si presentano di un certo effetto estetico e si mantengono inalterati, per molto tempo, sia nella forma che nel colore. In particolare, essi venivano disposti ad arco, a mo` di cielo, sul caratteristico presepe familiare (rutta= grotta) inserendo nelle intricate ramificazioni batuffoli di cotone per simulare i fiocchi della neve. Un altro uso decorativo dei tralci dell`Asparago pungente era quello di incorniciare il quadro della Sacra Famiglia (a cona; cioè la icona) che un tempo era devotamente tenuta in ogni abitazione (PILOTTO e FRANCONERI, 1993). In alcuni periodi dell`anno liturgico - la novena di Natale e il giorno di S. Giuseppe - si usava porre sotto la cona abbondante frutta di stagione che, a culto ultimato, veniva festosamente consumata dai devoti. Da ciò il detto popolare: si manciau na cona, per indicare una persona che ha consumato un pasto piuttosto abbondante. L`uso dei tralci di Asparago pungente, come addobbo rustico e devozionale, era diffuso anche fuori della Sicilia, ricordiamo che in Emilia venivano utilizzati, nelle case di campagna, per adornare le immagini sacre e in Puglia per abbellire i presepi (RICCARDO, 1921). L`Asparago comune (Asparagus officinalis L.) detto anche Asparagio o Sparago, è una specie decisamente diversa dalle due precedenti poiché ha i rami aerei annuali; essi seccano a fine estate non lasciando traccia visibile del rizoma sotterraneo. I rami, assai ramificati e, di norma, alti fino a 2 m, portano cladodi parecchio molli e densi. La specie è dioica (come Asparagus acutifolius). I fiori, unisessuali, sono isolati o appaiati, con un perigonio a campanella di 3+3 tepali saldati alla base e di colore biancastro. Negli individui maschili essi sono leggermente più grandi e numerosi di quelli femminili che, a maturità, producono bacche rosse delle dimensioni di un cece. L’Asparago comune produce turioni primaverili che sono molto robusti (fig. 3c). In campagna, la ricerca di questi turioni è difficile poiché vicino ad essi manca la vistosa parte aerea dell`annata precedente, come si riscontra, invece, nell`Asparago pungente. Gli erborinatori riescono a rintracciarli poiché conoscono le località di crescita per esperienze acquisite negli anni precedenti. L`Asparago comune, in Italia, è abbastanza diffuso (manca, però in Sardegna) e in molte zone è inselvatichito. Dall’asparago comune, per selezione, l’uomo, sin da tempi antichissimi (se ne hanno testimonianze nei geroglifici egiziani), ha ottenuto l’Asparago coltivato. Di esso, attualmente, esistono numerose cultivar nelle quali si riscontra una maggiore produzione di turioni, un aumento delle loro dimensioni e un sapore più esaltato (anche se resta inferiore a quello dell’Asparago pungente e dell’Asparago bianco). Sull`Etna l`Asparago comune, detto Sparaciu `mpiriali, si riscontra quasi esclusivamente in coltivazione negli orti. Secondo alcuni abitanti di Nicolosi e di Randazzo si rinviene anche allo stato spontaneo, probabilmente inselvatichito.
Nomi dialettali
Adrano: Spini du Bamminu
Belpasso: Sparacogna (pianta), Sparaciu niuru (turione)
Biancavilla: Sparaciu niuru
Bronte: Sparacia (turione), Sparaciara (pianta)
Ragalna: Sparacogna (pianta), Sparaciu scuru, S. niuru (turione)

Bacchetta di re

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Nome
BACCHETTA DI RE
Altri nomi volgari
Astula regia, Asfodelo giallo, Lancia dei re.
Taxon
Asphodeline lutea (L.) Rchb.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è diminutivo di Asphodelus che è il nome generico di un gruppo di specie affini alla nostra. Asphodelus (Asfodelo), a sua volta, è la latinizzazione del nome dato nell`antica Grecia alla mitica pianta che tappezzava i prati dei Campi Elisi. Tuttavia, secondo una ipotesi più recente, la pianta della mitologia greca non sarebbe l`Asfodelo, bensì l’Asphodeline lutea, essendo quest`ultima più comune in quell’area geografica. Il secondo termine del binomio deriva dal latino con riferimento ai fiori di colore giallo.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne caratterizzata da una densa rosetta di foglie basali, lineari, carenate, glabre, acute all’apice, con bordo liscio e base allargata in una guaina membranosa ialina. In primavera, dal centro della rosetta si origina uno scapo eretto, cilindrico, alto fino a 80 cm, provvisto di foglie simili a quelle basali, ma progressivamente ridotte. Tra aprile e maggio alla sommità dello scapo si sviluppa un vistoso racemo, denso, cilindrico, con fiori gialli che ricorda uno scettro, donde gli appellativi di Bacchetta del re, Astula regia e Lancia dei re.
Habitat
Si riscontra, in genere, nei luoghi aridi, sui substrati lavici degradati e nei pascoli a quote comprese tra i 600 e i 1900 m.
Parti commestibili
Si raccoglie lo scapo fiorale immaturo, quando è ancora avvolto dalle guaine membranose delle foglie. In questo stadio, di durata assai breve, lo scapo è chiamato in dialetto 'zzubbu', 'curina', 'battagghioru' o 'giummu'.
Uso alimentare
Frittate Arrosti
Gli 'zzubbi' si sbollentano, previa asportazione delle foglie e della tenera pellicola esterna, e poi si cucinano in frittata con le uova oppure alla brace, bagnati nel 'salamurigghiu' (condimento a base di olio, limone, sale, pepe e origano). Il loro uso come verdure è poco diffuso, anche a causa della ristretta localizzazione montana della pianta; sembra, inoltre, che la Bacchetta di re sia una verdura difficile da digerire. In passato se ne faceva un discreto impiego nella zona di Maletto e per questo motivo gli abitanti di tale località venivano chiamati 'zzubbari'.
Commercio
BACCHETTA DI RE
Diffusione
Citazioni riguardanti l’uso alimentare della pianta (BIANCO e PIMPINI, 1990; BRANCA, 1991) sono scarse, sommarie e prive di indicazioni circa le località di utilizzo.
Osservazioni
E` interessante notare che in molte zone della Sicilia e in altre parti dell`Etna il nome 'Scornabeccu' è riservato al Terebinto (Pistacia terebinthus L.), portainnesto del Pistacchio (Pistacia vera L.) e alla pianta maschile di quest’ultimo; la pianta femminile, invece, è chiamata in dialetto 'Frastuca'. Nelle località dove il termine 'Scornabeccu' è destinato alla Bacchetta di re, il Terebinto è chiamato 'Frastucu' e il Pistacchio 'Frastuca'.
Nomi dialettali
Adrano: Zubbi
Belpasso: Specie non rinvenuta nel territorio
Biancavilla: Zubbi
Bronte: Zubbi
Ragalna: Scornabbeccu, Scannabbeccu

Barba di becco

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Nome
BARBA DI BECCO
Altri nomi volgari
Salsefica, Sassefica, Salsefì, Bugia.
Taxon
Tragopogon porrifolius L.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio significa `barba di caprone` e deriva dal greco tragos = caprone e pôgôn = barba, in allusione al pappo sericeo dei frutti. Il secondo termine deriva dal latino con riferimento alla presenza di foglie simili a quelle del Porro (Allium porrum L.).
Caratteri botanici
Pianta erbacea biennale, glauca, caratterizzata da una radice a fittone, ingrossata, legnosa, e da uno scapo eretto, alto 60-120 cm, provvisto di foglie lineari, con margine leggermente ondulato e guaina amplessicaule. Durante il secondo anno di vita, tra aprile e giugno, all’ apice del fusto si sviluppa, su un peduncolo piuttosto ingrossato, un capolino di ca. 6-7 cm di diametro, costituito da fiori bruno-violacei. I frutti sono acheni forniti di pappi sericei, chiamati in dialetto 'nanu', 'nannu' o 'naneddi'.
Habitat
Luoghi erbosi per lo più umidi.
Parti commestibili
Nella tradizione alimentare etnea, della Barba di becco si consumano i getti primaverili, formati dal fusto ancora avvolto dalle foglie appressate, che ricordano i turioni dell’Asparago.
Uso alimentare
Lessi Insalate
I giovani getti della Barba di becco si cucinano lessati e si condiscono come le altre verdure. In qualche località, come Castiglione, a detta di alcuni si mangiano anche crudi in insalata per il loro sapore dolciastro.
Commercio
BARBA DI BECCO
Diffusione
Mentre in tutta la Sicilia e in genere nell’Italia meridionale, la Barba di becco viene ricercata dagli erborinatori per i getti primaverili, nell’Italia settentrionale si utilizza l’affine Tragopogon porrifolius L. var. sativus Gater. principalmente per la radice che si presenta piuttosto robusta e carnosa. Essa ha un sapore simile a quello delle noci e, secondo alcuni, ricorda addirittura quello delle ostriche (INDRIO, 1981). Il periodo di raccolta è antecedente a quello della fioritura. Si cucina lessata, alla griglia oppure fritta in pastella; si mangia anche condita con burro o in raffinate ricette con crema e formaggio (DE ROUGEMONT, 1990). Questa radice può essere anche tagliata in dischetti di 1-2 cm di spessore per essere essiccata al sole e poi conservata sotto vetro, come si fa con i funghi secchi. In passato, le radici essiccate venivano anche macinate per ricavarne una farina con la quale si confezionavano prodotti da forno, sia salati che dolci, fra cui i bignè. La radice tritata si utilizza anche come surrogato del caffè. Le giovani foglie, infine, si consumano cotte in minestre al posto degli spinaci (POMINI, 1956).
Osservazioni
- La Scorzobianca Tragopogon porrifolius L. var. sativus è un ortaggio conosciuto fin dall`antica Grecia ed attualmente molto diffuso in Francia e in altri paesi dell`Europa occidentale. Il pregio di questa pianta, derivata dalla Barba di becco selvatica, è dato dalla dimensioni della radice che è molto ingrossata e ricorda quella della Carota; essa è ricca di zuccheri (inulina, inositolo e mannitolo) che le conferiscono un sapore decisamente dolce. Per il suo colore, biancastro all`esterno e bianco candido all’interno, è volgarmente chiamata Scorzobianca. - Un delicato ombrello. Gli acheni, sormontati da un pappo piumoso a forma di ombrello, a maturità si staccano dal ricettacolo e restano facilmente in aria sostenuti dal vento. Dalle nostre parti, i ragazzi si dilettano a disperdere gli acheni soffiando su di essi; se questi nell`atterrare si depositano sui loro vestiti e vi aderiscono significa che l`anima di un loro vecchio parente defunto è venuta a visitarli. Da questa credenza deriva il nome u nannu dato a questi canuti fiocchetti. Nel Palermitano, invece, i fanciulli ritengono che gli acheni sospinti dal vento vadano nelle case a rubare quattrini; arrobba dinari, infatti, è il nome dato, in quelle località, agli acheni con pappo. Nel Veneto i ragazzi, soffiando sui pappi, pretendono di indovinare le bugie dette da ciascuno in relazione al numero di volte che bisogna soffiare sui capolini per riuscire a staccare completamente gli acheni. - Su altri nomi volgari. Il termine Bugia è collegato al gioco infantile di soffiare sopra i pappi degli acheni, appena citato. Salsefrica, e similari, è una deformazione di Saxifraga derivato dal latino saxum = sasso e frangere = spaccare, ovvero spaccasassi, in riferimento alla proprietà di frantumare i calcoli renali.
Nomi dialettali
Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Belpasso: non rilevato
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: non rilevato

Barbatella

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Nome
BARBATELLA
Altri nomi volgari
Cicoria inversa, Radicchio virgato.
Taxon
Tolpis quadriaristata Biv.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco 'tolypé' = pallottolina in riferimento alla forma dell'infiorescenza che si presenta rigonfia (FOURNIER, 1961). Il secondo termine, invece, si riferisce alle quattro setole del pappo.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne con radice robusta, caratterizzata, in primavera, da una rosetta di foglie basali, ovali - lanceolate, più o meno incise o lobate, pubescenti e di colore verde pallido tendente al bianco. In estate produce un lungo fusto eretto, ramificato in basso, pubescente, alla cui sommità si sviluppano diversi capolini di fiori lunghi fino a 15 mm, di colore giallo-cedrino quelli esterni e nerastri quelli più interni (POLUNIN e HUXLEY, 1968). I frutti sono acheni provvisti di un pappo con 4 setole. Questa entità viene spesso confusa con altre simili fra cui T. virgata Bertol. e T. umbellata Bertoloni. FIORI (1923-29) la ritiene una varietà di T. virgata; PIGNATTI (1982), ravvisando la necessità di una più attenta analisi del gruppo, la considera una sottospecie; a nostro avviso, invece, è da considerare una buona specie, così come proposto dal Bivona.
Habitat
Questa specie è endemica della Sicilia, isole Eolie e Pantelleria, dove cresce negli incolti aridi; sull’Etna, in genere, si rinviene fra le rocce o sui muretti a secco dei coltivi.
Parti commestibili
La rosetta di foglie basali, che va raccolta in inverno, assai prima della fioritura, con l’aiuto di un coltello.
Uso alimentare
Lessi
I cespi di Barbatella si preparano lessati e conditi con olio; sono saporiti, carnosi e il loro gusto ricorda quello della Costolina. L'uso alimentare di questa pianta è stato riscontrato solo in due località del territorio etneo, Milo e Linguaglossa. Ciò appare alquanto strano, poiché la specie è presente su tutta l`area in esame e l`erbaggio è molto buono da mangiare.
Commercio
BARBATELLA
Diffusione
La Barbatella non è citata nei manuali di fitoalimurgia, sebbene sia abbondantemente diffusa nell`Italia meridionale.
Osservazioni
- Pianta ornamentale La Barbatella è considerata anche una pianta ornamentale, adatta a formare bordure nelle aiuole delle ville (TRAVERSO, 1926; BRICKELL, 1990). -Sul nome Barbatella Questo nome volgare è riferito ad altre specie affini, che gli inesperti confondono tra loro, per la presenza nel capolino di brattee involucrali d’aspetto simile a filamenti barbosi. Poiché tale carattere è pure presente in T. quadriaristata si è ritenuto opportuno confermare anche per questa entità il nome volgare Barbatella.
Nomi dialettali
Adrano: non rilevato
Belpasso: Scaluredda
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: non rilevato

Bellavedova

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Nome
BELLAVEDOVA
Altri nomi volgari
Bocca di lupo, Iride vellutata.
Taxon
Hermodactylus tuberosus (L.) Salisb.
Famiglia
Iridaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco Hermes = Mercurio e dactylos = dito, ovvero dito di Mercurio in riferimento ai tubercoli digitati del rizoma; esso nell’antica Grecia indicava la porzione sotterranea di una pianta medicinale non identificata. Il secondo termine è riferito al rizoma tuberizzato.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne con rizoma sottile provvisto di 2-4 tubercoli di aspetto digitato, dal quale, sul finire dell`inverno, si sviluppano alcune foglie lineari lunghe 3-6 dm. In primavera, fra le foglie emerge il fusto, alto non più di 30 cm, che produce un unico fiore, piuttosto caratteristico, avvolto parzialmente da una spata, e simile a quello del Giaggiolo, ma con tepali esterni di colore nero-purpureo e tepali interni verde-giallastro. Il frutto è una capsula obovata senza setti.
Habitat
La Bellavedova si rinviene nelle boscaglie e nelle garighe dell`Italia centro-meridionale (esclusa la Sardegna), dal livello del mare fino a ca. 1500 m di quota.
Parti commestibili
Si consuma, fondamentalmente, il rizoma tuberizzato, ricco di amido e chiamato patatella a Randazzo, buttuni a Linguaglossa e Castiglione, ovu a Milo e patacchedda a Ragalna. Per la sua estrazione dal terreno è indispensabile una zappetta. Si utilizza, inoltre, meno comunemente il peduncolo fiorale.
Uso alimentare
Lessi Arrosti
I rizomi della Bellavedova si consumano arrostiti alla brace oppure bolliti in acqua e sale dopo aver tolto la pellicina esterna. Nel territorio in esame l`uso alimentare dei rizomi della Bellavedova è limitato solo ad alcune aree ben localizzate, quali Linguaglossa, Castiglione e Randazzo. In molte altre località, la pianta, pur presente e nota, non trova alcun impiego alimentare. Il peduncolo fiorale non ha un vero e proprio impiego gastronomico, ma si assapora masticandolo crudo per il suo succo di sapore dolce; per questo motivo, nelle campagne di Linguaglossa, la pianta è chiamata Sucamele.
Commercio
BELLAVEDOVA
Diffusione
In tutte le pubblicazioni di fitoalimurgia consultate la Bellavedova non è citata come pianta alimentare, ad esclusione di un lavoro di BRANCA (1991) nel quale, però, si accenna all’utilizzo della porzione fiorale.
Osservazioni
- La Bellavedova e l`Istrice. I rizomi della Bellavedova, altamente ricchi di sostanze nutritive, costituiscono uno degli alimenti preferiti dall`Istrice (Histrix cristata L.). Questo robusto roditore li dissotterra scavando con le sue robuste unghie buche che lasciano inconfondibile traccia della presenza dell`animale nel territorio.
Nomi dialettali
Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: Cantaliaddi, Cantajaddu, Canta addu

