La Repubblica - Sahara, avanzata inarrestabile

Da Sotto le querce.

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Repubblica
Sahara, avanzata inarrestabile: è alle porte del Mediterraneo

Il deserto conquista terre al nord; e al sud le sue dune cancellano la savana. Dal 1920 al 2013 un milione di chilometri quadrati in più. Scatta l’allarme.

Testo di Matteo Marini - La Repubblica, 4 aprile 2018


Matteo Marini

4 aprile 2018

Il deserto conquista terre al nord; e al sud le sue dune cancellano la savana. Dal 1920 al 2013 un milione di chilometri quadrati in più. Scatta l’allarme.

Il Sahara si espande, sospinto dalla siccità. Ha conquistato terre a nord, spostando il suo confine verso la costa del Mediterraneo, e a sud, dove le dune strappano chilometri alle savane tropicali del Sahel. I ricercatori dell’Università del Maryland hanno scoperto che, nell’ultimo secolo, il deserto caldo più grande del mondo è cresciuto del dieci per cento. È grande quasi un milione di chilometri quadrati in più: quanto l’Italia e la Francia messe insieme. Lo studio, pubblicato sulla rivista Journal of Climate, tiene conto delle precipitazioni che si sono fatte più rare tra il 1920 e il 2013. In realtà, il Sahara si contrae e si espande ogni anno ma nei periodi caldi la sua superficie (dove cadono meno di 100 millimetri di pioggia all’anno) è aumentata addirittura del 16%. Dati alla mano, le estati si sono fatte sempre più calde e secche. E la responsabilità, almeno per un terzo, è dei cambiamenti climatici indotti dall’uomo.

Ieri e oggi
Nelle due mappe, a confronto l’estensione media delle aree desertiche durante l’estate e l’inverno nei 93 anni di osservazione del Sahara

«La ricerca corrobora in parte ciò che già sapevamo – spiega Antonello Pasini, fisico e climatologo Cnr, non coinvolto nello studio – il Sahara è soggetto a una variabilità naturale nei lunghi periodi. Ma il global warming sta allargando la cella equatoriale di circolazione, quella che porta alta pressione». È la “cella di Hadley” la responsabile del “bel tempo” e quindi assenza di piogge. E si spinge sempre più a nord, a scavalcare anche il Mediterraneo: «Ne faremo le spese anche noi se non blocchiamo le emissioni di gas serra. Pensiamo al Sud Italia dove c’è rischio desertificazione come in Puglia Basilicata e Sicilia», avverte Pasini.

A sud, verso i tropici, nella fascia del Sahel, il Sahara divora chilometri quadrati di savana. Qui gli effetti della presenza umana sono ancora più devastanti. Alle precipitazioni sempre più scarse, si aggiunge, infatti, la gestione sconsiderata delle risorse idriche. Basti pensare al lago Chad, che sta sparendo: «In questa fascia le città non sono pensate per assorbire acqua e non sono integrate con l’ambiente – è l’analisi di Pietro Laureano, architetto consulente Unesco per la desertificazione – inoltre i suoli sono sfruttati oltre il loro limite. Tutto questo ha portato allo spopolamento di migliaia di villaggi in Niger, Nigeria, Mauritania e Mali. E all’insorgere di conflitti». Non è un caso che proprio dall’Africa subsahariana partano gran parte dei migranti verso l’Europa: «L’acqua è la prima ragione di emigrazione – continua Laureano – senza acqua, il secondo giorno si parte perché il terzo si muore». Ma in un periodo non troppo remoto nella storia dell’umanità, il Sahara era “verde”, popolato, ricoperto di vegetazione e foreste. Il “green Sahara” era terra di passaggio e di migrazioni, dall’Africa oltre Mediterraneo. Una ricerca dell’Università La Sapienza ha ricostruito i movimenti di popolazioni che lo abitavano, tracciando una variante genetica arrivata nel nostro continente tra i 12.000 e i 5.000 anni fa.

Il clima che cambia e diventa estremo mette a rischio anche le oasi, piccole nicchie climatiche che invece, secondo Laureano, dovrebbero essere l’esempio di gestione sostenibile dell’acqua: «L’immagine che abbiamo delle oasi col laghetto è sbagliata. Quella è acqua pompata da faglie a 1.000 metri di profondità, un surplus di acqua malsana. Ci sono oasi che invece continuano a vivere con metodi arcaici, ma efficaci e sostenibili, di drenaggio con tunnel orizzontali che pescano solo l’acqua che serve. L’Africa è stata distrutta dal modello che continuiamo a esportare: quello fatto di grandi opere e dighe gigantesche. Bisognerebbe recuperare suolo proprio come si fa nelle oasi, attraverso piccoli progetti, che costano poco, utilizzando conoscenze locali, e ricostruire la catena di capacità di gestire il territorio».