La Lettura - Il lunghissimo Antropocene

Da Sotto le querce.

21 luglio 2019

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L’eco-filosofo Timothy Morton: basta dati e sermoni, spaventano

Contrapporre uomo e natura non ha senso

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Il filosofo Timothy Morton (Londra, 19 giugno 1968) è autore, tra gli altri titoli, di «Iperoggetti» (traduzione di Vincenzo Santarcangelo, Nero, 2018); «Noi, esseri ecologici» (traduzione di Giancarlo Carlotti, Laterza, 2018); «Dark Ecology» (Columbia University Press, 2016)

Federica Colonna

Docente alla Rice University di Houston, Texas, Timothy Morton è uno dei pensatori più eclettici e immaginifici sui temi ambientali. Il suo obiettivo filosofico? Smontare l’ambientalismo per come lo conosciamo oggi—inefficace e terrorizzante, spiega—superando il dualismo uomo-natura.

Parlare di ambientalismo è parlare di natura, ma lei suggerisce di liberarci di questa idea. Come possiamo pensare un ambientalismo senza natura? 
«Siamo tutti parte della stessa biosfera. La distinzione tra umano e non umano, “cultura versus natura”, è una sovrapposizione concettuale. Non significa nulla da un punto di vista logico e viene usata solo per scopi negativi, per distinguere forme “naturali” e “innaturali” di genere e sesso. L’evoluzione non lo fa affatto».
Il tema chiave del discorso pubblico ambientalista è il cambiamento climatico - una catastrofe in termini di spazio e di tempo. Lei lo descrive come «iperoggetto». Che cosa significa? 
«Immaginiamo tutta la plastica mai prodotta e per tutto il tempo che durerà. Talvolta assume la forma delle forchette, che poi si ammucchiano in discarica o in parte finiscono in pancia ai pesci. Ecco un iperoggetto - qualcosa così massicciamente distribuito nel tempo e nello spazio che è davvero difficile da individuare tutto in una volta su una scala di grandezza umana».
Trattiamo di solito questo iperoggetto con uno stile comunicativo preciso, basato su dati e raccomandazioni. Lei definisce queste informazioni «fattoidi» - numeri che ci fanno sentire in colpa. Funzionano? 
«Non bene. Dobbiamo trattare le notizie ambientali come le altre. Basta con i numeri e con i sermoni - non è una buona combinazione quella tra informazioni brutali e richieste impossibili. È come se invece di stimolare le persone a pensare le volessimo traumatizzare. Ma odio sentirmi sconvolto, non riesco a pensare».
Se politica, stampa e istituzioni con il loro linguaggio non ci aiutano, come può farlo la filosofia e come può diventare lo strumento per sviluppare una coscienza ecologica? 
«Filosofia significa amore per la saggezza. La parte sentimentale della definizione è la più importante. Quando ami qualcuno gli permetti di essere un mistero. Non hai bisogno di essere onnisciente, onnipotente o onnipresente nella sua vita. La filosofia può aiutarci perché permette alle cose di essere spontanee, come l’amore. Amore e filosofia al loro meglio consentono un futuro autentico, non quello statisticamente probabile, ma la possibilità che tutto possa cambiare. Possiamo modificare anche il modo in cui parliamo dei temi che ci terrorizzano con uno sforzo, diventando più consapevoli di come funziona la mente. È il bello della filosofia: ci aiuta a capire che il come è tanto importante quanto il cosa pensiamo. Il punto è che talvolta le soluzioni sono troppo facili, ma continuiamo a cercare altrove. E se fosse questo uno dei grandi problemi per la consapevolezza ecologica?».
Anche la cultura pop serve all’ecologia. Prendiamo «Star Wars» - lei fa riferimento alla Forza come profondo senso di connessione e rispetto. Come questa analogia può aiutarci? 
«Quasi nessuno mi prende sul serio quando parlo di Star Wars o del Muppet Show. Ma c’è un punto interessante - abbiamo speso migliaia di anni nella civiltà occidentale negando l’esistenza di esperienze come telepatia e chiaroveggenza. Cosa succederebbe se le considerassimo vere? Non voglio che ci crediate, ma che pensiate a come vi farebbe sentire il solo fatto di crederci. Se avessimo fiducia in qualcosa di simile alla Forza le nostre vite sarebbero diverse, diventeremmo più spensierati, smetteremmo di credere che “vero” e “falso” siano davvero concetti così differenti. Le culture indigene sembrano meno rigide rispetto a questa dicotomia. E fortunatamente lo sono anche le più sofisticate forme di logica conosciute nel mondo occidentale».