Bietola

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Nome
BIETOLA
Altri nomi volgari
Barbabietola, Bieta.
Taxon
Beta vulgaris L. ssp maritima (L.) Arcang.
Famiglia
Chenopodiaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome con cui nell`antica civiltà latina si designava sia la pianta spontanea che l`ortaggio da essa selezionato, fin d`allora conosciuto. Il secondo termine allude all`ampia diffusione della specie, mentre l’attributo sottospecifico si riferisce alla distribuzione prevalentemente litoranea.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne con radice non ingrossata, provvista di un cespo fogliare quasi appressato al suolo, costituito da foglie spatolate, carnosette, lungamente picciolate e dotate di una lamina di colore verde intenso e lucente. I piccioli si presentano sovente colorati in rosso alla base per la presenza di betacianina. Dal cespo basale, al sopraggiungere dell`estate, si origina un fusto eretto, ramoso, che porta un’infiorescenza con glomeruli di 1-3(5) fiori piccoli e verdastri. Anche il fusto può presentare colorazione rossastra.
Habitat
Si rinviene più frequentemente lungo i litorali, più raramente all'interno su argille.
Parti commestibili
Le cime dei nuovi getti e le foglie tenere. Il prelievo di queste parti va fatto in primavera, periodo in cui la pianta non viene danneggiata perché è pronta a rimettere i germogli. Se invece, è fiorito, l`erbaggio non è più buono da mangiare.
Uso alimentare
Lessi Minestre
Le cime e le foglie si utilizzano in vari modi, lesse e poi saltate in padella oppure come ripieno nelle focacce (scacciate). Più comunemente si usano come importante ingrediente delle minestre di fave e di legumi in genere.
Commercio
BIETOLA
Diffusione
L`uso alimentare della Bietola selvatica è conosciuto in Italia e in Europa; tuttavia, attualmente se ne fa largo consumo solo in Italia meridionale e nelle isole.
Osservazioni
- Erbaggio etneo Questo erbaggio è comunissimo su terreno sedimentario (ad es. a Paternò, in particolare negli agrumeti, e nella zona di Randazzo), mentre è raro su terreno vulcanico (Adrano e Milo), dove, invece, si rinvengono frequentemente popolamenti di Bietola orticola sfuggiti alle colture ed inselvatichiti. - La bietola coltivata Oggi sono note diverse varietà di bietola coltivata derivate da Beta vulgaris. Esse sono: la “Bietola da erbucce” della quale sono eduli le foglie basali, sottili e morbide; la “Bietola da coste” che produce foglie basali dotate di robuste costolature carnose; la “Barbabietola rossa” di cui si consumano le radici e il colletto che sono ingrossati e di colore rosso; la “Bietola da foraggio” che ha anch’essa una grossa radice, ma di colore bianco, impiegata come alimento per il bestiame ed infine la “Barbabietola da zucchero” adibita all`estrazione industriale del saccarosio (PESCE, 1982; LANGER & HILL, 1988; BALDONI e GIARDINI, 1981; DE VINCENZO, 1987). La domesticazione di queste varietà della Bietola è antichissima. Già nella antica Grecia erano note la Bietola da erbucce, la Bietola da coste e la Bietola rossa (BIANCHINI et al., 1973). Tale pratica agricola fu migliorata presso i Romani; si hanno notizie che Marziale e Apicio discutevano sui diversi modi di cucinare la Bieta coltivata. Nel Medioevo si ottenne la varietà da foraggio. Infine, in Germania, nel secolo XVIII, dopo la scoperta (1747) del saccarosio nelle radici di Beta vulgaris - Erbaggio etneo Questo erbaggio è comunissimo su terreno sedimentario (ad es. a Paternò, in particolare negli agrumeti, e nella zona di Randazzo), mentre è raro su terreno vulcanico (Adrano e Milo), dove, invece, si rinvengono frequentemente popolamenti di Bietola orticola sfuggiti alle colture ed inselvatichiti. - La bietola coltivata Oggi sono note diverse varietà di bietola coltivata derivate da Beta vulgaris. Esse sono: la “Bietola da erbucce” della quale sono eduli le foglie basali, sottili e morbide; la “Bietola da coste” che produce foglie basali dotate di robuste costolature carnose; la “Barbabietola rossa” di cui si consumano le radici e il colletto che sono ingrossati e di colore rosso; la “Bietola da foraggio” che ha anch’essa una grossa radice, ma di colore bianco, impiegata come alimento per il bestiame ed infine la “Barbabietola da zucchero” adibita all`estrazione industriale del saccarosio (PESCE, 1982; LANGER & HILL, 1988; BALDONI e GIARDINI, 1981; DE VINCENZO, 1987). La domesticazione di queste varietà della Bietola è antichissima. Già nella antica Grecia erano note la Bietola da erbucce, la Bietola da coste e la Bietola rossa (BIANCHINI et al., 1973). Tale pratica agricola fu migliorata presso i Romani; si hanno notizie che Marziale e Apicio discutevano sui diversi modi di cucinare la Bieta coltivata. Nel Medioevo si ottenne la varietà da foraggio. Infine, in Germania, nel secolo XVIII, dopo la scoperta (1747) del saccarosio nelle radici di Beta vulgaris da parte del chimico Maigraff, fu selezionata la Bietola da zucchero. Successivamente, questa venne migliorata in Francia quando, in seguito ad un blocco navale britannico, venne meno l’approvvigionamento asiatico dello zucchero di canna (BALDONI e GIARDINI, 1981). - Sul nome secala Il nome secala, e l`affine seghila, dato alla pianta in alcune località del territorio etneo, può indurre confusione con quello volgare e latino di un’altra pianta, la Segale (Secale cereale L.), un cereale dal quale si ricava una farina scura usata per il pane nero (pani di irmanu). In effetti, il nome dialettale secala ha altre origini, sembra derivi dallo spagnolo antico aselgas (oggi acelga) con il quale si indicava proprio la Bietola (TRAINA, 1868).
Nomi dialettali
Adrano: Gira
Belpasso: Secala
Biancavilla: Geri
Bronte: Giri
Ragalna: Giri

Bislunga

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Nome
BISLINGUA
Altri nomi volgari
Linguette
Taxon
Ruscus hypophyllum L.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è al nome con cui i Romani chiamavano l'Asparago. Il secondo si riferisce ai cladodi che portano i frutti nella pagina inferiore.
Caratteri botanici
Pianta sempreverde provvista di rizoma strisciante, grosso, e di fusti gracili e per lo più semplici. I cladodi sono inermi e molto più grandi di quelli di Ruscus aculeatus L. I fiori, con tepali verdastri, sono dioici e raggruppati in ombrellette di 3-6; essi si formano sulla pagina inferiore dei cladodi, a differenza di quelli del Pungitopo.
Habitat
Luoghi selvatici ma anche coltivati.
Parti commestibili
I nuovi getti (turioni) che si raccolgono in primavera. essi si presentano reclinati all'apice e di colore verde chiaro.
Uso alimentare
Lessi Frittate
I turioni della Bislingua si consumano come quelli degli asparagi selvatici e coltivati ma il loro sapore è più delicato. Si cucinano lessati e si mangiano conditi con sale, pepe, olio e succo di limone oppure si utilizzano come ingredienti di frittate.
Commercio
Diffusione
Osservazioni
- Sparaciu di bordura La Bislingua è una pianta sempreverde che viene coltivata nei giardini per scopo ornamentale a formare basse spalliere e bordure.
Nomi dialettali
Adrano: Sparaciu `mpriacu, Sparaciu `mpiriali
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Borragine

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Nome
BORRAGINE
Altri nomi volgari
Borragine è il più diffuso, ma anche Borraggine, Boragine, Borana, Erba pelosa.
Taxon
Borago officinalis L.
Famiglia
Boraginaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal latino medievale borrago, nome di origine orientale, che si collega all’arabo abu ‘arak con il significato di “sudorifero” per le proprietà diaforetiche della pianta. Secondo un’altra interpretazione (COSTELLAZZO e ZOLLI, 1979-88) Borago deriva dal nome latino medievale burra = borra, utilizzato per indicare un stoffa di lana a lunghi peli, piuttosto rustica, in riferimento alla setolosità della pianta. La seconda parte del binomio deriva dal latino officina = farmacia e indica le proprietà medicinali della pianta.
Caratteri botanici
Pianta erbacea annua marcatamente ispida in tutte le sue parti per la presenza di peli rigidi e pungenti. Il fusto, ricco di mucillagini, è cavo, grosso ma tenero, ramificato nella parte superiore, alto fino a 50 cm. Le foglie, dal tipico aspetto bolloso e reticolato, sono alterne, prive di stipole, quelle basali più grandi, con lamina ovata, quelle cauline lanceolate, sessili e progressivamente più piccole. I fiori, di colore blu intenso (raramente bianchi o porporini), sono regolari, ermafroditi, disposti in cime terminali scorpioidi. La fioritura avviene in tempi diversi a seconda delle località, in Sicilia da gennaio ad aprile.
Habitat
Cresce abbastanza bene su terreno sia vulcanico che sedimentario. E’ presente negli incolti e nei coltivi, ma più frequentemente negli orti e vicino ai luoghi abitati. E’ una specie di origine orientale, diffusa in Europa e nel Mediterraneo, ma in molte zone solo naturalizzata.
Parti commestibili
Sono commestibili sia la pianta intera (a macchia) raccolta all`inizio della primavera, quando è ancora giovane, sia le cime (i spicuni) o le foglie tenere, quando la pianta è matura. L`aspetto ispido della pianta non deve scoraggiare poiché i peli perdono la loro rigidità con la cottura.
Uso alimentare
Lessi Minestre
Nel nostro territorio la Borragine è usata sia come piatto di verdura, lessata in poca acqua e condita con olio, sia come ingrediente di minestre o zuppe, fra cui principalmente quella di lenticchie. Un`altra caratteristica zuppa in cui si fa uso di questa pianta è quella detta a paparotta: l’erbaggio viene lessato in abbondante acqua nella quale si aggiunge semolino, mescolando continuamente. All`impiego culinario della Borragine si attribuisce, oltre all`evidente potere nutritivo, anche una certa valenza curativa in quanto la pianta possiede una buona quantità di mucillagini ad azione antinfiammatoria e rinfrescante (SCHÖNFELDEN e SCHÖNFELDEN, 1982; NEGRI, 1960; GIANI ,1987).
Commercio
BORRAGINE
Diffusione
Già gli antichi Romani consigliavano l`uso della Borragine in diverse pietanze per il particolare gusto che ricorda quello del cetriolo. Attualmente l`uso gastronomico della Borragine è maggiormente diffuso nell`Italia peninsulare rispetto al nostro territorio. Le giovani foglie si consumano crude in insalata, dopo averle tritate e mescolate con altri erbaggi o con pomodori. La rigidità dei peli svanisce per effetto dell`aceto. Le stesse foglie, come pure le cime, vengono consumate lessate e poi condite con olio e limone oppure saltate al burro, strascicate con olio e limone o anche passate al setaccio sottoforma di purè verde. In minestra, per le loro proprietà emollienti, sono buoni succedanei degli spinaci (POMINI, 1959). In Toscana, le foglie lessate e mescolate a quelle della cicoria e ai semi del finocchio costituiscono un caratteristico piatto regionale, la zuppa frantoiana. Nel Senese esse vengono passate nella pastella e poi fritte (CORSI e PAGNI, 1979b). In Lombardia, anche il tenero fusto della Borragine, dopo essere stato avvolto con filetti di acciughe, viene mantecato nella pastella e fritto e consumato come contorno per arrosti. Ma è soprattutto nella cucina ligure che la gustosa Borragine trova largo impiego, specialmente come ripieno dei pansotti, dei quadrucci e della celebre torta pasqualina. In questa regione l`erbaggio viene pure usato per preparare l`impasto delle tipiche lasagne verdi. Nel Trattato dei cibi et del bere edito in Bologna nel 1589, il medico Baldassare Pisanelli consigliava di “mangiarsi il dragoncello in compagnia dei fiori della borragine, con l`indivia o con la lattuga, o con altre herbe”. Dell`erbaggio in esame si utilizzano, infatti, per fini culinari anche i fiori. Essi possono essere adoperati per decorare diverse pietanze, ad esempio disposti su insalate oppure messi a galleggiare nelle zuppiere o nelle caraffe di punch. Inoltre, se canditi, si possono usare per decorare torte e altre confezioni di pasticceria (BONAR, 1990; SIMONETTI, 1990); certi aceti aromatici assumono un bel colore turchino per aggiunta dei fiori di questa pianta (BETTO, 1982). Della Borragine si utilizzano pure i boccioli, conservati sotto aceto e consumati allo stesso modo dei capperi. Infine, dalle foglie pestate in un mortaio si ottiene un succo altamente dissetante e rinfrescante (INDRIO, 1981; MABEY, 1992).
Osservazioni
- Coltivazione della Borragine Nella regione etnea e in generale in tutto il meridione la Borragine è considerata un`erba infestante, mentre in altre regioni, come in Liguria, è vantaggiosamente coltivata perché ha una buona richiesta di mercato (KUSTER, 1989). - Pianta mellifera La Borragine è utilizzata anche a scopi non alimentari, ma connessi indirettamente alla alimentazione; essa, infatti, è tenuta in grande considerazione soprattutto dagli apicoltori, poiché è una pianta particolarmente mellifera (BREMNESS 1988). - I fiori magnifici Lo splendore dei fiori della Borragine è sottolineato dal proverbio siciliano: esseri tutto pitittu e ciuri di bburrania, in riferimento a cosa o persona che si fa desiderare per la sua bellezza.
Nomi dialettali
Adrano: Vurrania
Belpasso: Urrania
Biancavilla: Urrania
Bronte: Bburraina
Ragalna: Urrania

Caccialepre

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Nome
CACCIALEPRE
Altri nomi volgari
Caccialebbra, Grattalingua, Latticina, Latticino, Latticrepolo, Lattughino, Paparrastello, Terracrepolo.
Taxon
Reichardia picroides (L.) Roth.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio è dedicato al medico e naturalista tedesco J. J. Reichard, mentre il secondo deriva dal greco picros = giallo, con riferimento al colore dei fiori.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne fornita di una radice ingrossata dalla quale, al sopraggiungere dell`inverno, vengono emessi getti formanti una rosetta basale di foglie tenere e carnosette, di colore verde-glauco, con margini spesso purpurei. Dalla rosetta emerge uno scapo, alto fino a 40 cm, che porta capolini cilindrici, piriformi prima della fioritura, costituiti da fiori gialli, gli esterni in genere bruni o venati inferiormente da strie purpuree. La fioritura avviene tutto l`anno, così come le foglie persistono in ogni stagione assumendo, però, un colore più scuro al sopraggiungere dell`estate. I frutti sono acheni di due tipi: gli esterni scuri, solcato-bernoccoluti, gli interni chiari e quasi lisci.
Habitat
Il Caccialepre è diffuso in quasi tutta Italia, dove è comune sui terreni sassosi, incolti aridi, muri e rupi marittime. Non si rinviene oltre i 1000 m di altitudine.
Parti commestibili
Si raccoglie la rosetta basale quando è giovane e verde, prima che la pianta emetta lo scapo fiorale. La rosetta va troncata a livello del terreno con un coltello in modo da non ledere la radice. Il taglio provoca la fuoriuscita di una modesta quantità di latice bianco e dolciastro; questo per contatto annerisce la pelle, ma è innocuo e può essere facilmente rimosso con olio.
Uso alimentare
Insalate Lessi
Le foglie del Caccialepre si consumano crude in insalata oppure lessate e perlopiù mescolate ad altri erbaggi, quali il Crespigno, la Lattuga alata, la Piattolina, ecc. Il Caccialepre è, infatti, particolarmente adatto per preparare le classiche mesticanze (i vidduri maritati o mischigghi). L`erborinatore inesperto può confondere il Caccialepre con altre erbe mangerecce, come il Lattugaccio (Chondrilla juncea L.) o la Lattuga alata (Lactuca viminea (L) Presl), data la somiglianza negli stadi giovanili.
Commercio
CACCIALEPRE
Diffusione
Il Caccialepre è un erbaggio che rientra anche nelle tradizioni fitoalimurgiche di altre regioni d’Italia. In alcune aree ne è stata tentata la coltivazione.
Osservazioni
- Sui nomi volgari. Il termine Caccialepre ha etimo incerto, sembra tuttavia (DURO, 1986-93); che esso sia composto da un primo elemento alterato: caccia(re) e la lepre; cioè erba utile come esca per cacciare la lepre. Il sinonimo Caccialebbra non ha nulla a che vedere con la malattia infettiva; è un meridionalismo; infatti in questo contesto linguistico lebbra è il plurale (neutro) di lebbru = lepre.
Nomi dialettali
Adrano: Caccialebbru, Caccialebbra
Belpasso: Caccialepri
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Gallepura, Giallepura
Ragalna: Scaccialebbra, Scacciacalebbra

Cappero

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Nome
CAPPERO
Altri nomi volgari
Taxon
Capparis spinosa L.
Famiglia
Capparidaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco Kápparis, nome col quale si designava la pianta. Il secondo termine si riferisce alle stipole delle foglie trasformate in spine.
Caratteri botanici
Elegante arbusto caratterizzato da tralci lunghi fino a 2 metri, prostrati o ricadenti con foglie rotonde o ovato-rotondate, glabre, mutiche o brevemente mucronate, di colore verde lucido. Da maggio ad agosto si sviluppano, all’ascella delle foglie superiori, vistosi fiori bianco-rosati forniti di numerosi stami riuniti in un ciuffo di filamenti violetti all’apice. Il frutto è una bacca verde di forma ovoidale ('cetriolini', 'zucchette' o 'cappausse').
Habitat
L’habitat della pianta è rupestre o ruderale; essa si riscontra nelle fessure delle rocce, anche verticali, oppure tra le crepe dei vecchi muri di ville, castelli e monumenti antichi. Predilige, in genere, le stazioni costiere, aride e ben esposte. Sull`Etna non supera 600 m di altitudine.
Parti commestibili
Della pianta si utilizzano, per fini alimentari, i boccioli fiorali immaturi (detti bottoni o semplicemente capperi), i frutti, simili a piccoli cetrioli, e le giovani cime dei tralci che si presentano arrossate per l’abbondante presenza di carotenoidi.
Uso alimentare
Aromi Lessi Insalate
I capperi, e talora anche i “cetriolini”, vengono utilizzati per aromatizzare e condire un`infinità di pietanze. Meno noto è invece l`uso della pianta come verdura. Un ottimo piatto di verdura si ottiene dai boccioli maturi e dalle cime tenere dei tralci consumati freschi insieme o separati. Queste parti della pianta, prima di essere consumate, necessitano di una adeguata preparazione per la presenza nei loro tessuti di una sostanza amarissima ed irritante (rutina) solubile in acqua. Occorre quindi che la verdura venga sbollentata, strizzata e poi, per un paio di giorni, immersa nell’acqua fredda (meglio se salata), acqua che bisogna sostituire due o tre volte al dì (in dialetto questa procedura è detta cura). Eliminata la sostanza amara, la verdura può essere cucinata e condita con olio, limone e origano.
Commercio
CAPPERO
Diffusione
Il Cappero viene utilizzato come verdura solo in Sicilia. Scarsi sono i dati di letteratura a riguardo; BIANCO e PIMPINI (1990) ne citano l’uso solo per le cime.
Osservazioni
- I due Capperi Nell`Italia meridionale (compresa la Sicilia), oltre a Capparis spinosa L. si rinviene anche C. ovata Desf., pianta con foglie tomentose, ellittiche, provviste alla base di spine evidenti e persistenti. E’ anch`essa commestibile, sia conservata che fresca, sebbene i suoi bottoni fiorali siano considerati di minor pregio. La gente del luogo, in dialetto non fa alcuna distinzione fra le due specie di Cappero. - Il detto `Sparàrisi a chiappara` In dialetto catanese esiste questa locuzione per indicare una persona che fa sfoggio di eleganza. L`espressione è riferita ai fiori del Cappero, appariscenti ed eleganti. - Uso come condimento L’uso del cappero come condimento era già noto nell`antico Egitto, dove veniva usato sia in cucina che nella medicina popolare. In Grecia l`aroma dei capperi era esaltato da poeti, anche se Dioscoride credeva fossero frutti (KUSTER, 1989; CAMARDA e VALSECCHI, 1990). Nella Roma imperiale i capperi erano sempre presenti sulle mense; di essi esistevano tre categorie di qualità decrescenti: garum, allec e muria. Nel Medioevo, per la grande richiesta, i boccioli del Cappero venivano sostituiti con quelli della Calta (Caltha palustis L.), della Coclearia (Cochlearia officinalis L.) e del Favagello (Ranunculus ficaria L.). Nel 1500 in Spagna la pianta, divenuta di interesse agronomico, cominciò ad essere ampiamente coltivata. I capperi, sia selvatici che coltivati, si commerciano e si usano come prodotto conservato. A tale scopo si raccolgono, in giornate asciutte, i bottoni fiorali (nonché i “cetriolini”), si selezionano in base al calibro e poi si conciano sotto sale o sott’aceto. I capperi migliori sono piccoli, sodi, di colore verde-oliva e punteggiati di scuro. I frutti (detti in dialetto citruletti o truleddi di chiappara) vengono confezionati e commercializzati allo stesso modo dei bottoni fiorali, ma vengono utilizzati soprattutto per la preparazione della pasta di capperi. In Italia, le aree a maggior coltivazione di capperi sono le isole di Pantelleria e di Salina. Come condimento, i capperi vengono impiegati in numerose pietanze, quali caponata, coniglio alla cacciatora, stoccafisso alla messinese, ecc. (BETTO, 1982) Si utilizzano anche per preparare due salse tipiche siciliane, il pesto pantesco e la ventresca di tonno.
Nomi dialettali
Adrano: Chiapparu
Belpasso: Specie non rinvenuta nel territorio
Biancavilla: Chiapparu
Bronte: Chiapparu
Ragalna: Specie non rinvenuta nel territorio

Cardogna

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Nome
CARDOGNA
Altri nomi volgari
Cardoncello selvatico, Cardo scòlimo, Cardo colino, Guardabue, Scardiccione, Scolino, Cardaburdue, Barba gentile, Carciofo piccolo.
Taxon
Scolymus grandiflorus Desf.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco scolymos, nome col quale si indicava un cardo commestibile; il secondo è riferito alle notevoli dimensioni dei fiori.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne dal tipico aspetto di cardo. E’ una pianta robusta, molto spinosa e fornita di una vigorosa radice.All`inizio della primavera, compare un cespo di foglie, provviste di penetranti aculei, tenere da giovani, coriacee a maturità. Dal cespo si erge, in estate, un fusto alto più di 1 m che porta capolini di grandi dimensioni con fiori di colore giallo-citrino.
Habitat
La Cardogna cresce negli incolti aridi e ai bordi delle strade campestri, dal livello del mare fino a 1500 m di altitudine.
Parti commestibili
Pur essendo una pianta poco invitante, per la presenza delle acuminate spine, la Cardogna fornisce un`eccellente verdura assai apprezzata dai palati più fini. La raccolta di quest`erbaggio si effettua in primavera, quando i cespi basali sono emersi da poco tempo e le foglie sono ancora tenere. La pianta si sradica con una zappetta, si capovolge e, sorreggendola per la radice, si priva delle foglie più esterne e della metà di quelle mediane. Si ottengono così dei cespi che, essendo ancora molto spinosi, vanno posti in un contenitore dove si lasciano per qualche ora (o per l’intera notte) allo scopo di rendere le spine meno pungenti, per essere poi opportunamente mondati a casa. Ad Adrano si usa raccogliere anche i fusti teneri (i trunzi); essi, dopo spellatura, si lessano allo stesso modo dei gambi del carciofo.
Uso alimentare
Lessi Frittate
I cespi della Cardogna, prima di essere cucinati, devono essere ulteriormente trattati. Ciascun cespo si impugna dalla radice e le sue foglie pungenti vanno private della lamina ad eccezione della costa mediana. Le grosse nervature, a loro volta, si spellano con l`indice e il pollice, partendo dalla base fogliare. Successivamente, si recide la radice a livello del colletto, quindi si asportano le piccole e spinosissime foglie centrali. Per favorire la cottura, infine, si effettua una incisione a forma di croce sul torso. I cespi mondati si consumano come i carducci dei Carciofi coltivati, rispetto ai quali hanno un sapore simile ma più intenso. Essi vengono bolliti e conditi con olio e limone oppure fritti in pastella.
Commercio
CARDOGNA
Diffusione
Diversi manuali di fitoalimurgia riguardanti il territorio italiano citano questa specie, insieme a Scolymus hispanicus e S. maculatus, come pianta edule (TRAVERSO, 1926; LONARDONI e LAZZARINI, 1993-94; BIANCO e PIMPINI, 1990). In particolare, i riscontri maggiori si riferiscono a Scolymus hispanicus, essendo questa specie distribuita in tutto il territorio.
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: Scoddi
Belpasso: Scoddi
Biancavilla: Scoddi
Bronte: Scolli
Ragalna: Scoddi

Carlina

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Nome
CARLINA
Altri nomi volgari
Carlina, Carlina spagnola.
Taxon
Carlina hispanica Lam.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio, proposto nel secolo XIV dal botanico aretino Andrea Cesalpino, ha origine controversa; secondo alcuni autori si riferirebbe a Carlo Magno, al quale, secondo una leggenda, un angelo avrebbe rivelato le virtù prodigiose di questa pianta per guarire il suo esercito dalla peste; secondo altri il termine sarebbe corruttela di cardina, che è il diminutivo di Cardo, pianta quest`ultima molto simile alla Carlina. Il secondo termine indica la regione di provenienza del materiale sul quale J. B. Lamarck descrisse la specie.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne con aspetto di cardo, fornita di un rizoma ingrossato e lignificato. Le foglie sono ovato-lanceolate, dentate e spinose. Il fusto, sparsamente ramificato, è eretto, alto non più di 70 cm e coperto da una peluria ragnatelosa. All`apice dei rami, da luglio ad ottobre, si sviluppano gruppi di capolini. Ciascun capolino, formato da numerosi piccoli fiori tubulari, ha le squame involucrali esterne fogliacee e quelle mediane spinescenti all’apice. Quando sono secche esse hanno un colore giallo-dorato, molto lucente e sono particolarmente pungenti.
Habitat
Si riscontra frequentemente nei luoghi aridi.
Parti commestibili
Di questa pianta si consumano i fusti che vanno raccolti in primavera, quando sono ancora teneri. Questi, mediante un attrezzo tagliente (roncola, falce, forbice), si recidono alla base e in prossimità della porzione apicale, escludendo i rami laterali e i giovani capolini.
Uso alimentare
Lessi
Una volta raccolti, i fusti, detti in dialetto 'trunzi', si mondano dalle foglie, si tagliano in segmenti lunghi 5-8 cm e, con l’aiuto del coltello, si spellano asportando la cuticola piuttosto dura. Si ottengono così dei torsi che vanno sbollentati e conditi con olio ed aceto. Il loro sapore è particolare, ricorda, infatti, quello dei peduncoli dei carciofi e delle nocciole.
Commercio
CARLINA
Diffusione
Nessun manuale di fitoalimurgia riporta questa specie come pianta alimentare, sebbene sia diffusa in tutta l`Italia centro-meridionale e nelle isole.
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: non rilevato
Ragalna: non rilevato

Cascellore

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Nome
CASCELLORE
Altri nomi volgari
Cascellora, Landra, Barlanda, Cascella.
Taxon
Bunias erucago L.
Famiglia
Cruciferae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco bounias, nome con il quale si indicava una sorta di rapa provvista di lunghi peli. Tuttavia, è anche probabile che il termine derivi da buonòs = collina, per indicare l’ambiente tipico della pianta. Il secondo termine sta ad indicare la somiglianza morfologica con la Rucola (Eruca sativa Miller).
Caratteri botanici
Pianta erbacea annuale alta fino a 80 cm e provvista di una leggera peluria. E’ caratterizzata da una rosetta di foglie basali (che compare all’inizio dell’inverno) pennatosette, con lembo profondamente inciso in lobi triangolari a margine irregolarmente dentato. All’inizio della primavera, dal centro della rosetta si sviluppa un fusto eretto, ramoso in alto, con foglie oblungo-spatolate aventi il margine disordinatamente dentato. I fiori sono piccoli, tetrameri, con petali di colore giallo. I frutti sono piccole siliquette, lunghe ca. 1 cm, con un becco centrale a 4 ali laterali irregolarmente dentate. Durante la maturazione dei frutti le foglie basali iniziano a disseccarsi e successivamente scompaiono.
Habitat
La specie, che cresce dal livello del mare fino ai 2200 m di altitudine, è comune in tutto il territorio etneo, sia negli incolti sia nelle colture, in particolare nei vigneti, ma non forma mai densi popolamenti.
Parti commestibili
Le parti commestibili della pianta sono le foglie basali che si raccolgono durante l’inverno appena compaiono, poichè successivamente, quando si forma lo scapo fiorale, non sono più appetibili. Le rosette si identificano facilmente per la tipica forma delle foglie.
Uso alimentare
Lessi
Le foglie si fanno lessare e poi si condiscono con olio. Il loro sapore ricorda quello del Cavolo e del Cavolicello, ma di quest’ultimo non ha il tipico gusto amaro.
Commercio
CASCELLORE
Diffusione
Il Cascellore è un erbaggio conosciuto in tutta Italia (CORSI e PAGNI, 1979a). In diverse regioni, come in Lombardia, Toscana e Puglia, si mangia anche crudo in insalata (POLUNIN e HUXLEY, 1968). In genere, però, si utilizza bollito, saltato in padella o aggiunto alle minestre (POMINI, 1956). Una minestra assai nota, preparata con riso e fagioli, è detta, in Lombardia, ris e barland. (BIANCHINI et al., 1973; CORBETTA, 1991). Nell’Italia settentrionale si rinviene una specie affine, il Cascellore orientale (Bunias orientalis L.) anch’essa usata come verdura. In varie parti della Penisola sia il Cascellore comune che il Cascellore orientale sono oggetto di coltivazione specializzata e sono presenti, in quantità rilevante, nei mercati cittadini (ARIETTI, 1974).
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: Cicoina sarbaggia
Belpasso: Triuliddi
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Cicoina
Ragalna: Catanzículi

Cavolicello

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Nome
CAVOLICELLO
Altri nomi volgari
Cavolo rapiciolla.
Taxon
Brassica fruticulosa Cyr.
Famiglia
Cruciferae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome con cui i Latini indicavano il Cavolo (Brassica oleracea L.); esso deriva dal celtico bresic (o brassic) con lo stesso significato; il secondo deriva da frutex, -icis in riferimento all’aspetto arbustivo della pianta.
Caratteri botanici
Pianta annuale, raramente bienne, con fusto legnoso alla base, più o meno suffruticoso che conferisce un caratteristico aspetto arbustivo. Le foglie basali, lievemente cerose e di colore verde-glauco, sono lunghe 5-12 cm, disposte in rosetta, lirate, con lobo apicale intero o profondamente inciso e 2-4 coppie di segmenti laterali più piccoli; quelle caulinari sono ridotte o quasi assenti. La pianta, che non supera i 60 cm di altezza, produce, tutto l`anno, fiori con sepali violacei e petali giallo-limone.
Habitat
E’ una specie diffusa nelle aree che si affacciano sul Mediterraneo centro-occidentale. In Italia è presente nelle regioni centro-meridionali dove non è uniformemente distribuita. Tale ineguale ripartizione geografica è dovuta principalmente alla preferenza della pianta per i suoli silicei. In Sicilia si riscontra quasi esclusivamente sui suoli cristallini dei Peloritani, sulle vulcaniti di alcune isole minori (Linosa, Ustica, Eolie) e sull`Etna dove è largamente diffusa, dal livello del mare fino a 1200 m. La pianta cresce un po’ ovunque, prediligendo, tuttavia, in modo particolare i vigneti; si trova con una certa abbondanza anche nei pometi; l’uso eccessivo di diserbanti in queste colture sta, però, determinandone la progressiva scomparsa.
Parti commestibili
Si raccolgono, tipicamente, i giovani getti delle piante adulte; qualche volta anche le foglie tenere oppure l`intera pianta appena germinata. L`erborinatore inesperto può confondere il Cavolicello con un altro erbaggio simile nella forma, il Rapastrello (Raphanus raphanistrum L.) che ha le foglie più ruvide.
Uso alimentare
Lessi Condimenti
Il Cavolicello è la verdura “regina” del territorio etneo. Conosciuta ed apprezzata dalla popolazione locale (rurale e cittadina) viene attivamente raccolta dall`autunno alla primavera. Addirittura si allestiscono per essa anche sagre paesane (ARCIDIACONO, 1992b). Le parti commestibili devono essere cotte in abbondante acqua (meglio se di cisterna), quindi strizzate fra due piatti per eliminare l’acqua di cottura e condite con abbondante olio di oliva. L’uso più appropriato, tuttavia, è come contorno alla salsiccia cotta alla brace. Questa verdura ha un gusto deciso, inconfondibile e gradito al palato; esso è dovuto ad un eteroside sulfonato che è una sostanza aromatica.
Commercio
CAVOLICELLO
Diffusione
In Italia, l’uso alimentare del Cavolicello non è riportato da nessun manuale di fitoalimurgia, né da testi che si occupano delle verdure spontanee. Ciò è dovuto, principalmente, alla sua circoscritta distribuzione geografica, come prima accennato. Tuttavia nelle aree dove è presente viene utilizzato dalle popolazioni locali. In Sicilia, oltre che sull’Etna, si consuma in altri territori dove è noto con peculiari denominazioni locali, a Ustica è chiamato Rapudda, a Linosa Rapuzzra, nelle Eolie Rapuddu e nei Peloritani Cavuliceddu.
Osservazioni
- Sulla denominazione volgare Poiché la distribuzione della specie è quasi esclusiva dell’Italia meridionale, frammentaria e localizzata in particolari distretti, sono noti diversi nomi dialettali che, tra l’altro, cambiano da un luogo all`altro. Oltre a quelli siciliani, già citati, ricordiamo quello napoletano, Friarello e quello in uso a Ischia, Rapiciolla. Manca pertanto quello volgare italiano. Assegnare, quindi, il nome volgare a questa specie ha comportato una certa difficoltà. D’altronde i nomi che tutti i vocabolari siciliani riportano alla voce Cauliceddu e Cavuliceddu, quali Colza (BUNDI, 1857; TRAINA, 1868; MACALUSO, 1875; MORTILLARO, 1876; NICOTRA, 1883; PICCITTO-TROPEA, 1977-90), Cavolino campestre (NICOTRA, 1883, NICOTRA-D`URSO, 1922) Cavolo perfilato (TRAINA, 1868; MORTILLARO, 1876; NICOTRA, 1883; Cime amarelle (TRISCHITTA-MANGIO`, 1925), Erba albertina, Ravastrello (PICCITTO-TROPEA, 1977-90), Senapaccia (TRAINA, 1868, PICCITTO-TROPEA, 1977-90) non possono essere presi in considerazione per le seguenti ragioni: 1) non si riferiscono a Brassica fruticulosa; 2) alcuni di essi sono stati coniati ex novo senza alcuna derivazione da parlate locali; 3) alcuni ancora, come Colza e Ravastrello, sono termini attribuiti, nella lingua corrente, anche ad altre specie (Navone, Rapa, e Rapastrello). PROVITINA (1990) chiama questa specie Brassica, nome da scartare per la sua genericità, mentre PIGNATTI (1982), seguito da BRANCA (1991), propone Cavolo rapiciolla; il primo termine è la traduzione di Brassica e il secondo è il termine dialettale ischiano. Lo scrittore siciliano Ercole Patti nel romanzo “Un bellissimo novembre” cita questo erbaggio con il nome di “Cavolicello” facendolo ovviamente derivare dai nomi in uso nel territorio etneo, tutti col significato di “piccolo cavolo”. Si ritiene, pertanto, che Cavolicello sia il termine volgare più idoneo a indicare Brassica fruticulosa per diversi motivi: è tratto da un termine localmente in uso; è diffusamente adoperato in gran parte del territorio etneo; si riferisce ad un erbaggio di largo impiego e ritenuto abbastanza pregiato. - I Derelitti e i Cavolicelli La presenza, in natura, abbondante e gratuita del Cavolicello, come pure delle altre verdure spontanee, è rimarcata dal detto siciliano: “irisinni a cauliceddi”; esso si riferisce ai derelitti che, non avendo denaro, per procurarsi il cibo possono andare solo a raccogliere verdure selvatiche.
Nomi dialettali
Adrano: Caluceddu, Caliceddu
Belpasso: Caluceddu
Biancavilla: Caliceddu
Bronte: Cauricellu, Cavuricellu, Coricellu, Quaricellu
Ragalna: Caliceddu

Cicerchia porporina

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Nome
CICERCHIA PORPORINA
Altri nomi volgari
Cicerchia articolata.
Taxon
Lathyrus articulatus L.
Famiglia
Leguminosae
Etimologia
Lathyrus è la latinizzazione di un antico termine greco, lathyros, indicante sia una pianta non identificata, provvista di legumi, sia la sostanza eccitante estratta dalla stessa. Il termine articulatus richiama le strozzature (articolazioni) del frutto.
Caratteri botanici
Pianta erbacea, annua, glabra con fusti rampicanti alati. Le foglie inferiori sono ridotte al solo asse, quelle mediane e superiori sono provviste di cirri e costituite da 3-4 paia di foglioline lineari-lanceolate. I fiori, hanno il calice tubulare, dentato, lungo ca. 7 mm e la corolla rossa, 12-15 mm, tipicamente papilionacea, con ali bianco-rosee. In primavera maturano baccelli lineari-oblunghi simili a quelli del Pisello, ma più corti (ca. 5 cm di lunghezza) e con evidenti strozzature.
Habitat
Boschi, campi e luoghi erbosi aridi.
Parti commestibili
I semi.
Uso alimentare
Lessi Minestre Crudi
La raccolta dei baccelli della Cicerchia porporina per fini alimentari, oggi, non è una pratica diffusa fra la gente dell`Etna. In passato, invece, tale usanza era ampiamente esercitata, specialmente durante la carestia connessa all`ultimo conflitto mondiale (BARBAGALLO et al., 1979). I baccelli, raccolti, si sbucciano e i semi in essi contenuti si cucinano come i piselli. Quando i baccelli sono teneri, i semi possono essere consumati anche crudi, il loro sapore è discreto.
Commercio
CICERCHIA PORPORINA
Diffusione
Questa specie ha un areale limitato alle coste mediterranee, in Italia si riscontra in Sicilia e Sardegna, più raramente in Liguria e Basilicata; essa pertanto non viene presa in considerazione dalla letteratura fitoalimurgica nazionale. Alcuni Autori (BIANCO e PIMPINI; BRANCA, 1991) segnalano, invece, l’impiego come verdura di Lathyrus sativus L., specie affine, presente, però, in quasi tutto il territorio.
Osservazioni
- Le Cicerchie orticole. Le specie Lathyrus sativus L. e L. cicera L., dette in volgare, rispettivamente, Cicerchia comune e Moco, sono soggette a coltivazione sia in Italia che in varie parti del mondo. La Cicerchia comune è una leguminosa foraggera i cui semi sono destinati anche all`alimentazione umana. Tuttavia, nel nostro Paese, la sua coltivazione è in forte declino, mentre è fiorente nel Medio Oriente, Africa e America del Sud (BALDONI e GIARDINI, 1981). - Preoccupazioni per il latirismo. L`uso alimentare prolungato della Cicerchia e del Moco provoca l’insorgere di una sindrome neurologica, detta latirismo, consistente in disturbi della motilità degli arti inferiori e nell`alterazione della sensibilità generale. Ne è causa una sostanza tossica (b-aminopropionitrile) presente nei semi, che inibisce l’enzima lisil-ossidasi e agisce a livello del midollo spinale. Il latirismo è, al giorno d’oggi, praticamente scomparso a causa dell`uso ormai sporadico di queste leguminose nell’alimentazione umana, uso, peraltro, vietato dalla legge.
Nomi dialettali
Adrano: Fasola
Belpasso: Fasuledda
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Puseddu sarbaggiu
Ragalna: Fasoli