L’eco-filosofo Timothy Morton: basta dati e sermoni, spaventano

Contrapporre uomo e natura non ha senso

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Il filosofo Timothy Morton (Londra, 19 giugno 1968) è autore, tra gli altri titoli, di «Iperoggetti» (traduzione di Vincenzo Santarcangelo, Nero, 2018); «Noi, esseri ecologici» (traduzione di Giancarlo Carlotti, Laterza, 2018); «Dark Ecology» (Columbia University Press, 2016)

Federica Colonna

Docente alla Rice University di Houston, Texas, Timothy Morton è uno dei pensatori più eclettici e immaginifici sui temi ambientali. Il suo obiettivo filosofico? Smontare l’ambientalismo per come lo conosciamo oggi—inefficace e terrorizzante, spiega—superando il dualismo uomo-natura.

Parlare di ambientalismo è parlare di natura, ma lei suggerisce di liberarci di questa idea. Come possiamo pensare un ambientalismo senza natura? 
«Siamo tutti parte della stessa biosfera. La distinzione tra umano e non umano, “cultura versus natura”, è una sovrapposizione concettuale. Non significa nulla da un punto di vista logico e viene usata solo per scopi negativi, per distinguere forme “naturali” e “innaturali” di genere e sesso. L’evoluzione non lo fa affatto».
Il tema chiave del discorso pubblico ambientalista è il cambiamento climatico - una catastrofe in termini di spazio e di tempo. Lei lo descrive come «iperoggetto». Che cosa significa? 
«Immaginiamo tutta la plastica mai prodotta e per tutto il tempo che durerà. Talvolta assume la forma delle forchette, che poi si ammucchiano in discarica o in parte finiscono in pancia ai pesci. Ecco un iperoggetto - qualcosa così massicciamente distribuito nel tempo e nello spazio che è davvero difficile da individuare tutto in una volta su una scala di grandezza umana».
Trattiamo di solito questo iperoggetto con uno stile comunicativo preciso, basato su dati e raccomandazioni. Lei definisce queste informazioni «fattoidi» - numeri che ci fanno sentire in colpa. Funzionano? 
«Non bene. Dobbiamo trattare le notizie ambientali come le altre. Basta con i numeri e con i sermoni - non è una buona combinazione quella tra informazioni brutali e richieste impossibili. È come se invece di stimolare le persone a pensare le volessimo traumatizzare. Ma odio sentirmi sconvolto, non riesco a pensare».
Se politica, stampa e istituzioni con il loro linguaggio non ci aiutano, come può farlo la filosofia e come può diventare lo strumento per sviluppare una coscienza ecologica? 
«Filosofia significa amore per la saggezza. La parte sentimentale della definizione è la più importante. Quando ami qualcuno gli permetti di essere un mistero. Non hai bisogno di essere onnisciente, onnipotente o onnipresente nella sua vita. La filosofia può aiutarci perché permette alle cose di essere spontanee, come l’amore. Amore e filosofia al loro meglio consentono un futuro autentico, non quello statisticamente probabile, ma la possibilità che tutto possa cambiare. Possiamo modificare anche il modo in cui parliamo dei temi che ci terrorizzano con uno sforzo, diventando più consapevoli di come funziona la mente. È il bello della filosofia: ci aiuta a capire che il come è tanto importante quanto il cosa pensiamo. Il punto è che talvolta le soluzioni sono troppo facili, ma continuiamo a cercare altrove. E se fosse questo uno dei grandi problemi per la consapevolezza ecologica?».
Anche la cultura pop serve all’ecologia. Prendiamo «Star Wars» - lei fa riferimento alla Forza come profondo senso di connessione e rispetto. Come questa analogia può aiutarci? 
«Quasi nessuno mi prende sul serio quando parlo di Star Wars o del Muppet Show. Ma c’è un punto interessante - abbiamo speso migliaia di anni nella civiltà occidentale negando l’esistenza di esperienze come telepatia e chiaroveggenza. Cosa succederebbe se le considerassimo vere? Non voglio che ci crediate, ma che pensiate a come vi farebbe sentire il solo fatto di crederci. Se avessimo fiducia in qualcosa di simile alla Forza le nostre vite sarebbero diverse, diventeremmo più spensierati, smetteremmo di credere che “vero” e “falso” siano davvero concetti così differenti. Le culture indigene sembrano meno rigide rispetto a questa dicotomia. E fortunatamente lo sono anche le più sofisticate forme di logica conosciute nel mondo occidentale».
Telmo Pievani