Costolina

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Nome
COSTOLINA
Altri nomi volgari
Costolone, Costole d’asino, Ingrassaporci, Piattello.
Taxon
Hypochoeris neapolitana DC.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco: hypò = sotto e choìros = maiale, con allusione al fatto che i maiali apprezzano le radici della pianta. Il secondo termine si riferisce al territorio di provenienza della pianta, descritta dal botanico franco-svizzero De Candolle.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne caratterizzata da un rizoma ingrossato e legnoso. Al sopraggiungere delle piogge autunnali, si sviluppa una rosetta di foglie spatolate, pennato-lobate, più o meno irsuto-scabre e prostrate (da qui il nome volgare Piattello). Dal centro della rosetta, in primavera, emergono diversi fusti (talora uno solo) che sono glauchi, ramificati, privi di foglie e glabri (all`opposto delle foglie). All`apice di questo scapo si forma un capolino di 8 x 10-12 mm, avente i fiori con petali di colore giallo intenso e gli involucri di colore rosso-porpora. I capolini a maturità producono acheni di 3-4 mm dei quali solo gli interni sono provvisti di rostro.
Habitat
In Italia, questa specie è distribuita nelle regioni centro-meridionali, Sicilia, Sardegna e isole minori. Cresce sia nei terreni sciolti che in quelli compatti, comprese le sciare dell`Etna, dal livello del mare fino alle medie altitudini (1500 m).
Parti commestibili
Per uso alimentare si raccolgono sia la rosetta basale sia gli scapi. La prima, in autunno-inverno, avendo cura di staccarla dal colletto, mediante una lama, in modo da consentire alla pianta di riemettere un nuovo getto nella successiva stagione. I secondi si spiccano, in primavera, quando i capolini sono ancora in boccio. Nelle parti tagliate la pianta emette, se pur non abbondantemente, un latice appiccicoso. Questa sostanza è innocua, anzi è la responsabile delle ottime qualità culinarie di questa pianta.
Uso alimentare
Lessi Minestre Frittate
L’uso alimentare di questa pianta, nel territorio etneo, è assai diffuso. La rosetta basale (a zotta) costituisce un piatto di verdura particolarmente saporito e piacevolmente amarognolo. Queste caratteristiche organolettiche, dovute soprattutto al latice, sono ancor più evidenti quando la pianta è ancora giovane (autunno-inverno) poiché, a maturità le foglie diventano ispide, fibrose e insipide. Dopo averla mondata da eventuali foglie appassite e dalla porzione basale, si prepara lessa e condita con olio. Talora si unisce ad altre verdure meno saporite (Crespigno, Caccialepre, Lattuga alata, ecc.) per renderle più gustose. Gli scapi, che hanno un sapore più amaricante, si impiegano, dopo una opportuna sbollentatura, come gli asparagi per condire frittate. In dialetto gli scapi eduli si chiamano 'micc` î scalora' a Linguaglossa e 'scaranzizuli' a Zafferana.
Commercio
COSTOLINA
Diffusione
In tutto il territorio nazionale è diffuso l`uso di un’altra pianta molto affine alla nostra con lo stesso nome volgare, Hypochoeris radicata L. Tuttavia il suo uso alimentare non raggiunge l’intensità che è propria delle nostre contrade. Tra l’altro, nella maggioranza dei testi che si occupano di tradizioni fitoalimurgiche, la Costolina è spesso ignorata, POMINI (1959), invece, segnala l’uso delle giovani foglie primaverili in minestre e frittate e successivamente in insalate e in sostituzione degli spinaci. In Lombardia la Hypochoeris radicata è, tuttavia, apprezzata insieme alla affine Hypochoeris maculata L (Costolina macchiata) la quale però ha un sapore più acre. Ambedue si trovano sui mercati cittadini. Nella Lunigiana si usa cuocere la Costolina come gli spinaci per preparare le classiche torte salate. In Puglia si mangia cotta, condita con olio oppure saltata in padella. Anche in Francia la Costolina è cercata come erbaggio con il nome di “Salade de porc”.
Osservazioni
- Sul nome dialettale I nomi dialettali etnei attribuiti a Hypochoeris neapolitana, a nostro avviso, hanno bisogno di una breve considerazione semantica. In una vasta porzione del territorio etneo la pianta è chiamata 'Cosc`î vecchia' con il significato di 'cosce di vecchia'. Tale accostamento è assolutamente inconcludente; non v`è nulla nell`erbaggio che possa ricordare le gambe, tanto meno quelle delle donne anziane. E’, invece, probabile che tale denominazione sia corruttela di un altro termine dialettale, che nel settore nord-occidentale è riferito alla stessa pianta. Essa, infatti, è chiamata 'Cost` î vecchia' o con denominazioni simili ('Costa-vecchia', 'Costa ri vecchia') termini che si traducono in Costola di vecchia. Questa locuzione è riferita a un evidentissimo carattere: le sue foglie presentano la nervatura mediana assai prominente che ricorda l`affioramento delle costole umane della gabbia toracica, carattere, questo, che si rende più evidente con il sopraggiungere dell`età senile. Il riferimento al sesso femminile è dovuto probabilmente a quello della pianta che è anch’esso femminile. Tale glottogenesi trova efficace conforto nell`esistenza di vari nomi volgari che sono attribuiti a questa entità e alla affine Hypochoeris radicata: Costolina, Costolone e Costole d`asino. - La Costolina liscia Nel territorio etneo esiste anche una specie affine alla Costolina. Si tratta della Costolina liscia (Hypochoeris glabra L.) che differisce dalla precedente perché annuale e per le foglie prive di peli, attributi, però, poco significativi per chi si accinge a raccogliere la pianta. Le foglie glabre, infatti, non sono sempre tali e la durata di un anno o la perennanza sono irrilevabili sul campo. Gli erborinatori, quindi, confondono la Costolina liscia con la Costolina raccogliendo entrambe senza alcuna discriminazione. Tuttavia, questo non rappresenta un danno poiché i due erbaggi hanno le stesse caratteristiche organolettiche. - Le galle mangerecce In alcune contrade etnee esiste una tradizione fitoalimurgica singolare: le galle provocate da un insetto negli scapi fiorali delle due Costoline (Hypochoeris neapolitana e H. glabra) sono considerate commestibili. Le galle o cecidi, com`è noto, sono escrescenze prodotte dalle piante in seguito all`ovodeposizione di un animale parassita. Questi induce la formazione della galla per assicurare la sopravvivenza della sua progenie; infatti i nuovi nati trovano all`interno della galla protezione e nutrimento. Nel nostro caso le galle hanno un aspetto allungato a forma di salsicciotto e sono dette 'cucummaru' a Nicolosi, 'cucúmmareddu' o 'cucuzzedda' a Ragalna e 'cazzicatummuli' a Zafferana. I primi tre nomi alludono chiaramente alla loro forma che è simile al cetriolo o alla zucchina; l`ultimo, invece, non sembra avere attinenza che si possa spiegare. I 'cucummareddi' (o in altro modo chiamati) vengono raccolti dai locali per essere consumati crudi o cotti e hanno un sapore molto dolce.
Nomi dialettali
Adrano: Cosc`î vecchia
Belpasso: Cosciavecchia
Biancavilla: Cosc`î vecchia
Bronte: Costavecchia, Cost`î vecchia
Ragalna: Cosc`î vecchia, [Cucummareddu]

Crespigno comune

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Nome
CRESPIGNO COMUNE
Altri nomi volgari
Lattarolo, Grespigno, Cicerbita, Crespignolo.
Taxon
Sonchus oleraceus L.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio ha origini antichissime; nella lingua greca del III secolo a. C. esisteva già un vocabolo sogkos che si riferiva a una sorta di Cardo, non identificato, esistente nell`area mediterranea. Linneo ne recuperò la denominazione, attribuendola al Crespigno. Il secondo termine significa “pianta mangereccia”.
Caratteri botanici
Pianta annuale, alta fino ad 1 m, con fusto cavo e cedevole, molto ramificato e provvisto di foglie molli, grassette, glabre, glaucescenti, grossolanamente lobato-partite con lobi a margine finemente dentato. I fiori, di colore giallo, sono riuniti in capolini disposti in cime corimbiformi. I frutti sono acheni oblunghi con 3 coste longitudinali munite di spine.
Habitat
Il Crespigno si rinviene dal livello del mare fino alle zone medio-montane, a 1500 m di quota, dove cresce nei coltivi concimati, negli orti, sui muri e lungo i bordi delle strade, anche urbane. In tutte le città e i paesi circumetnei, il Crespigno si rinviene frequentemente ai lati di molte vie, nei parchi, nelle aiuole spartitraffico e perfino nelle crepe delle pareti delle case. Si tratta di una pianta cosmopolita che occupa un terzo della superficie delle terre emerse. La sua invadenza nelle colture è tale che viene considerata pianta infestante (HÄFLINGER BRUN-HOOL, 1981).
Parti commestibili
Si raccoglie l`intera pianta quando è ancora giovane e, a maturità, i getti novelli del fusto; è possibile prelevare anche il fusto quando è ancora giovane e tenero. Tutta la pianta, come altre cicoriee, contiene un latice bianco (per questo volgarmente chiamata Lattarolo) assolutamente innocuo.
Uso alimentare
Mesticanze Insalate
Il Crespigno è un erbaggio a rapida cottura, di rado utilizzato singolarmente come pietanza; esso è, invece, considerato classica verdura per le mesticanze. Il suo sapore dolciastro serve ad attenuare il tono amarognolo di altri erbaggi, come la Costolina o l`Amarago. In qualche località, quali Ragalna, Linguaglossa, Maletto, si usa consumarlo anche crudo, in insalata; si adoperano soprattutto i fusti cavi, anche se grossi, particolarmente saporiti.
Commercio
CRESPIGNO COMUNE
Diffusione
Quest`erbaggio gode di una grande popolarità in varie zone dell`Italia, anche se ovunque è considerato una verdura minore. In varie località del Bresciano, in Toscana e nel Montefeltro il Crespigno si utilizza cotto, nelle miscellanee di verdura (come nel nostro territorio) o per minestre e zuppe, come pure crudo, in insalata (CORSI e PAGNI, 1979b).
Osservazioni
- Verdure simili Una pianta edule assai simile al Crespigno comune è il Crespigno spinoso (Sonchus asper (L.) Hill., per la quale si rimanda alla sheda relativa. Nel territorio etneo, come d'altronde in tutta la Sicilia, si trova un'ulteriore specie, il Crespigno sfrangiato (Sonchus tenerrimus L.). Stranamente le popolazioni locali non discriminano quest’ultima pianta che confondono sia con il Crespigno comune sia con quello spinoso, sebbene essa si differenzi marcatamente per la morfologia delle foglie, profondamente incise (pennatosette) anziché lobate. - Succedaneo del caffè In passato, in varie parti d`Italia (ma non nel territorio etneo), un surrogato del caffè veniva ricavato sia dal Crespigno comune che dal Crespigno dei prati (Sonchus arvensis L.), assente in Sicilia; a tale scopo si prelevavano le radici che venivano torrefatte e macinate. Le radici del Crespigno dei prati, secondo alcuni autori (DECÓ e VOLONTE`, 1991; CAMPOLMI, 1985) si consumano anche come piatto di verdure, lessate e condite con olio e limone oppure saltate al burro.
Nomi dialettali
Adrano: Cardedda fimmina
Belpasso: Cardedda
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Cardedda
Ragalna: Cardedda fimminedda

Crespigno spinoso

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Nome
CRESPIGNO SPINOSO
Altri nomi volgari
Grespigno spinoso
Taxon
Sonchus asper (L.) Hill
Famiglia
Etimologia
Il primo termine del binomio ha origini antichissime; nella lingua greca del III secolo a. C. esisteva già un vocabolo 'sogkos' che si riferiva a una sorta di Cardo, non identificato, esistente nell`area mediterranea. Il secondo termine significa “pianta spinosa”.
Caratteri botanici
Pianta annua caratterizzata da fusti robusti, poco ramosi, provvisti di foglie spesse, pungenti, di colore verde lucido e con margine con lobi spinulosi. I capolini sono disposti in cime ombrelliformi, gli acheni a maturità si presentano lisci.
Habitat
E' diffuso nelle colture, negli orti e nelle vigne.
Parti commestibili
Si raccoglie l'inetra pianta quando è ancora giovane oppure a maturità i getti novelli del fusto..
Uso alimentare
Mesticanze Insalate
Si utilizza lesso singolarmente o per assieme ad altre verdure. Il suo sapore, rispetto a quello del Crespigno comune, è più scadente.
Commercio
Diffusione
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: Cardedda mascula
Belpasso: Cardedda
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Cardedda spinusa, Cardedda ri porci
Ragalna: Cardedda masculina

Dente di leone

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Nome
DENTE DI LEONE
Altri nomi volgari
Radichiello, Cicoria selvaggia.
Taxon
Leontodon tuberosus L.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dai vocaboli greci leon = leone e ous, odontos = dente, in riferimento al margine delle foglie marcatamente dentato; il secondo, invece, è riferito alla presenza di radici tuberizzate.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne caratterizzata da radici ingrossate, tuberizzate e da una densa rosetta di foglie basali, pelose, lineari-spatolate, con margine profondamente sinuoso-dentato. In primavera, dal centro della rosetta si sviluppano gli scapi fiorali, eretti ed afilli, che portano all’apice un capolino di fiori colore giallo-limone. La parte aerea ricorda, nell`aspetto generale, la più comune Costolina.
Habitat
Si tratta di una specie non molto diffusa sull’Etna, che cresce nelle sciare e nei coltivi, dal livello del mare fino a 1000 m di altitudine.
Parti commestibili
Il cespo di foglie basali.
Uso alimentare
Lessi
Le foglie del Dente di leone si usano semplicemente lessate e condite con olio.
Commercio
DENTE DI LEONE
Diffusione
Le giovani foglie sono utilizzate, in varie parti della Penisola, come spinaci (CORSI e PAGNI, 1979a).
Osservazioni
- Un`omonimia da evitare Il nome comune Dente di leone viene attribuito anche ad un’altra pianta mangereccia, Taraxacum officinale Weber, sempre in riferimento alla presenza di foglie con margine marcatamente dentato-inciso. Questa specie, anch’essa appartenente alla famiglia Compositae, è nota, peraltro, con altri appellativi volgari (Soffione, Tarassaco, Piscia cane, Piscialetto) ed è assente nel territorio etneo.
Nomi dialettali
Adrano: non rilevato
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: non rilevato
Ragalna: Lattughedda

Finocchio selvatico

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Nome
FINOCCHIO SELVATICO
Altri nomi volgari
Finocchio piperito, Finocchio arancino, Finocchio cedrato, Finocchio asinino.
Taxon
Foeniculum vulgare Miller ssp. piperitum (Ucria) Coutinho
Famiglia
Umbelliferae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome latino con cui si indicava il finocchio; esso deriva da foenum = fieno, per la sottigliezza delle foglie e per il suo intenso odore aromatico o forse perché un tempo veniva impiegata come foraggio. Il secondo termine sta a significare che la pianta è abbastanza diffusa (vulgare= comune), per distinguerla da altre specie affini più rare. Il termine attribuito alla sottospecie deriva dal lat. piper= pepe, e si riferisce alle sostaze aromatiche, presenti nella pianta.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne, aromatica, caratterizzata da un rizoma biancastro e da densi cespi di foglie, che compaiono in autunno inoltrato, di colore verde brillante, 3-4 pennatosette con lamina interamente divisa in numerose lacinie capillari. In estate, si originano fusti eretti, alti fino a 1,5 m, ramificati, che portano ombrelle di piccoli fiori gialli. I frutti sono acheni oblunghi, glabri, marcatamente costoluti. Tutte le parti della pianta emanano un intenso odore, prodotto da alcuni olî essenziali, quali anetolo, estragolo, carvolo, acido anisico, fenene, pinene, canfene e limonene (PALMA, 1964).
Habitat
Il Finocchio selvatico è una tipica pianta mediterranea, che si rinviene con maggior frequenza in popolazioni più dense nelle regioni meridionali e nelle isole, dal piano basale fino a ca. 1000 m di quota. Predilige i luoghi soleggiati, incolti, secchi e ciottolosi; si trova però anche nelle zone erbose, ai piedi dei muretti a secco e sui margini delle stradelle di campagna.
Parti commestibili
Si raccolgono, dall`autunno alla primavera, i novelli getti fogliari e, dall`estate all’autunno, i fusti fioriferi con le ombrelle nonché i frutti (erroneamente noti come “semi”).
Uso alimentare
Aromi Mesticanze Minestre
Questa pianta, più che come verdura, viene utilizzata in cucina come aromatizzante, a causa degli olî essenziali che impartiscono odori e sapori forti alle pietanze. In particolare, le fronde del Finocchio selvatico, opportunamente mondate dalle foglie più vecchie, si usano per dare “tono” alle mesticanze, per condire la pasta chi sardi (propria del Palermitano) o la pasta cu masculino (propria del Catanese) oppure vanno aggiunte a particolari minestre, fra cui tipica è quella fatta con le fave secche detta maccu; da qui il detto popolare: essere favi e ffinocchi, riferito a cose e persone che filano in perfetto accordo. I fusti con le ombrelle hanno, nel nostro territorio, una caratteristica collocazione gastronomica: vengono immersi nella salamoia in cui si conservano le olive, alle quali conferiscono il loro tipico aroma. I frutti del Finocchio selvatico rientrano fra le spezie che si aggiungono alla salsiccia oppure nell’arte pasticcera; in questo caso sono utilizzati soprattutto come ripieno nei cosiddetti “cimini”, sorta di confetti ricoperti di zucchero pralinato, nei quali al loro posto dovrebbero essere usati i più costosi semi di altre specie di Ombrellifere, quali il Cumino (Carum carvi L.), l`Anice (Pimpinella anisum L.) e il Tragoselino (Pimpinella anisoides Brig.)
Commercio
FINOCCHIO SELVATICO
Diffusione
In Italia l`uso alimentare del Finocchio selvatico è diffuso in tutto il territorio, con maggiore o minore incidenza in relazione alla maggiore o minore presenza della pianta. In Piemonte, come nella vicina Francia, si usa condire il pesce alla griglia con il cosiddetto “olio di finocchio”, preparato ponendo alcuni gambi dell`erbaggio in infusione con olio di oliva. Un`altra usanza propria di questa regione è quella di aggiungere un pizzico di frutti di Finocchio selvatico all`acqua di cottura delle “castagne ballotte” (cioè bollite con la buccia) con lo scopo di insaporirle. In Lombardia i germogli di Finocchio selvatico si aggiungono, oltre che alle mesticanze, anche alle insalate crude come aromatizzanti. I frutti invece si usano in pasticceria per preparare un dolce tipico del luogo, la “schiacciata al finocchio”. Nel Veneto le foglie, i rametti e le ombrelle vengono fatti essiccare all`ombra (il Finocchio selvatico è una delle poche erbe aromatiche che rafforzano il loro profumo disseccandosi) per essere impiegati come aromatizzanti in cucina nei mesi in cui la pianta è in riposo; si usano infatti nei piatti di pesce, nelle carni, nelle patate, nelle insalate, nelle olive, ecc. In Toscana i germogli si usano per condire minestre, specialmente quella coi “fagioli all`occhio”, e per le carni lesse. I gambi secchi vengono gettati sulla brace su cui si cuoce il pesce alla griglia. I frutti del Finocchio selvatico hanno in questa regione una grande varietà di impieghi: si aggiungono ai tipici “fegatelli” di maiale e alla caratteristica “zuppa frantoiana” (CORSI e PAGNI, 1979b); si mescolano al fine tritato di carne di manzo o di maiale; si spargono, inoltre, sulle forme di pane, come si fa nel nostro territorio con i semi del Sesamo (la cosiddetta giuggiulena) (NERI, 1990). A S. Gimignano viene preparato un tipo di salame di cinghiale fra i cui ingredienti figurano i frutti di Finocchio selvatico. Nelle Marche, foglie, pezzi di fusto e frutti sono ingredienti basilari per preparare il classico “potacchio” (o “potaggio”), uno spezzatino di pollo o coniglio. Nel Lazio i frutti di Finocchio selvatico sono insostituibili nelle preparazioni della”porchetta”, che si ottiene dai maialini da latte (lattonzoli), cotti interi al forno e riempiti di droghe varie. In Calabria il nostro erbaggio entra nella composizione del singolare condimento detto “sardella” o “rosamarina”, che si fa impastando bianchetto di pesce, peperoncino e frutti di Finocchio selvatico. L`uso del Finocchio selvatico è diffuso anche fuori dell`Italia; ad esempio, in vari paesi del Mediterraneo, i frutti servono per aromatizzare le olive nere ed i fichi secchi, mentre nell`Europa continentale essi, insieme a quelli dell`affine Cumino, sono usati per insaporire i crauti.
Osservazioni
- Significato delle denominazioni dialettali Nel nostro territorio il Finocchio selvatico è chiamato, indifferentemente, con due nomi: Finucchieddu rizzu o Finucchieddu î timpa. Il primo allude alle foglie, che, quando sono giovani, presentano lacinie brevi e intricate, tali da conferire all`insieme un aspetto rizzu, cioè crespo. Il secondo si riferisce all`habitat dove, in modo particolare, attecchisce la pianta: luoghi incolti, secchi e ciottolosi, che sono assai frequenti nelle timpe, cioè nelle zone scoscese ed accidentate. - Il Finocchio orticolo Dal Finocchio selvatico sono derivate le diverse varietà orticole. Tale trasformazione agro-genetica è avvenuta in tempi relativamente recenti: le prime notizie sulla coltivazione del Finocchio risalgono al secolo XVI. Essa fu avviata in Italia (particolarmente nel Lazio ed in Campania) e successivamente si estese anche in Francia; queste due nazioni, ancor oggi, detengono il primato europeo della produzione. Attualmente, il Foeniculum vulgare è suddiviso in due sottospecie: ssp. piperitum (Ucria) Coutinho, con ombrelle piccole a 4-10 raggi e frutti di odore e sapore molto piccante, piperaceo, e ssp. capillaceum (Gilib.) Holmboe, con ombrelle più grandi a 12-25 raggi e frutto di sapore più o meno gradevole. All’interno della ssp. capillaceum si distinguono 3 varietà: la var. vulgare, selvatica, e le var. dulce e azoricum, coltivate l’una per i frutti, sottili, biancastri, di sapore dolciastro, l’altra per le guaine fogliari ingrossate, eduli (grùmolo). Nelle varietà coltivate la selezione ha favorito l’ingrossamento e la carnosità delle guaine, attenuandone il sapore fortemente aromatico dovuto alla presenza di anetolo. E’ noto che mangiando del finocchio crudo si altera la sensibilità delle papille gustative e da ciò deriva il termine “infinocchiare”; infatti, in passato, gli osti disonesti usavano servire agli avventori un piatto di quest`ortaggio prima di propinare loro i vini più scadenti. Dai frutti della ssp. capillaceum si estrae un olio essenziale (anetolo) impiegato in gastronomia per aromatizzare vivande, nell’industria liquoristica, per preparare superalcolici (tipo Pernod) e anisette, nonché in farmacia come eupeptico ed espettorante. - L’estensione del nome Finocchio Il nome volgare Finocchio, seguito da aggettivi o modificato indica anche numerose altre piante appartenenti a generi diversi di Ombrellifere: Finocchiaccio si riferisce alla Ferula communis L., Finocchiella a Mirrhis odorata (L.) Scop., Portenschlagiella ramosissima (Portenschl.) Tutin e a tutte le specie dei generi Seseli e Oenanthe.; Finocchio porcino é attribuito a Peucedanum officinale L., mentre Finocchio marino è Crithmum maritimum L. Di queste piante solo Mirrhis odorata e Crithmum maritimum sono commestibili, ma non rientrano nella nostra tradizione fitoalimurgica. Anche nel nostro dialetto si può equivocare sul nome dato al Finocchio selvatico. Il termine finucchiettu non ha alcun collegamento botanico con la pianta qui considerata; esso si riferisce ad un materiale (verga o striscia) di origine vegetale che viene utilizzato per lavori di “giunco” o intreccio, ad esempio battipanni, tamburi per sedie, ecc. Questo materiale è ricavato da una palma esotica, Calamus rotang L.
Nomi dialettali
Adrano: Finocchieddu î timpa, Finocchieddu rrizzu
Belpasso: Finocchieddu î timpa, Finocchieddu rrizzu
Biancavilla: Finocchieddu î timpa, Finocchieddu rrizzu
Bronte: Finocchieddu î timpa, Finocchieddu rrizzu
Ragalna: Finocchieddu î timpa, Finocchieddu rrizzu

Guado

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Nome
GUADO
Altri nomi volgari
Glasto comune, Erba di guado, Tintaguada, Guadone, Vado, Glastro.
Taxon
Isatis tinctoria L.
Famiglia
Cruciferae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco isazo con il significato, come riferito da Dioscoride, di “levigare”, per le proprietà abrasive di questa pianta usata per rendere liscia la pelle oppure, secondo Tournefort, con il significato di “rendere unito” per le proprietà adesive, sfruttate in cosmetica. Il secondo termine del binomio deriva dal latino 'tingo' = tingere e fa riferimento alle proprietà coloranti della pianta.
Caratteri botanici
Pianta erbacea bienne, sparsamente pelosa, caratterizzata da uno scapo eretto, alto fino a 120 cm, ramificato in alto, e da foglie astate, acute, amplessicauli, di colore verde glauco. Tra maggio e luglio compaiono i fiori, di colore giallo vivo, riuniti in densi racemi terminali. I frutti sono siliquette pendule, oblunghe.
Habitat
Il Guado cresce comunemente su substrati rocciosi, nelle colture abbandonate, nelle radure e lungo i margini di strada.
Parti commestibili
Le infiorescenze (taddi, giummi o brucculeddi) prelevate nel mese di Aprile con i fiori ancora in boccio (fig.6).
Uso alimentare
Lessi Frittate
I germogli del Guado non sono una verdura molto ricercata, forse a causa della loro non facile digeribilità. Si consumano lessati e conditi con olio e limone oppure come ingredienti nelle frittate.
Commercio
GUADO
Diffusione
Non si conoscono notizie circa l`uso alimentare di questa pianta al di fuori del territorio etneo.
Osservazioni
- Le virtù tintorie Il Guado (dal celtico weid = erba selvatica) fornisce anche una sostanza colorante (guado o pastello) adoperata in passato per tingere i filati o fare tinture cosmetiche LIPPERT & PODDLECH, 1991). Tale impiego trova testimonianza in reperti tessili risalenti al V secolo a.C., come pure negli scritti di Cesare (I secolo a.C.) circa l’uso che i Bretoni ne facevano per tingersi i corpi prima delle battaglie. Il vasto impiego come colorante diede avvio nel Medioevo alla coltivazione della pianta. Verso il secolo XIII, con l`intensificarsi degli scambi commerciali tra Europa ed Oriente, venne importata dall`India l`Indigofera anil L. la quale soppiantò rapidamente il Guado nell’industria tintoria, contenendo, in maggiori quantità, lo stesso colorante, da allora chiamato indaco (il colore dei blue jeans). Nel XIX secolo, l’utilizzazione di entrambe le specie a fini tintori ebbe termine, in quanto nel 1870, con l’avvento dei coloranti sintetici, fu avviata la sintesi chimica dell’indaco ad opera del chimico Baier e, nel 1890 un altro chimico Heumann avviò la sua produzione a fini industriali. A dispetto di tutte queste vicissitudini storiche, nel territorio etneo il popolo sconosce totalmente le proprietà tintorie della pianta.
Nomi dialettali
Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: Cavulu di carammu, Calacarammu

Lampascione

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Nome
LAMPASCIONE
Altri nomi volgari
Lampagione, Lampasione, Cipollaccio, Giacinto dal pennacchio, Muscaro, Muscari, Muscarino, Giacinto delle vigne (o delle viti), Cipolla canina, Cipolla selvatica, Cipolla di serpe, Porrettaccio, Cipollone, Zazzeruto.
Taxon
Leopoldia comosa (L.) Parl.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è dedicato a Leopoldo II, granduca di Toscana. Il secondo termine deriva dal latino 'comosus' = chiomato, in riferimento al particolare aspetto dell’ infiorescenza.
Caratteri botanici
Pianta bulbosa caratterizzata da un bulbo globoso o ovato-piriforme (3-4 cm di diametro) con tuniche esterne rosso-violacee e da 2-4 foglie basali, lineari, eretto-patenti o ricurve, talora prostrate, che si originano direttamente dal bulbo. In primavera produce uno scapo eretto, alto 20-40 cm, semplice, glabro, afillo, alla cui sommità si sviluppa un racemo cilindrico o piramidale formato in basso da fiori fertili, di colore da violaceo-olivastro fino a giallo-fosco e terminato all’apice da fiori sterili, lungamente peduncolati, colore malva.
Habitat
Il Lampascione si rinviene dalla zona basale fino a ca. 2000 m di altitudine, negli incolti erbosi, nei pascoli e nei coltivi.
Parti commestibili
Si consuma il bulbo, raccolto preferibilmente prima della formazione dello scapo fiorale, quando è ancora ricco di nutrienti.
Uso alimentare
Lessi
Nell’Italia meridionale e in varie parti della Sicilia la tradizione fitoalimurgica include il Lampascione fra gli erbaggi più ricercati e appetiti; di contro, nel territorio etneo esso è poco utilizzato poiché non tutti gli abitanti lo considerano pianta edule. I bulbi del Lampascione si cucinano in vari modi, dopo aver eliminato le tuniche esterne coriacee.
Commercio
LAMPASCIONE
Diffusione
Se sull’Etna il Lampascione è una pianta poco appetita, in alcune regioni dell’Italia meridionale, invece, come Puglia e Calabria, esso viene persino coltivato.
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: Cipudduzzu, Cipuddazzu
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: Cipuddazza
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: Cipuddazza, Cipuddazzu

Lattuga alata

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Nome
LATTUGA ALATA
Altri nomi volgari
Lattuga viminea.
Taxon
Lactuca viminea (L.) Presl.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal latino lacto = essere fatto di latte, in riferimento al latice biancastro contenuto nella pianta, assai ridotto nelle attuali cultivar di 'Lactuca sativa' L., la comune lattuga. Il secondo termine è riferito ai rami esili e flessibili, come quelli dei Salici detti vimini.
Caratteri botanici
Pianta erbacea bienne caratterizzata da una rosetta di foglie basali, che compare tra l’autunno e l’inverno, aventi lamina pennatosetta a maturità con segmenti lineari a margine intero. In primavera, al centro della rosetta, si sviluppa uno scapo eretto, inizialmente verde e tenero, legnoso alla base e di colore biancastro a maturità, alto fino a 1 m, con foglie inferiori pennatosette e superiori intere o dentate e progressivamente ridotte. I fiori, di colore giallo, compaiono in estate, riuniti in capolini sessili, pauciflori.
Habitat
La Lattuga alata cresce in prevalenza nei luoghi sassosi, negli incolti e nei margini di strada, dal livello del mare fino a ca. 2100 m di altitudine.
Parti commestibili
In inverno si utilizza la rosetta di foglie basali oppure, in primavera, quando lo scapo è ancora tenero, l’intera pianta.
Uso alimentare
Lessi Insalate Frittate
Le foglie basali, dal sapore dolciastro, si consumano lessate e condite con olio oppure, più raramente, crude in insalata. Gli assi fiorali (cimuzzi), dal sapore amarognolo, si usano come condimento nelle frittate. Nel territorio etneo, la Lattuga alata è considerata una delle migliori verdure da foglia (fogghia).
Commercio
LATTUGA ALATA
Diffusione
La Lattuga alata è riportata come pianta edule solo in pochi manuali di fitoalimurgia (INDRIO, 1981; CHIEJ-GAMACCHIO, 1990) nei quali, tuttavia, viene segnalata come verdura di buona qualità.
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: Lattughedda du Signuri
Belpasso: Evva di scussuni
Biancavilla: Ntossicaceddi
Bronte: Guttaru, Perinigghiu
Ragalna: Scursunara, Scursunera, `Ntossicaceddi

Lattugaccio

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Nome
LATTUGACCIO
Altri nomi volgari
Lattughiello.
Taxon
Chondrilla juncea L.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco chondrlê, nome dato ad alcune piante provviste di latice che, a contatto con l`aria, si rapprende in grumi (chondros = grumo). Il secondo termine si riferisce ai fusti giunchiformi.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne, glaucescente, caratterizzata da una rosetta basale di foglie oblanceolate, roncinate al margine, che compare in inverno e dissecca durante la fioritura. In primavera, dal centro della rosetta si origina uno scapo eretto, alto sino a 120 cm, provvisto alla base di spinule retroflesse, ramificato in alto, con foglie lineari ridotte. I fiori, ligulati e di colore giallo, compaiono in estate, riuniti in capolini spesso raggruppati in fascetti, che restano aperti solo nelle ore mattutine.
Habitat
Il Lattugaccio è molto diffuso nell’Italia centro-meridionale, mentre è più raro al Nord. Cresce, dal livello del mare sino a ca. 2000 m di quota, negli incolti e nei coltivi (soprattutto vigneti e pometi), ma anche nei bordi di strada, macerie e detriti.
Parti commestibili
Vengono utilizzate in inverno la rosetta di foglie basali (a zotta), tagliandola alla base in modo da preservare la radice, in primavera lo scapo (giummu o micciu), infine, all`inizio dell`estate, le cime terminali (taddi) di ciascun ramo. Tutta la pianta contiene un latice, completamente innocuo, che si rapprende a contatto con l’aria.
Uso alimentare
Lessi Insalate Condimenti
Le foglie basali, di sapore leggermente amarognolo, si consumano crude o cotte. Crude si preparano in insalata quando sono ancora giovani e tenere (u tenniru); secondo una credenza locale il Lattugaccio, così consumato, sarebbe un efficace rimedio contro l`eccessiva acidità di stomaco. Cotte, si fanno lessate e condite con olio o aggiunte come condimento per la pasta. La loro ingestione può produrre una blanda azione soporifera per la presenza di piccole quantità di sostanze ipnotiche, contenute anche nella comune Lattuga. Lo scapo, di sapore dolce, si cucina come gli asparagi e si usa per condire frittate.
Commercio
LATTUGACCIO
Diffusione
Il Lattugaccio è abbastanza diffuso come pianta alimentare in gran parte delle regioni italiane. Nel Veneto, dove è noto con il nome di Crencanele, si consuma sia crudo che cotto (ARIETTI, 1974). In Emilia viene venduto nei mercati insieme alla Cicoria di campagna (Leontodon hispidus L.). In Romagna si usa come componente delle mesticanze che, passate in padella, servono per fare i ripieni delle tipiche piadine (una sorta di schiacciata). In Puglia, dove abbonda nei vigneti, le giovani cime del Lattugaccio sono largamente impiegate in numerosi piatti regionali (RICCARDO, 1921).
Osservazioni
- Su alcuni nomi dialettali. I nomi dialettali Cudidda, Curidda, Curî suggi e Cud`ê attu si riferiscono allo stadio giovanile dello scapo che, ricoperto di spinule e di foglie ricadenti, assomiglia vagamente alla coda di qualche animale. Le dizioni Inestruora e Inistrora si riferiscono allo stadio maturo dello scapo quando il suo aspetto cespuglioso, il colore glauco dei rami e il tipo di foglie evocano l’immagine della Ginestra (Inestra) in miniatura. - Nicolosi culla di belle donne. Le virtù (reali o immaginarie) nutritive e salutari del Lattugaccio sono rimarcate da un detto tipico della cittadina di Nicolosi: a Nicolosi su’ li donni beddi cu lu tantu mangiari li cudiddi.
Nomi dialettali
Adrano: Cutuledda
Belpasso: Cudidda
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Curi î suggi
Ragalna: Cudidda

Malva

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Nome
MALVA
Altri nomi volgari
Malva selvatica.
Taxon
Malva sylvestris L.
Famiglia
Malvaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome con cui i Latini designavano la pianta, conosciuta sin d’allora per la sua commestibilità e per le sue proprietà medicinali; esso discende dal greco malasso = ammollisco, per le proprietà emollienti. Il secondo termine deriva dal latino con il significato di “selvatico, non coltivato”, in riferimento alla spontaneità della specie.
Caratteri botanici
Pianta erbacea, annuale o bienne, con fusti legnosi alla base, prostrato-eretti, ispidi. Le foglie sono lungamente picciolate, a lamina pentagonale, le inferiori con 5 lobi dentellati, profondamente laciniate le superiori. In primavera, all’ascella delle foglie superiori, si sviluppano fiori appaiati, piuttosto appariscenti, con petali bilobi, rosei o roseo-violetti venati di viola. I frutti sono schizocarpi globosi, costituiti da mericarpi appiattiti e reticolati sul dorso con margini leggermente dentati.
Habitat
La Malva è comunissima nei terreni incolti e in tutti i suoli ricchi di nitrati, lungo le strade, negli orti e nei pressi delle abitazioni. Sovente viene attaccata da un fungo, la ruggine della Malva (Puccinia malvacearum Mont.), che produce vistose macchie di colore bruno-rossastro sulle foglie e sul fusto.
Parti commestibili
Si raccolgono le cime delle piante giovani oppure le foglie tenere delle piante adulte, privandole però del lungo picciolo, fibroso e duro. Tale raccolta va effettuata in pieno inverno, prima che vengano emessi i fiori, evitando i soggetti colpiti dalla ruggine che hanno sapore sgradevole.
Uso alimentare
Lessi
I getti giovani e le foglie si mangiano lessati e poi conditi con olio, sale e aceto. I composti glucidici di cui la pianta è ricca impartiscono all’alimento un gusto dolciastro, non gradito a tutti i palati, nonché un blando effetto lassativo. Nel territorio in esame, l`impiego gastronomico della Malva non è molto praticato, ma si riscontra solo in aree ristrette, dove peraltro sta cadendo in disuso. Molte delle persone intervistate hanno confermato che, in passato, tale tradizione alimentare era più viva e diffusa. In tutte le località indagate, la pianta è, invece, assai nota per le sue virtù officinali. Si preparano decotti delle foglie e infusi dei fiori che sembra abbiano azione antinfiammatoria, emolliente e anticostipatoria per la presenza di mucillagini, resine, pectine e altri principi attivi. La popolazione locale non fa discernimento fra le diverse specie del genere Malva, nonché di generi affini, presenti nel territorio; vengono, infatti, raccolte indiscriminatamente insieme alla Malva sylvestris, anche M. cretica Cav., M. nicaeensis All., M. parviflora L. e Lavatera cretica L. Tale confusione non costituisce alcun pericolo perché tutte queste specie sono commestibili ed officinali (QUINCHE e BOSSARD, 1991).
Commercio
MALVA
Diffusione
L`impiego alimentare della Malva nel resto d`Italia ha un’antica tradizione, al pari dell`utilizzazione della pianta per fini terapeutici. Di pietanze a base di Malva ne parlava, nella Magna Grecia, addirittura Pitagora e, nella Roma imperiale, Cicerone riferiva in una sua “Epistola” di avere abusato di un pasticcio di Malva. Anche Orazio, nelle “Odi” diceva di essersi nutrito di Olive, Cicoria e Malva, così come Marziale decantava intingoli fatti a base di questo erbaggio LIEUTAGHI, 1974; PRESS et al. 1983). Nel Medioevo assai apprezzati erano il pane e le focacce alla Malva. Al giorno d`oggi, in tutta la Penisola, la Malva ha un interesse alimentare abbastanza marcato, certamente più che nel nostro territorio. In genere si usano le foglie giovani e i nuovi getti, ma sono ricercati anche i fiori, particolarmente quando sono in boccio. Queste parti della pianta si consumano sia cotte che crude (quest`ultima usanza da noi assolutamente sconosciuta). Cotte, vanno lessate appena, in poca acqua (altrimenti diventano una massa mucillaginosa poco appetibile), si strizzano bene e si condiscono con olio, pepe e limone oppure si passano in padella come gli spinaci. Sono anche usate come ingredienti di minestre e minestroni di ortaggi vari, ai quali impartiscono un carattere “vellutato”, in virtù delle mucillagini in esse contenute (TOCCI, 1986). Fra queste minestre di Malva abbastanza nota è la “Melokhia egiziana” che si prepara tagliando le foglie molto sottili, bollendole nel brodo di carne e aggiungendo un soffritto di aglio, coriandolo, pepe e sale. La Melokhia si può servire da sola o come base per fare un risotto (PILOTTO e FRANCONERI, 1993; URQUHART, 1982). . Foglie tenerissime e fiori di Malva, misti ad altri erbaggi primaverili, tutti crudi, sono ottimi ingredienti per saporite insalate. I fiori, oltre a decorare le pietanze, sono utilizzati per aromatizzare. Dai fiori secchi si ottiene un infuso detto “té di Malva” (BOSSO, 1992).
Osservazioni
- Un rimedio per le punture degli insetti Un’usanza, sconosciuta in Sicilia ma riportata da diversi manuali di etnobotanica (RIGHI-PARENTI, 1985; DECÓ e VOLONTE`, 1991; PRESS et al., 1983) è l’azione benefica della linfa della Malva nelle punture di api e vespe, che si realizza spremendo il succo delle giovani foglie direttamente sulla parte offesa oppure masticandole e ponendo il bolo su di essa. Sembra che tale pratica faccia parte delle tradizioni proprie degli apicoltori. - I panuzzi du Signuri A Belpasso è usanza mangiare crudi, per passatempo, i frutti ancora teneri della Malva, i quali ricordano nell’aspetto piccole ciambelle di pane (larghe ca. 1 cm) e per questo vengono detti panuzzi du Signuri (panetti di Gesù).
Nomi dialettali
Adrano: Mavva, Mariva
Belpasso: Mavva
Biancavilla: Marva
Bronte: Mavva, Mavvascu
Ragalna: Marba, Marva