Si definisce Antropocene l’epoca — questa — dominata dalla presenza devastante di Homo sapiens. È una storia brevissima per la geologia e lunga per l’umanità. Ma quanto lunga? Risale a 11.650 anni fa, con le prime produzioni agricole? O al 1610, quando l’anidride carbonica scende comemai più farà dopo? O alla Rivoluzione industriale? O al 16 luglio 1945, con l’avvio dell’era atomica? Ora, mentre gli scienziati litigano sulla data d’origine, è utile sapere che di questo passo s’avvicina la data di scadenza.


Quando gli archeologi del futuro si metteranno a scavare nel sottilissimo strato che corrisponde alla nostra epoca rimarranno di stucco. In un millimetrico battito di ciglia geologico, si accorgeranno che una sola specie, con le sue attività minerarie, ha spostato più sedimenti di tutti i fiumi della Terra. Quella stessa specie, immettendo gas serra in atmosfera, ha scaldato il pianeta e gonfiato il livello dei mari. E poi: ha acidificato gli oceani, frammentato gli habitat, decretato il successo di poche specie ed estinto quasi la metà di tutte le altre. Ciascuna di queste azioni avrà lasciato un segno indelebile sulla superficie terrestre. Homo sapiens è diventato una forza della natura. Riflettendo su questo fatto, nel 2002 il chimico Paul Crutzen, premio Nobel sette anni prima per i suoi studi sullo strato di ozono, propose quasi per gioco, dopo un convegno a Cuernavaca in Messico, di dare un nome alla «geologia dell’umanità». Insieme all’ecologista Eugene Stoermer, su «Nature» coniò un termine tanto semplice quanto eloquente: «Antropo-cene», cioè l’«epoca recente dominata dall’umanità».

In realtà, di «era antropozoica» si discuteva già dall’Ottocento in Inghilterra, con il sottofondo degli sferragliamenti della rivoluzione industriale, in Russia, in Francia e in Italia grazie all’abate geologo Antonio Stoppani, che definiva l’uomo «una nuova forza tellurica». Senza nulla togliere a questi precursori, è solo da qualche decennio che è cresciuta la consapevolezza critica sul significato dell’Antropocene: adesso sentiamo il bisogno di dare un nome alla Cosa.

Bibliografia
Una sintesi dei problemi posti dall’Antropocene è contenuta nel libro di Simon L. Lewis e Mark A. Maslin Il pianeta umano (traduzione di Simonetta Frediani, Einaudi, pagine XXII-384, e 32). È uscito da poco il saggio di Christophe Bonneuil e Jean- Baptiste Fressoz, La terra, la storia e noi (traduzione di Agnese Accattoli e Andrea Grechi, Treccani, pagine XVII- 367, e 27). Da segnalare anche: John R. McNeill, Peter Engelke, La grande accelerazione (traduzione di Chiara Veltri, Daniele Cianfriglia e Francesco Rossa, Einaudi, 2018); Gianfranco Pellegrino, Marcello Di Paola, Nell’Antropocene (DeriveApprodi, 2018).

La International Commission on Stratigraphy ha preso sul serio la questione e nel 2009 ha istituito un gruppo di lavoro, coordinato dal geologo di Leicester Jan Zalasiewick — composto non solo da geologi, ma anche da archeologi, geografi, scienziati del sistema Terra e storici—per valutare se sia davvero il caso di introdurre ufficialmente l’Antropocene nell’immensa scala del tempo geologico, quel monumento dell’intelletto umano che sta appeso in tutte le aule scolastiche insieme alla tavola periodica degli elementi.

Il compito si è rivelato però assai più difficile del previsto. Gli scettici lamentano che l’Antropocene è diventato un tema politicizzato e troppo pop, meglio lasciar perdere. Sono soprattutto i problemi tecnici a preoccupare. L’epoca in geologia è la quarta suddivisione del tempo, dopo eoni, ere e periodi. Per definirne i confini, bisogna trovare un segno netto, perenne e globale nei sedimenti (gli esperti lo chiamano «chiodo d’oro»), che sia rintracciabile in modo inequivocabile dagli scienziati del futuro tra milioni di anni.