Onopordo maggiore

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Nome
ONOPORDO MAGGIORE
Altri nomi volgari
Cardo asinino.
Taxon
Onopordum illyricum L.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dai vocaboli greci onos = asino e pordê = peto, in riferimento ai presunti effetti carminativi della pianta sugli asini. Il secondo termine, invece, si riferisce all`area geografica dove la pianta è molto comune.
Caratteri botanici
Imponente pianta erbacea, bienne o perenne, spinosa, simile al Cardo, caratterizzata da foglie basali in rosetta, grandi, pennatosette, e da uno scapo eretto, coperto da una lanugine biancastra, provvisto di foglie profondamente dentate con denti patenti e spinosi. I fiori, di colore roseo, compaiono all’inizio dell’estate in vistosi capolini terminali provvisti di squame involucrali riflesse e spinose. Quando i fusti e le infiorescenze disseccano, ricordano nell’aspetto le lunghe trombe a tubo delle orchestre, donde il nome dialettale di Trummazzi ('trumma' = tromba).
Habitat
L`Onopordo cresce dalla zona basale fino a ca. 1200 m di altitudine, tra i ruderi, lungo i bordi di strada, negli incolti e soprattutto presso gli ovili.
Parti commestibili
Di questa spinosissima pianta si raccolgono essenzialmente il cespo di foglie basali ancora giovani e l’infiorescenza immatura. Il cespo basale (a troffa) viene sradicato con una zappetta, privato delle foglie più esterne coriacee lasciando solo quelle più interne alle quali si elimina la porzione distale. Si ottiene così un cespo pronto per una successiva manipolazione. Le infiorescenze (i cacucciuliddi), simili a quelle del Carciofo, si tagliano poco più sotto della base. In alcune località (Castiglione, Nicolosi) si usa raccogliere per fini alimentari anche la parte tenera dello scapo, vicina all`infiorescenza, così come si fa per i carciofi orticoli.
Uso alimentare
Lessi
Il cespo dell`Onopordo si lascia avvizzire (ammusciari) per diverse ore, in modo che le spine delle foglie perdano parte della pungolosità, quindi si elimina la lamina lasciando soltanto le carnose nervature mediane (coste). Questa operazione (fig. 7) va fatta foglia a foglia, servendosi di un coltello o di un paio di forbici. Infine, si elimina la radice troncandola al colletto. Si ottiene così un torso sormontato dalle coste fogliari, che si cucina nello stesso modo dei “carducci” dei Carciofi coltivati. Le infiorescenze dell`Onopordo, eliminate le foglie del gambo, vengono lessate in abbondante acqua; di esse si consumano le basi tenere e carnose delle squame, analogamente a quanto si fa con i Carciofi coltivati (Cynara cardunculus L. ssp. scolymus (L.) Hayek) e con quelli selvatici (Cynara cardunculus L.), i cosiddetti cacucciuliddi di chiana.
Commercio
ONOPORDO MAGGIORE
Diffusione
L’Onopordo è segnalato come pianta edule in diversi manuali italiani di fitoalimurgia (SCHÖNFELDEN e SCHÖNFELDEN, 1986, STEVENS, 1993).
Osservazioni
- Un test per le nozze Nella località etnea di Milo è antica credenza popolare che le ragazze nubili, in attesa di marito, usassero le infiorescenze dell`Onopordo per conoscere l’imminenza o meno delle proprie nozze. A tale proposito alla vigilia del giorno di S. Giovanni cercavano una di queste piante, ne troncavano un`infiorescenza non pienamente matura e la sotterravano in un luogo segreto. L`indomani, all`alba, dopo averla dissotterrata, la schiacciavano esaminandone attentamente il colore dei fiori. Se questi erano bianchi, il matrimonio era ancora lontano, se invece apparivano colorati era segno che si sarebbero sposate entro l`anno; l`imminenza o meno delle nozze era rapportata all`intensità della tinta.
Nomi dialettali
Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: non rilevato
Ragalna: Trummazzi

Porcellana

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Nome
PORCELLANA
Altri nomi volgari
Erba porcellana, Erba dei porci (perchè particolarmente appetita dai maiali), Procacchia, Erbagrassa, Sportellacchia, Portulacca.
Taxon
Portulaca oleracea L.
Famiglia
Portulacaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome latino con il quale veniva chiamata la pianta; esso sembra derivare da 'portula' = piccola porta, in riferimento alla deiscenza del frutto, mentre secondo alcuni (ERNOUT-MEILLET, 1967; CORTELLAZZO e ZOLLI, 1989) sarebbe da avvicinare paretimologicamannte a porcus nel senso di “genitali femminili” poiché adoperata nella medicina popolare dopo il parto. Il secondo termine deriva dal lat. oleraceus= pianta coltivata, per l’impiego alimentare della pianta.
Caratteri botanici
Pianta erbacea annuale, glabra, con fusti carnosi, ramosi, prostrati e diffusi, spesso arrossati, cavi all’interno e foglie spatolate, carnosette, quasi sessili. Da giugno a settembre produce piccoli fiori gialli, solitari o in gruppi, provvisti di un calice tubulare con 2 sepali e una corolla con 5 (4-6) petali obovati. Il frutto è una capsula fusiforme deiscente tramite un opercolo (pisside) e contenente numerosi piccoli semi.
Habitat
La Porcellana è molto diffusa negli incolti e come infestante delle colture irrigue (agrumeti, orti, ecc.).
Parti commestibili
Si raccolgono le giovani cime prelevate prima della fioritura.
Uso alimentare
Insalate
Nel territorio etneo l’uso della Porcellana non è molto diffuso. Essa viene consumata cruda in insalata, talora assieme a pomodoro e basilico. Lo scarso apprezzamento va probabilmente attribuito al sapore saligno e alla consistenza mucillaginosa non particolarmente appetibile.
Commercio
PORCELLANA
Diffusione
Se dalle nostre parti la Porcellana è scarsamente considerata, non è così nel resto dell`Italia (POMINI, 1959), né fuori dalla nostra Penisola. In Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Puglia e in altre regioni è ritenuta ottima verdura rinfrescante, depurativa e diuretica. Si consuma sia cruda che cotta. Cruda, si prepara in insalata, come da noi, o con il pomodoro e altri ortaggi; cotta si fa lessata e condita con olio e aceto, oppure fritta in olio bollente, previa immersione in una pastella composta da farina, uovo sbattuto e briciole di pane o, ancora, saltata in padella, come gli spinaci, insaporendola con aglio ed acciughe. Si aggiunge anche alle minestre e agli stufati, sfruttando la sua consistenza mucillaginosa che ha la proprietà di far restringere il brodo (NERI, 1990; INDRIO, 1981). In varie tradizioni fitoalimurgiche, le foglie di Porcellana si conservano sottaceto per poi impiegarle, al pari dei capperi, come contorno o antipasto (CHIEJ-GAMACCHIO, 1990). . Analogamente, i suoi rametti più carnosi, tagliati a pezzettini, si conservano in salamoia. Una testimonianza dell`ottimo credito di cui gode altrove questa verdura si riscontra nella consuetudine, assai diffusa nelle altre parti d’Italia quanto incredibile per noi, di coltivare la Porcellana come un qualsiasi altro ortaggio. Di questa pianta sono state selezionate cultivar dai fusti eretti, dalle foglie giganti e dal colore giallino (Portulaca oleracea L. subsp. sativa (Haw.) Celak.) che possiedono particolari caratteri gastronomici. Un recente trattato di orticoltura (BIANCO e PIMPINI, 1990) annovera la Porcellana fra le piante ortive. La Porcellana viene anche coltivata in Germania, Svizzera, Olanda e, soprattutto, in Francia dove viene spesso aggiunta a minestre, salse, burro alle erbe, carni, pesci e altre verdure.
Osservazioni
- La storia della Porcellana La Porcellana non è una pianta indigena dei territori circum-mediterranei, ma è originaria dell`Asia meridionale e già 2000 anni a.C. veniva coltivata in Mesopotamia. Da qui, come pianta ortiva, passò in Grecia e quindi a Roma, dove, fra gli altri, Varrone ne decantò le virtù alimentari. Durante il Medioevo si diffuse, poi, nel resto dell`Europa, venendo coltivata soprattutto negli orti dei monasteri. A causa delle eccezionali capacità riproduttive, la Porcellana sfuggì facilmente al controllo dell`uomo e ovunque si inselvatichì, divenendo assai comune e addirittura infestante. Attualmente, la Francia è la maggiore produttrice e consumatrice di diverse varietà orticole.
Nomi dialettali
Adrano: Purciddana
Belpasso: Pucciddana
Biancavilla: Puccillana
Bronte: Puccillana, Purcillana
Ragalna: Pucciddana

Porraccio

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Nome
PORRACCIO
Altri nomi volgari
Porrandello.
Taxon
Allium ampeloprasum L.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome latino che designava l`Aglio (Allium sativum L.), pianta affine al Porraccio. Esso sembra essere connesso al vocabolo celtico 'all' = bruciante, in riferimento all’odore e al sapore acre e pungente tipico dell`Aglio. Il secondo termine deriva dai vocaboli greci 'ampelos' = vite e 'prason' = porro, in allusione alla frequenza del Porraccio presso i vigneti e alla sua somiglianza con il Porro (Allium porrum L.)
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne caratterizzata da un bulbo ovoideo con tuniche membranose di colore giallastro le esterne, bianche le interne, dal quale, in inverno, si origina uno scapo cilindrico, alto fino a 50-70 cm provvisto di lunghe foglie lineari, ampiamente inguainanti che lo avvolgono fino a metà della sua lunghezza. Nei mesi di aprile-maggio, alla sommità dello scapo si sviluppa un`infiorescenza ad ombrella, densa, globosa, composta da numerosi piccoli fiori bianco-rosei e sottesa da una spata caduca e univalve.
Habitat
Si riscontra negli incolti aridi e ai bordi dei campi.
Parti commestibili
Si raccolgono sia il bulbo (a testa) che i novelli getti (u tenniru) delle foglie.
Uso alimentare
Aromi Minestre Condimenti
Il Porraccio viene impiegato soprattutto come aromatizzante. Nel territorio in esame, tale uso non è, al giorno d`oggi, molto frequente, mentre lo era qualche decennio fa. Si adoperava, principalmente, il bulbo per condire minestre, sughi e anche per insaporire il brodo di vitello e di pollo; anche le foglie tenere, tagliate a fettine e sbollentate, servivano per condire frittate. Un uso caratteristico del bulbo, ridotto a listelle, era come condimento delle cosiddette olive cunsate.
Commercio
PORRACCIO
Diffusione
Il Porraccio è utilizzato in alcuni piatti tipici della cucina toscana. Le guaine fogliari sono usate nelle minestre o nelle frittate, oppure crude, tagliate sottili, nelle insalate. Il bulbo si usa tritato per insaporire la carne, specialmente gli hamburger (RIGHI-PARENTI, 1985). In Maremma, è comune mangiare i bulbi di Porraccio crudi, con il prosciutto o la pancetta (CORSI e PAGNI, 1979a). Anche nel Veneto si fa uso dello scapo e delle foglie del Porraccio, ambedue tritati, per insaporire pietanze di vario genere.
Osservazioni
- Il Porro Dal Porraccio è derivato l`ortaggio noto con il nome Porro (Allium porrum L.), il cui uso, però, non è frequente nella cucina siciliana. Nel Porro, la selezione ha portato alla drastica riduzione del caule, ridotto a un disco dal quale si originano in basso numerose radici e in alto diverse foglie inguainanti formanti, nell’insieme, un falso fusto, detto impropriamente “bulbo”, esternamente di colore bianco; questo rappresenta la porzione commestibile della pianta (TESI, 1987) . Il Porro è usato come ingrediente per zuppe o per minestre oppure cucinato in umido. La sua coltivazione risale a tempi molto remoti; pare, infatti, che fosse conosciuto già dagli antichi Egizi (BIANCO e PIMPINI (1990). - Il sapore pungente Tutte le specie del genere Allium sono contraddistinte da un tipico odore e un sapore più o meno acre e pungente che pervade tutta la pianta ad eccezione dei fiori i quali, invece, sono spesso profumati; il caratteristico odore è prodotto da un olio essenziale, ricco di composti volatili solforati che si liberano per reazione enzimatica allorché i tessuti della pianta vengono lesi. In questo caso, infatti, l’enzima alliasi reagisce con un glucoside solforato, alliina, scindendolo in glucosio e disolfuri allilici. Il gruppo allilico presente può essere in prevalenza di tipo metilico oppure propilico (come nella cipolla) o propenilico (come nell’aglio); l’odore caratteristico, più o meno pungente, delle diverse specie dipende dalle quantità relative di questi differenti gruppi allilici nei tessuti della pianta.
Nomi dialettali
Adrano: Agghiu porru
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Agghiastru, Ghiastru
Ragalna: Agghiu porru

Pratolina

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Nome
PRATOLINA
Altri nomi volgari
Margheritina di prato, Fior di prato, Fior di primavera, Fior gentile, Primavera, Primofiore, Bellide, Bellide dei prati.
Taxon
Bellis perennis L.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome latino con cui, in generale, venivano indicate le margherite; esso deriva da bellus = grazioso, leggiadro, in riferimento al delicato aspetto dei capolini. Il secondo termine allude alla pluriannualità della pianta.
Caratteri botanici
Piccola pianta erbacea perennen provvista di una robusta radice fittonante e di una rosetta di foglie basali aderente al suolo. Dal centro della rosetta emergono, quasi tutto l`anno, scapi semplici, afilli, pubescenti, alla cui sommità si sviluppa un capolino costituito da fiori esterni ligulati, bianchi, arrossati di sotto durante l’inverno, e fiori interni tubulosi, gialli.
Habitat
La Pratolina cresce abbondantissima nei coltivi e negli incolti, dal livello del mare fino a ca. 2000 m di altitudine.
Parti commestibili
Nel nostro territorio si usa consumare le foglie tenere della rosetta basale, altrove anche i fiori.
Uso alimentare
Minestre
Nel territorio etneo, l’impiego alimentare è noto solo per la località di Linguaglossa, dove peraltro è attualmente in disuso. Si usava raccogliere le giovani foglie dell`Erba di primu ciuri per condire le minestre di legumi, nelle stagioni dell`anno in cui non crescevano altre verdure. Era, dunque, una pratica di ripiego, dovuta anche all’abbondante presenza della pianta nei noccioleti di questa località.
Commercio
PRATOLINA
Diffusione
Contrariamente al limitato uso alimentare della Pratolina nel territorio etneo, questa pianta è citata in quasi tutti i manuali di fitoalimurgia per la popolarità che ha nel resto d`Italia. Le giovani rosette fogliari vengono consumate sia cotte che crude. Cotte si fanno lessate come ingrediente di zuppe e minestre oppure come piatto di verdura; si fanno anche saltate in padella come ripieno di particolari focacce oppure frullate per salse adatte ai brasati di carne. Crude si consumano ancora tenere in insalata oppure si aggiungono alle insalate miste per insaporirle (POMINI, 1959). I capolini si mangiano interi, se piccoli, o separando i fiori del raggio e del disco, se grandi. Servono per preparare insalate di stagione e per stufati di carne con verdure (QUINCHE e BOSSARD, 1991). Indipendentemente dalla commestibilità, i capolini della Pratolina possono servire per decorare pietanze di vario tipo.
Osservazioni
- Sul nome Bellide. Il termine generico Bellis e quello volgare Bellide è legato al mito greco secondo il quale la ninfa Bellide, una Danaide, danzando con il suo amante, Efigeo, suscitò il desiderio di Vertumno, guardiano della primavera, il quale, in preda alla bramosia, si avventò sulla coppia. Efigeo, in difesa di Bellide, si scagliò contro il dio, ma ebbe la peggio; Bellide, allora, per sfuggire alle brame dell`aggressore, si tramutò in margherita (BELLI, 1993).
Nomi dialettali
Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Pungitopo

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Nome
PUNGITOPO
Altri nomi volgari
Brusco, Bruscanza, Ruscolo, Rusco, Rascogno, Pungiratto, Piccasorci, Pungiporci, Spinaporci, Spinafrutici, Scoparina, Caffè siciliano, Asparago bastardo, Spruneggio, Asparago pazzo.
Taxon
Ruscus aculeatus L.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome con cui gli antichi Romani chiamavano la pianta. il secondo si riferisce alla presenza cladodi appuntiti e pungenti.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne fornita di un robusto rizoma da cui si dipartono fusti legnosi, eretti, alti fino a 1 m, semplici alla base ma riccamente ramificati verso l`alto. Le vere foglie sono estremamente ridotte e caduche; la loro funzione è svolta da particolari rami appiattiti che prendono il nome di cladodi. Questi, lunghi 2-4 cm, hanno forma ovato-oblunga e terminano all’apice con una spina pungente. I fiori, unisessuali su piante dioiche, si formano sulla pagina superiore dei cladodi e sono piccoli e verdastri. Il frutto è una bacca globosa, di colore rosso, che persiste lungamente sulla pianta.
Habitat
E’ una pianta caratteristica dei boschi di leccio (Quercus ilex L.) e di caducifoglie, comune in tutto il territorio, particolarmente al Sud, dal livello del mare fino a ca. 1400 m d’altitudine.
Parti commestibili
Si raccolgono i nuovi getti (turioni) di colore bruno-violaceo che, in primavera, emergono dal terreno fra gli spinosissimi rami degli anni precedenti.
Uso alimentare
Lessi Frittate
I turioni del Pungitopo si consumano come gli Asparagi selvatici o coltivati, ma hanno un sapore più amarognolo e richiedono un maggior tempo di cottura. Per allontanare l`eccesso di sostanze amare si suole cuocerli in abbondante acqua. Una volta lessati, si mangiano conditi con sale, pepe, olio e succo di limone oppure si usano come ingredienti per le frittate.
Commercio
PUNGITOPO
Diffusione
La fortuna di questo erbaggio nella cultura gastronomica delle diverse regioni d`Italia è varia. In Lombardia, i getti del Pungitopo sono considerati una leccornia e vengono venduti in mazzetti presso i fruttivendoli a prezzi assai più elevati di quelli degli Asparagi coltivati e dello stesso Asparago pungente. Di contro, in Puglia, i turioni del Pungitopo sono tenuti in minor pregio rispetto a quelli degli Asparagi selvatici; sicché in questa regione essi sono poco ricercati dagli erborinatori.
Osservazioni
- Sull`etimologia dei nomi volgari Il nome volgare Pungitopo e affini (Pungiratto, Piccasorci, ecc.) derivano dalla pratica agricola (non attuata nella regione etnea) di disporre una corona di rami secchi di questa pianta ai piedi degli alberi da frutta per evitare che su di essi salgano i topi; analogo uso viene fatto nelle case di campagna del Veneto, dove ramaglie di Pungitopo vengono fissate ai piedi dei tavoli e delle dispense oppure nelle scaffalature sulle quali si allevano i bachi da seta. Il nome Brusco e derivati (Bruscolo, Bruscanza, ecc.) alludono al sapore amarognolo dei turioni; infatti 'brusco' si dice di cibo o persona aspra ma non sgradevole. - Sui nomi dialettali L`appellativo Sparacogna dato al Pungitopo costituisce un caso isolato nel panorama lessicale dell`Isola. Vari lessicografi ed etnobotanici (TRAINA, 1868; MORTILLARO, 1876; NICOTRA, 1883; NICOTRA-D’URSO, 1922; PENZIG, 1924; PITRÈ, 1939; ROLHFS, 1977; PIGNATTI, 1982; PROVITINA, 1990; POLI MARCHESE, 1991) riportano, infatti, la corrispondenza Sparacogna = Asparago pungente, mentre viene solo annotata la correlazione tra Spinapulici (e simili) e Pungitopo. A proposito di Spinapulici, PITRÈ (1939) ipotizza la glossogenesi del vocabolo, citando una credenza siciliana secondo la quale i rami di questa pianta “legati a piccoli mazzi si mettono sui pavimenti delle case perché si crede che facciano morire le pulci” (pulce = pulici). - L`impiego come scopa In varie regioni d`Italia i rami di Pungitopo sono adoperati per confezionare rustiche scope (PILOTTO e FRANCONERI, 1993). . Questo impiego è ancora vivo a Maletto dove con la pianta in questione si fanno le ramazze usate dalla Nettezza Urbana. Sempre a Maletto, le scope di Pungitopo venivano usate, con il nome di livigghia, per pulire l`aia dopo la trebbiatura, quando questa si faceva con il mulo. In altre parti d`Italia, e fuori dal nostro Paese, le scope di Pungitopo erano adoperate dagli spazzacamini per pulire le canne fumarie. - L`addobbo natalizio I rami di Pungitopo provvisti delle bacche rosse si regalano durante le feste natalizie e di fine anno con significato beneaugurale. Tale uso, purtroppo, è degenerato in un commercio incontrollato che sta provocando un depauperamento delle popolazioni, specialmente in quei territori dove il Pungitopo non è abbondante. Per questo motivo alcune regioni (Liguria, Lombardia e Trentino-Alto Adige) hanno emanato severe disposizioni per limitarne la raccolta. - Le bacche rosse La presenza di bacche rosse porta, alle volte, a confondere la pianta in questione con l`Agrifoglio (Ilex aquifolium L.), un arbusto sempreverde a foglie spinose e munito anch`esso di bacche rosse, che viene impropriamente chiamato Rusco o Pungitopo ed è impiegato durante le feste natalizie con lo stesso significato del Pungitopo. Le bacche di Pungitopo e quelle simili dell`Agrifoglio sono velenose e la loro ingestione può causare convulsioni. - Succedaneo del caffè I semi del Pungitopo, in tempi di magra, sono stati usati come succedanei del caffè dopo opportuna tostatura (CHIEJ-GAMACCHIO (1990). Da qui la strana denominazione di Caffè siciliano che viene data alla pianta. - Coltivazione Nelle zone della Penisola dove il Pungitopo è poco diffuso, esso è sottoposto a pratiche colturali. In alcuni casi viene coltivato a scopo ornamentale nei giardini per siepi e bordure. In altri casi gli erbaioli intervengono sulle piante selvatiche effettuando una sorta di forzatura, sfoltendo i cespugli o, addirittura, bruciandoli; in tal modo si favorisce una più precoce e copiosa produzione di turioni.
Nomi dialettali
Adrano: Spinapulici
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Bammuscittu (turione), Spinapruci (pianta)
Ragalna: Spinapulici

Radicchiella

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Nome
RADICCHIELLA
Altri nomi volgari
Radicchiella tirrenica.
Taxon
Crepis bursifolia L.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco con il significato di pantofola, pianella, forse per le foglie appressate al suolo. Il secondo termine discende dal latino medievale bursa = borsa e dal latino classico folium = foglia, in riferimento alle foglie della pianta con lamina un po’ concava, come una borsa.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne caratterizzata, in inverno, da una densa rosetta di foglie basali con margine profondamente diviso in segmenti dentati e mucronati all’apice e lamina leggermente crespa (da cui i nomi dialettali Rizzarella, Rizzaredda). In primavera, dal centro della rosetta emerge uno scapo eretto, gracile, semplice o poco ramificato in alto, con foglie assai ridotte, alla cui sommità si sviluppano svariati capolini di fiori gialli. Tutta la pianta contiene abbondante latice (da qui il nome vernacolo Ricuttella).
Habitat
Questa specie è comune negli incolti e nei coltivi, come pure nei centri urbani etnei, dal livello del mare fino a 1000 m di altitudine. E’ endemica della Sicilia, con popolazioni isolate nell’Argentario e a Gaeta; è avventizia nel Lazio, in Spagna, Francia, Tunisia e Dalmazia.
Parti commestibili
Il cespo delle foglie basali.
Uso alimentare
Lessi
Sebbene sia comunissima su ogni versante dell`Etna, non è apprezzata come erbaggio da tutti gli abitanti. Il suo uso alimentare è stato riscontrato solo a Randazzo, Maletto e Ragalna.
Commercio
RADICCHIELLA
Diffusione
Data la distribuzione geografica, questa specie è nota come pianta alimentare solo in Sicilia, dove è piuttosto comune. Il nome volgare Radicchiella è, in realtà, attribuito a tutte le specie del genere Crepis (una quarantina), presenti nell`Italia peninsulare. Fra queste, alcune (C. vesicaria L., C. leontodontoides All., C. pulchra L., ecc.) hanno interesse fitoalimurgico (CORSI e PAGNI, 1979b). In particolare, nel territorio etneo, C. leontodontoides (Radicchiella italica) viene raccolta insieme a C. bursifolia senza discriminazione. Le Radicchielle hanno un gusto delicato e vengono consumate crude in insalata (consumo non praticato nel territorio etneo) oppure lessate (ARIETTI, 1974).
Osservazioni
Nomi dialettali
Adrano: non rilevato
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: Rizzaredda

Rapastrello

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Nome
RAPASTRELLO
Altri nomi volgari
Ravastrello, Ravanello selvatico, Ramolaccio selvatico, Gramolaccio.
Taxon
Raphanus raphanistrum L. ssp. raphanistrum
Famiglia
Cruciferae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome con cui i Greci e i Latini chiamavano il Ravanello coltivato (R. sativus L. var. sativus); esso si può considerare derivato dal greco 'raphys' = rapa oppure da 'raphis' = rafide, ago, in riferimento alla forma allungata e sottile della radice. Il secondo ha uguale origine con l’aggiunta del suffisso astrum usato in latino con valore riduttivo, per indicare in questo caso la pianta selvatica.
Caratteri botanici
Pianta erbacea annuale, molto ramificata e ispida, dotata di una radice gracile e sottile e foglie inferiori lirato-pennatosette con segmento terminale slargato, le superiori ovali-lanceolate, dentate. Da marzo a giugno, produce fiori bianchi, venati di violetto. I frutti sono silique provviste di tipiche strozzature fra un seme e l`altro.
Habitat
Il Rapastrello è diffuso su tutto il territorio italiano, dove cresce dal livello del mare fino a ca. 1000 m di altitudine negli incolti e nei coltivi, soprattutto quelli seminativi.
Parti commestibili
Si raccolgono le cime (spicuneddi), le foglie ed il colletto (zona tra radice e fusto). Allo stadio giovanile il Rapastrello può essere confuso con altre giovani verdure mangerecce, quali il Cavolicello (Brassica fruticolosa Cyr.) e la Senape canuta (Hirschfeldia incana (L.) Lagreze-Fossat). Quest’ultima, detta in dialetto 'Amareddu', normalmente non cresce su terreno vulcanico, ma nelle zone di confine coi terreni sedimentari, dove i due erbaggi possono coesistere, la confusione è frequente per la notevole somiglianza; in certe località, difatti, l’ Amareddu è chiamato anche 'Razza marrali'.
Uso alimentare
Contorni Lessi
Tutte le parti del Rapastrello hanno un tipico sapore piccante che conferisce alla verdura un “carattere” deciso, attributo, però, non gradito a tutti. Le cime e le foglie più tenere si preparano saltate in padella e costituiscono un classico contorno per la salsiccia, così come avviene con il Cavolicello. Le stesse parti dell`erbaggio si preparano anche lessate e condite con olio. In qualsiasi modo venga cucinato, il Rapastrello è, tuttavia, considerato una verdura più rustica dell`affine Cavolicello; da qui il detto popolare a razza non fa cauliceddi, alludendo a una persona grossolana che non ha speranza di divenire raffinata oppure a una stirpe infima che inevitabilmente resta tale. Il colletto, abbastanza tozzo, si prepara tranciando la pianta alla radice e troncando le foglie verso la base; si ottiene così un torso che si consuma crudo insieme alla salsiccia, come si fa con i Ravanelli.
Commercio
RAPASTRELLO
Diffusione
In varie parti dell`Italia il Rapastrello è considerato pianta mangereccia, anche se rustica. Le foglie si utilizzano allo stesso modo degli spinaci, le radici come il ravanello (CORSI e PAGNI, 1979a). Anche le foglie crude, con aggiunta di olio, aceto e sale, sono un buon condimento in cucina (POMINI, 1959). Nel Montefeltro, con questa verdura si prepara la “pasta verde”, prelevando le foglie crude più tenere, tagliandole e mescolandole a lungo con la pasta appena scolata, aggiungendo olio d`oliva e formaggio grattugiato. Nel Lazio il Rapastrello è tenuto in gran considerazione e sovente si rinviene nei mercati. L`erbaggio è noto anche all`estero. Le popolazioni dell`Est europeo, ad esempio, amano il forte sapore pizzicante del Rapastrello per meglio gustare la birra; a tale scopo masticano le radici della pianta allo scopo di stimolare la sete (DE ROUGEMONT, 1990).
Osservazioni
- Il Ravanello Dal Raphanus sativus L., specie di origine incerta, forse ibrido fissato, coltivata e subspontanea, si sono selezionate alcune varietà orticole, tra cui il Ravanello (R. sativus L. var. sativus L. o R. sativus L. var. radicula Pers.) caratterizzato dall’ingrossamento del colletto, divenuto carnoso e edule; esso nelle diverse cultivar presenta forma, colore e sapore vari. - Il Rafano Il nome Rafano si riferisce ad una pianta mangereccia affine al Rapastrello, il Raphanus sativus L. var. niger Mill., detta anche Ramolaccio, caratterizzata dalla porzione del colletto ingrossata, carnosa e edule, sovente allungata e di colore da nero sino a bianco. Con lo stesso termine viene denominata anche la Armoracia rusticana Gaertner, Meyer & Scherb. (Cruciferae), pianta erbacea perenne con radice fittonante, allungata, carnosa, a polpa bianca e tegumento gialliccio. Si tratta di una specie ortiva, detta anche Cren o Barbaforte, coltivata nel Nord dell`Italia, la cui radice grattugiata viene utilizzata come condimento piccante. Per evitare equivoci sarebbe opportuno non utilizzare il termine Rafano, troppo generico, sostituendolo con i rispettivi sinomi sopra citati (DI VINCENZO, 1987; TESI, 1987).
Nomi dialettali
Adrano: Razza
Belpasso: Razza
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Razza
Ragalna: Razza

Romice scudato

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Nome
ROMICE SCUDATO
Altri nomi volgari
Acetosa romana, Acetosa francese, Acetosa tonda, Romice di monte.
Taxon
Rumex scutatus L.
Famiglia
Polygonaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è il nome con cui i Latini chiamavano la pianta; esso deriva da rumex con il significato di asta, lancia, in riferimento alla forma appuntita delle foglie di molte specie. Non ha consistenza la presunta derivazione da rumen riferita alla pratica che i Latini avevano di masticare le foglie dell`erbaggio. Il secondo termine allude alla forma delle foglie simili a uno scudo.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne, suffruticosa alla base, caratterizzata da fusti striscianti e rami ascendenti, lunghi fino a 60 cm, con foglie carnosette, cuoriformi, le inferiori lungamente picciolate. I fiori, riuniti in pannocchie terminali lasse, sono poligamo-monoici, penduli, con perianzio formato da due verticilli di 3 segmenti sepaloidei, di colore verdastro, screziati di rosso, gli interni persistenti nel frutto, i fiori maschili con 6 stami ad antere gialle, i femminili con ovario unico, trigono e 3 stili. Il frutto è un achenio provvisto di 3 ampie ali membranose, rossastre, a margine arrotondato. Tutta la parte aerea della pianta contiene discrete quantità di ossalato acido di potassio, responsabile del gusto acidulo, astringente.
Habitat
Il Romice scudato si rinviene in tutte le zone montuose dell’Italia, dove cresce sulle rocce, i ghiaioni e i vecchi muri, soprattutto su terreno calcareo. Sull’Etna, a quote più alte, dai 1750 m fino ai 3000 m di altitudine, si rinviene una forma endemica, la forma aetnensis, tipica delle sciare e delle sabbie vulcaniche, caratterizzata da un portamento ridotto, con foglie pubescenti, cuoriformi-rotondate, arrossate e pannocchia meno ramificata (POLI, 1991).
Parti commestibili
Sono considerate eduli le giovani cime degli steli arrossati e succosi con le foglie carnosette.
Uso alimentare
Insalate Linfe
Le popolazioni etnee usano staccare le cime del Romice scudato e masticarle per gustare il succo leggermente acidulo. Tale pratica è fatta più per passatempo che per scopo alimentare, anche se la linfa della pianta ha un ottimo effetto dissetante. Un`abitudine simile è praticata, soprattutto dai ragazzi, anche per l`Acetosella (Oxalis pes-caprae L.), specie della famiglia Oxalidaceae, a fiori gialli sorretti da un lungo peduncolo succulento; la pianta, chiamata in dialetto Acitazzu, è assai più acida del Romice, avendo un maggiore contenuto di ossalato. In alcune località etnee le cime del Romice si impiegano anche per insaporire le insalate.
Commercio
ROMICE SCUDATO
Diffusione
In varie parti d`Italia e d`Europa, il Romice scudato è apprezzato in cucina per il suo gusto acidulo e rinfrescante, molto più che nel nostro territorio. Particolarmente nota è una zuppa tipica della Francia, in cui esso si unisce al pomodoro e al brodo di pollo (BONAR, 1990). Generalmente si usano, come da noi, i nuovi getti, ma in passato venivano considerati eduli anche i fusti striscianti; questi venivano essiccati e adoperati, dopo averli torrefatti, come surrogato del caffè.
Osservazioni
- Le altre Romici Se il Romice scudato è considerato commestibile, nel resto dell’Italia lo sono ancor di più alcune specie congeneri, particolarmente l`Acetosa o Erba brusca (Rumex acetosa L.), la Romice acetosella (R. acetosella L.), il Lapazio (R. crispus L.), l`Erba pazienza (R. patientia L.) e la Romice comune (R. obtusifolius L.); nel nostro territorio, però, queste specie non vengono raccolte, sebbene siano presenti in estesi popolamenti ad eccezione del R. obtusifolius, che è peninsulare, e del più raro R. patientia. Si noti come, nelle specie appena citate, il secondo termine del binomio scientifico sia femminile in alcuni casi e maschile in altri; ciò si deve al fatto che il genere grammaticale di rumex è promiscuo (ERNOUT-MEILLET, 1967).
Nomi dialettali
Adrano: non rilevato
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: non rilevato
Ragalna: non rilevato

Salsapariglia

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Nome
SALSAPARIGLIA
Altri nomi volgari
Salsapariglia nostrana, Smilace, Strappabrache, Stracciacappe, Stracciabrache, Rovo-cervone, Rovo-cerrone, Salsa paesana, Salsa siciliana, Edera spinosa, Ellera spinosa, Erba del magnano.
Taxon
Smilax aspera L.
Famiglia
Liliaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio è una antichissima denominazione data alla pianta in Grecia, dove essa è largamente presente, riportata anche da Teofrasto (IV sec. a. C.), e attribuita da Linneo, nel 1737, all’intero genere; esso deriva dal greco 'smilé' = raschietto, in riferimento alla morfologia e alla spinosità delle foglie. Il secondo termine deriva dal latino 'asper' = scabro, pungente, per la presenza nella pianta di abbondanti spine.
Caratteri botanici
Pianta lianosa, perenne, sempreverde, provvista di lunghi fusti rampicanti, teneri e arrossati nelle parti giovani, legnosi a maturità, flessuosi, muniti di spine uncinate. Le foglie sono coriacee, sagittato-cordate, spinose ai margini e lungo la nervatura centrale, provviste di un picciolo tortuoso con due viticci laterali, lunghi e tenaci. I fiori, che compaiono da settembre a novembre, sono esameri, unisessuali su piante dioiche, piccoli, bianchi, profumati, riuniti in ombrelle sessili multiflore, raggruppate in grappoli ascellari e terminali. I frutti sono piccole bacche globose, di colore rosso, non commestibili ma innocue, che maturano nell’autunno successivo, contempora- neamente ai nuovi fiori.
Habitat
La Salsapariglia si rinviene nei boschi di Leccio (Quercus ilex L.), nella macchia, come pure nelle zone più aperte, nelle sciare, nelle siepi e sui muri a secco, dove sovente forma intricati cespugli. E’ comune in Liguria, nell’Italia centro-meridionale e nelle isole, rara nelle regioni settentrionali.
Parti commestibili
Si raccolgono i nuovi getti dei rami, in primavera, quando sono rossastri e tenerissimi; assomigliano un po’ ai turioni degli Asparagi ma, a differenza di questi, presentano giovanissime foglie con picciolo provvisto dei due viticci stipolari.
Uso alimentare
Stufati Lessi
Le giovani cime dei rami della Salsapariglia si preparano in cucina allo stesso modo degli Asparagi; hanno un sapore amarognolo piuttosto gradevole. L`uso alimentare della Salsapariglia non è, tuttavia, uniformemente diffuso nel territorio etneo; nel versante sud-orientale è una verdura apprezzata e ricercata, ma negli altri versanti le sue qualità alimentari sono quasi sconosciute.
Commercio
SALSAPARIGLIA
Diffusione
I manuali di fitoalimurgia editi in Italia non citano la Salsapariglia come pianta alimentare, ad eccezione di BRANCA (1991); ciò forse è dovuto alla ineguale diffusione della specie nel nostro Paese. Cenni sull`impiego alimentare di questa pianta si rinvengono, invece, in alcuni testi di autori stranieri concernenti la flora mediterranea (POLUNIN e HUXLEY, 1968; SCHÖNFELDEN e SCHÖNFELDEN, 1986).
Osservazioni
- Sui nomi volgari Fra i nomi volgari dati alla Smilax aspera il più diffuso è Salsapariglia. Il termine è di origine spagnola e deriva da zarza = arbusto (a sua volta derivato dall’arabo scharac) e parilla = piccola vite, in riferimento al portamento rampicante e alla presenza di viticci. La denominazione Salsapariglia nostrana distingue meglio questa specie dalle altre, non presenti in Italia. L’appellativo salsapariglia è utilizzato anche per indicare la droga estratta dalle radici di alcune specie, quali S. officinalis, S. medica, S. syphilitica, S. saluberrima, proprie dell’America centrale e meridionale; le radici di queste piante contengono un glucoside saponinico, la sarsaponina, nonché olî eterei, resine e altre saponine con proprietà toniche, sudorifere, antireumatiche, depurative e, secondo la tradizione popolare, antisifilitiche (MABEY, 1992). In realtà, poiché la Smilax aspera non possiede proprietà medicamentose, sarebbe più consono per non generare confusione utilizzare il termine Smilace, derivato direttamente dal nome greco della pianta e comunemente usato in Toscana. Esso risulta, tra l’altro, legato al mito secondo il quale le Baccanti, dovendo compiere i loro riti tersicorei e non trovando l`edera per ornarsi il capo, usarono i tralci di Smilace, che hanno foglie simili ma spinose. Quando la danza divenne più frenetica, le acuminate spine della pianta cominciarono a trafiggere la fronte delle Baccanti le quali iniziarono ad urlare e gesticolare in modo inconsulto, facendo degenerare il rito in un vero e proprio baccanale. I termini Stracciabrache, Strappabrache e Stacciacappe indicano le possibili conseguenze dovute alla presenza delle acuminate spine nella pianta.
Nomi dialettali
Adrano: Ugna di attu
Belpasso: Raja
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Ugna ri gattu, Strazzacammisi
Ragalna: Raja

Strigoli

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Nome
STRIGOLI
Altri nomi volgari
Bubbolini, Schioppettine, Schioppetti, Verzuli, Erba del cucco, Crepaterra, Mazzettone minuto.
Taxon
Silene vulgaris (Moench.) Garcke ssp. angustifolia (Miller) Hayek
Famiglia
Caryophyllaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio ha un`etimologia controversa. Secondo alcuni discenderebbe da Silenòs, nome dato nella mitologia greca ad un essere semidivino, compagno del dio Dioniso e padre dei Satiri, per metà uomo e metà cavallo, con ventre rigonfio, in riferimento al calice fiorale della pianta, che si presenta panciuto; secondo altri deriverebbe dal greco sialon = saliva, muco, per la sostanza bianca e appiccicosa presente nel fusto e nel calice fiorale di molte altre specie dello stesso genere (ad es. Silene italica (L.) Pers.); secondo altri ancora discende da Selene = luna, in allusione a quelle specie del genere che aprono i fiori di notte. Il secondo termine deriva dal latino con il significato di comune, per l’ampia distribuzione della specie.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne, glabra, caratterizzata da fusti cespitosi e legnosi alla base, articolati con nodi ingrossati, che seccano quasi del tutto durante la stagione calda. Le foglie sono opposte, in corrispondenza dei nodi, carnosette, lineari-lanceolate, di colore verde pallido; se stropicciate tra le mani, esse emettono un particolare crepitio o sfrigolio (da qui il nome volgare Strigoli), simile a quello prodotto stropicciando le foglie della Verza o Cavolo cappuccio (da cui il nome Verzuli). Sul finire della primavera, si sviluppano gli scapi alla cui sommità si formano i fiori, penduli, su peduncoli flessuosi, riuniti in cime, caratterizzati da un calice subcilindrico, rigonfio, con nervature verdastre, che ricorda una minuscola brocca o un palloncino fessurato, da cui il nome dialettale Cannatedda ('cannata' = brocca) e quello volgare Bubbolini; il bubbolo, infatti, è il noto sonaglio ('ciancianedda') di ottone sferico e fessurato.
Habitat
Gli Strigoli sono comuni su tutti i versanti del vulcano, dove crescono nei luoghi incolti soleggiati, presso i muri a secco dei coltivi e nelle sciare.
Parti commestibili
Si raccolgono le cime dei nuovi getti con i ciuffi di tenere foglie, che si formano dall`autunno alla primavera. Questi getti (spicuneddi) vanno prelevati prima della formazione degli scapi fiorali. Anche le foglie presenti sugli scapi sono buone da mangiare, raccolte quando sono ancora tenere. L’asportazione dei giovani getti non danneggia la pianta la quale, essendo perenne, si rinnova in continuazione e con facilità, fornendo così i suoi prodotti per tutta la stagione propizia. Gli Strigoli possono essere confusi con un’altra pianta simile nell’aspetto cespuglioso, nella forma delle foglie, nell’habitat e nel periodo vegetativo; si tratta della Valeriana rossa (Centranthus ruber (L.) DC.) detta in dialetto 'Sapunara'. Questa pianta non rientra nella tradizione gastronomica etnea, mentre nell`Italia centro-settentrionale e all’estero è considerata un ottimo erbaggio mangereccio.
Uso alimentare
Lessi Fritture
I getti novelli degli Strigoli sono una delle verdure più conosciute nella tradizione fitoalimurgica del nostro territorio, una vera leccornia anche per i palati più raffinati. Si usano lessati come componenti delle mesticanze, alle quali conferiscono un tono particolare, ma principalmente essi vengono sbollentati in acqua, mescolati alle uova sbattute con aggiunta di formaggio pecorino e pepe, quindi fritti sotto forma di polpette.
Commercio
STRIGOLI
Diffusione
L`uso alimentare delle cime e delle foglie degli Strigoli ha una diffusione nazionale. Nel Bresciano si fanno cuocere con pochissima acqua in pentola coperta e si servono come contorno di salumi cotti. Nella stessa regione si impiegano per saporiti risotti magri (ARIETTI, 1974). Nel Veneto sono ricercati per zuppe, minestroni e, specialmente, per le classiche minestre di riso e fritture d`erbe. In Toscana sono consumati cotti, a guisa degli spinaci, oppure adoperati per il ripieno delle torte senesi o delle torte salate lunigiane (CORSI e PAGNI, 1979a). In Romagna si utilizzano come colorante nella pasta verde, come aromatizzante nei tortellini di ricotta e per fare le tipiche piadine. A Rimini si adoperano per preparare insalate crude, pastasciutta e ravioli.
Osservazioni
- Le 'scattiole' Gli Strigoli sono legati ai ricordi infantili di molte persone, specialmente quelle vissute in campagna. I ragazzi (e non solo quelli siciliani) usavano fare le scattiole con i fiori di questa pianta; si chiudeva con le dita l`apertura del calice vescicoloso che, quindi, si schiacciava sul dorso della mano o sulla fronte, producendo un sonoro scoppio, da cui i nomi volgari di Schioppettini e Schioppetti.
Nomi dialettali
Adrano: Calicedda î mura
Belpasso: Cannatedda
Biancavilla: Calicedda di muru
Bronte: Ebba priricatura
Ragalna: Cannatedda

Tamaro

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Nome
TAMARO
Altri nomi volgari
Tanno, Cerasiola, Vite nera, Uva tamina, Viticella.
Taxon
Tamus communis L.
Famiglia
Dioscoreaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio fu tratto da Linneo da un antico nome latino usato da Plinio e da Columella per indicare un vitigno selvatico. Il secondo termine, invece, rimarca l`ampia diffusione e la frequenza di questa specie.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne caratterizzata da una radice tuberosa, allungata, carnosa, ricca di sostanze mucillaginose e da fusti rampicanti che si attorcigliano (in dialetto ca furríanu) in senso destrorso, sottili, flessuosi, glabri, lunghi fino a 4 m. Le foglie sono ampie e cuoriformi, con margine intero, arrotondate o acuminate all’apice, di colore verde lucido. I fiori, che compaiono tra aprile e maggio, sono unisessuali su piante dioiche, piccoli, di colore giallastro, con perigonio formato da 2 verticilli di 3 elementi sepaloidi; i maschili hanno 6 stami e sono riuniti in racemi ascellari allungati con fiori solitari o in fascetti di 2-3; i femminili hanno un ovario infero con stilo unico e 3 stimmi bilobati e sono riuniti in corti racemi (1 cm) di 3-5 fiori. I frutti maturano in ottobre, sono bacche carnose, globose, di colore rosso, lucide con punta scura, grandi come un pisello e disposte in grappoletti vistosi.
Habitat
Il Tamaro cresce in tutta Italia particolarmente nel sottobosco delle quercete, come pure nella macchia, nelle radure e nelle siepi, dal livello del mare fino a ca. 800 m di altitudine. Sull`Etna la specie si spinge fino a 1400 m di quota ed è abbastanza frequente su tutti i versanti ad eccezione di quello orientale dove, invece, è più raro.
Parti commestibili
Si consumano le porzioni apicali dei nuovi getti (turioni), emessi in primavera (fig. 9). Essi sono costoluti, di colore verde scuro tendente al marrone e rivestiti dagli abbozzi delle foglie; sono preferibili quelli prodotti dalle piante maschili perché sono più grossi. Durante la raccolta i turioni del Tamaro possono essere confusi con i getti di un’altra pianta, non alimentare, il Vilucchio (Calystegia sylvatica (Kit.) Griseb.), detto in dialetto 'Malocchiu', poiché i tralci delle due piante, nello stadio giovanile sono molto simili, anche se il Tamaro ha attorcigliamento destrorso mentre il Vilucchio perlopiù sinistrorso; a maturità le piante sono chiaramente dissimili.
Uso alimentare
Stufati Lessi
Il Tamaro contiene numerosi principi tossici (saponine, fenantrene, ecc.) presenti abbondantemente soprattutto nelle bacche. Nella parte edule della pianta, ovvero nei turioni, queste sostanze si rinvengono in quantità non rilevanti; esse per di più sono termolabili. I turioni del Tamaro hanno un sapore amaro-saligno e si cucinano allo stesso modo dei turioni dell’Asparago o del Pungitopo, previa sbollentata in abbondante acqua per attenuare il loro gusto acre.
Commercio
TAMARO
Diffusione
Mentre nel territorio etneo l`uso alimentare dei turioni del Tamaro è frequente, non è così nelle altri parti d’Italia dove quest`erbaggio, salvo qualche eccezione, è sconosciuto o non considerato commestibile. Ad esempio, in Lombardia, BERNINI et al. (1983) scrive che “se ne sconsiglia l`uso onde non incorrere in spiacevoli conseguenze”. In Toscana, CHIEJ-GAMACCHIO (1990) avverte che il loro “uso deve essere contenuto e la commestibilità è posteriore ad una lunga cottura che riduce il principio tossico”. In Romagna, CORBETTA (1991) suggerisce che “i principi, se non proprio velenosi quanto meno acri, contenuti nel Tamaro, costituiscono un buon motivo per consigliarne l`esclusione dalle raccolte di erbe ad uso commestibile”. In Puglia, RICCARDO (1921) dice che i turioni del Tamaro “contengono un principio acre e caustico sicché debbono essere cotti in varie acque per non produrre inconvenienti nell`apparato digerente”. Anche in Francia, FOURNIER (1961) scrive “devono essere consumati dopo sufficiente cottura e dopo aver cambiato l`acqua di bollitura, ma anche così facendo restano vomitivi e purgativi, almeno per certi individui”. POMINI (1956) riporta, invece, che i giovani virgulti vengono mangiati cotti come gli asparagi. Anche MARINONI (1985), afferma che nel Veneto “si mangiano tranquillamente i germogli del Tamaro, lessati ed insaporiti in padella o in frittata”.
Osservazioni
- Sui nomi dialettali. Il termine Virriceddu (e sue storpiature), riscontrato a Castiglione, probabilmente si riconduce a virrina, il succhiello del falegname, che ha un asse elicoidale, così come ha una volubilità elicoidale il fusto del Tamaro. I nomi Sparacognu, Sparacogni e Sparacuogna, riscontrati a Linguaglossa, Randazzo e Maletto, sono ambigui (BARBAGALLO et al., 1979) perché in molte altre località dell`Etna e della Sicilia, essi si riferiscono, in genere, all`Asparago pungente, mentre in altre si riferiscono al Pungitopo. - Sui nomi volgari. I nomi volgari Viticella, Vite nera e Uva tamina alludono ai frutti disposti in grappoli e all’aspetto dei fusti e delle foglie del Tamaro che ricordano quelle della Vite. Il termine Cerasiola richiama, invece, la colorazione rossa dei frutti. - Sugli effetti tossici e terapeutici. Come già detto il Tamaro contiene alcuni principi tossici ed irritanti presenti nelle bacche abbondantemente e anche nella radice. L’ingestione, in notevole quantità, provoca un avvelenamento che si manifesta con coliche, vomito e può portare alla morte (PRESS et al. 1983). La radice del Tamaro è anche ricca di amido, tannini, ossalato di potassio e istamina; da essa si ricava una droga che, usata a piccole dosi, ha proprietà aperitive, digestive, diuretiche e purgative. - Erba per le donne picchiate In Francia il Tamaro è noto come Herbe aux femmes battues, cioè erba per le donne picchiate (MAYR, 1990). Tale curiosa denominazione nasce dall`uso terapeutico della polpa grattugiata della radice del Tamaro applicata come impacchi su contusioni, ematomi e distorsioni. Le proprietà curative dipendono dalla presenza dell’istamina e dell’ossalato di potassio che agiscono stimolando la circolazione periferica.
Nomi dialettali
Adrano: Sparacogni
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: Sparacogni
Bronte: Sparacogna, Sparacogni
Ragalna: Sparaciu impiriali

Trinciatella

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Nome
TRINCIATELLA
Altri nomi volgari
Trinette, Radicchio selvatico, Spaccamontagna.
Taxon
Hyoseris radiata L.
Famiglia
Compositae
Etimologia
Il primo termine del binomio deriva dal greco 'hys,-os' = maiale e 'seris' = cicoria, cioè cicoria del maiale, per indicare che la pianta è particolarmente appetita dai maiali. Il secondo termine si riferisce alla disposizione radiale delle foglie basali.
Caratteri botanici
Pianta erbacea perenne caratterizzata da una grossa radice fittonante e da una rosetta di foglie basali, appressate al suolo e radiate, a lamina pennatosetta con 7-8 segmenti per lato a margine irregolarmente dentato, provviste sulla rachide di peli ispidi e patenti. In primavera, dal centro della rosetta emergono gli scapi fiorali, eretti ed afilli, alla cui sommità si sviluppano grossi capolini (diametro 4-4,5 cm) multiflori, con involucro cilindrico-campanulato formato da 7-8 squame lanceolate e fiori ligulati gialli, gli esterni con ligula sovente arrossata inferiormente.
Habitat
E’ una specie comune negli incolti, nelle rupi, sui muri a secco, i bordi di strada e nelle sciare, dal mare fino a ca. 1000 metri d’altitudine.
Parti commestibili
Gli scapi fiorali prima dell`antesi (prima di spampinari), nonché la rosetta di foglie basali.
Uso alimentare
Lessi Contorni
Si tratta di una verdura minore; pur essendo, infatti, reperibile con grande facilità, non viene ritenuta commestibile dalla maggioranza della popolazione. Solo a Randazzo si hanno notizie sul consumo del suo cespo di foglie. A Ragalna e Linguaglossa, invece, si cucinano gli scapi, bolliti e conditi con olio e limone oppure come contorno di frittate; qui, come pure a Castiglione, si usa anche masticarli assaporandone il succo dolcissimo.
Commercio
Diffusione
In Toscana e in Romagna le foglie basali sono adoperate come verdura cotta oppure aggiunte a minestre e zuppe. I fiori sono impiegati crudi nelle insalate miste. Sembra che in passato venissero utilizzate anche le radici tostate come surrogato del caffè (LONARDONI e LAZZARINI, 1993-94).
Osservazioni
- Su alcuni nomi volgari e dialettali I termini volgari Trinciatella e Trinette fanno riferimento alla morfologia delle foglie la cui lamina si presenta fortemente divisa ovvero “trinciata” (da cui Trinciatella) ricordando in qualche modo i merletti e le trine (da cui Trinette). La denominazione dialettale Buttuni ri gallu, invece, è utilizzata a Randazzo in allusione ad una somiglianza dei capolini ancora in boccio con i testicoli (buttuni) che vengono tolti ai galli trasformandoli in capponi.
Nomi dialettali
Adrano: non rilevato
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Ragalna: Cudduredda, Cudduruni

Vitalba

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Nome
VITALBA
Altri nomi volgari
Vincilleri, Fior di minuè.
Taxon
Clematis vitalba L.
Famiglia
Ranunculaceae
Etimologia
Il primo termine del binomio discende dal nome greco 'Klematis' con cui veniva indicata la pianta; esso deriva dal greco 'klema' = viticcio, pianta rampicante, in riferimento al portamento sarmentoso della pianta. Il secondo termine deriva, invece, dal latino 'vitis' = vite e 'albus' = bianco, cioè vite bianca, per l’aspetto che ricorda la vite e per la presenza di fiori bianchi.
Caratteri botanici
Suffrutice perenne, lianoso, volubili, fascicolati, lunghi fino a 15 m, e rami giovani erbacei, angolosi. Le foglie sono caduche, composte, imparipennate, con 3-5 foglioline ovali-lanceolate, lunghe fino a 6 cm, a margine talora dentato o lobato. I fiori, in pannocchie ascellari, sono bianco-verdastri, con petali ellittici, numerosi stami ed ovario formato da numerosi carpelli liberi, provvisti di un lungo stilo piumoso, persistente sul frutto. In autunno, i carpelli maturano in acheni fusiformi aggregati (poliachenio), piuttosto appariscenti e caratteristici per le lunghe appendici piumose ed argentee che li sormontano, originatesi per modificazione dello stilo persistente.
Habitat
La Vitalba si rinviene nei boschi di caducifoglie, nonché presso i muri e le siepi, dal livello del mare fino a ca. 1300 m di altitudine, in tutto il territorio nazionale.
Parti commestibili
Si raccolgono per uso alimentare le parti terminali dei getti teneri e succulenti (cimi î taddi), un po’ ramose con foglioline ancora abbozzate.
Uso alimentare
Insalate Lessi Soffritti Frittate
Come molte altre specie della famiglia Ranunculaceae, la Vitalba contiene, soprattutto nelle foglie, diversi principi tossici ed irritanti, quali l’alcaloide clematina, diverse saponine, glucosidi, resine, ecc (NEGRI, 1960). Tuttavia, nelle porzioni eduli, ovvero nei getti ancora giovani, tali sostanze sono presenti in quantità poco rilevanti; per di più, esse perdono gran parte della loro tossicità denaturandosi al calore. Si consiglia, pertanto, di sbollentare i teneri germogli prima di consumarli, anche se, talora, essi vengono mangiati direttamente saltati in padella o persino crudi in insalata. E’, comunque, preferibile non eccedere nel consumo. Nelle località in cui la pianta è apprezzata come erbaggio, i getti della Vitalba si cucinano lessi, soffritti in padella come gli asparagi oppure come ingrediente nelle frittate. Hanno un sapore che varia tra l`amarognolo e il saligno.
Commercio
VITALBA
Diffusione
I giovani getti della Vitalba sono conosciuti e consumati come verdura in tutta l’Italia.
Osservazioni
- Le liane resistenti Sembra che in passato, a Linguaglossa, le liane di Vitalba venissero adoperate come corde per le campane delle chiesette rurali in sostituzione di quelle di canapa, più pregiate e costose. Al di fuori del nostro territorio, i tralci di questa pianta venivano utilizzati, e forse lo sono tuttora, per intrecciare cesti, panieri e altri oggetti (come da noi si usano la canna e l`olmo). - Impiego vescicatorio Il succo ricco di sostanze irritanti, contenuto nelle porzioni mature della Vitalba, trovava in passato un singolare impiego, però assolutamente sconosciuto nel territorio in esame: i mendicanti si procuravano con esso ulcerazioni sul dorso delle mani allo scopo di impietosire i passanti. Tale succo, infatti, avendo proprietà revulsive, provoca la comparsa di vesciche e piaghe (CORSI e PAGNI, 1979a).
Nomi dialettali
Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio
Biancavilla: non rilevato
Bronte: Ligara
Ragalna: Liara