✽ ✽ ✽

E allora, da dove far cominciare l’Antropocene? Crutzen non ebbe dubbi: dalla rivoluzione industriale tra Sette e Ottocento e dai suoi effetti sulla composizione dell’aria. Lo dicono le carote di ghiaccio antartiche che misurano i livelli di anidride carbonica nel passato. Da due secoli a questa parte, un combinato disposto di uso di combustibili fossili e deforestazione sta facendo schizzare i gas serra a livelli mai raggiunti negli ultimi 800 mila anni, con il risultato che stiamo rinviando sine die il naturale arrivo della prossima glaciazione.

Anche il Gruppo di lavoro sull’Antropocene inizialmente fece sua questa opzione. Tuttavia, ben prima delle fabbriche inglesi, le attività agricole già avevano modificato radicalmente la superficie terrestre e l’atmosfera. Nei sedimenti a partire da 11.650 anni fa troviamo un elenco di indizi: erosione dei terreni, semi e pollini di piante coltivate, montagne di ossa di animali allevati, più metano e anidride carbonica in atmosfera. Se lo arretriamo così, l’Antropocene va però a sovrapporsi all’Olocene, quindi non aggiungeremmo un nome nuovo ma ne sostituiremmo uno già esistente, peraltro introdotto nel 2008 dopo mille controversie. Un bel pasticcio.

Altri guardano più vicino e pensano che la grande accelerazione delle attività umane con impatto geofisico sia avvenuta dopo il 1945, con le enormi dighe, l’uso massiccio di fertilizzanti, la diffusione della plastica, il consumo di acqua e petrolio, la crescita della popolazione. A favore di questa datazione vi è anche un terribile marcatore globale: il fallout radioattivo prodotto dall’esplosione delle bombe atomiche, due sganciate sulla popolazione in Giappone e altre 500 almeno fatte brillare nei test fino al picco del 1963.

Il gruppo votò a favore di questa scelta nel 2015, indicando come data quella del Trinity Test nel deserto del New Mexico, il 16 luglio 1945. La proposta fu però contestata dalla comunità scientifica e nacquero anche divisioni interne. Da allora si sono succedute esternazioni confuse e contraddittorie. Non se ne viene a capo.

Quando far esordire l’Antropocene non è questione di lana caprina. Se lo riteniamo antichissimo, siamo ineccepibili dal punto di vista evoluzionistico perché Homo sapiens è una superpotenza biologica e geologica almeno da quando ha controllato il fuoco, da quando poi ha colonizzato tutti i continenti tranne l’Antartide portando all’estinzione intere faune di grandi mammiferi in Australia e nelle Americhe, e sicuramente da quando ha imparato ad addomesticare piante e animali. Questi marcatori però non sono precisi. Inoltre, così ci esponiamo al rischio di pensare che siccome lo facciamoda sempre allora sia normale. Siamo umani in quanto perturbatori dell’ambiente che ci circonda e finora ci è andata bene: perché preoccuparsi?

Se invece facciamo iniziare l’Antropocene tardi, con la rivoluzione industriale o con le bombe atomiche, evidenziamo più efficacemente l’accelerazione inusitata dell’impatto umano negli ultimi secoli o decenni: non era mai successo in 3,75 miliardi di anni di evoluzione che una specie da sola fosse capace di trasformazioni ecologiche così pervasive. I marcatori recenti sono più netti, però corriamo un rischio opposto al precedente: ritenere che la storia umana sia uscita da una lunga età dell’oro di presunta armonia con l’ambiente, per mettersi ora a correre verso l’abisso sotto l’effetto narcotizzante del progresso. In un’ottica di lungo periodo, la dicotomia tra «buon selvaggio» e «civiltà depravata» non regge, il che però non implica che si debba sottostimare quanto sta avvenendo. Se un certo comportamento si è evoluto anticamente in una specie, non per questo esso è automaticamente una buona strategia oggi. Aver fatto qualcosa da sempre non significa che sia giusto farlo, né che ci convenga. Forse sbagliamo da sempre e solo di recente questo sbaglio comincia a costare caro.

Gli scienziati della Terra Simon Lewis e Mark Maslin, dello University College di Londra, in un documentato libro dal titolo Il pianeta umano (Einaudi) propongono un’altra data ancora: il 1610, l’anno in cui l’anidride carbonica in atmosfera scese come mai più farà dopo. Un segno sinistro. Le lame d’acciaio e le malattie euroasiatiche avevano sterminato 50 milioni di amerindi in pochi decenni, pari al 10% della popolazione mondiale. In seguito al massacro, i campi coltivati delle regioni tropicali americane erano stati per un po’ restituiti alle foreste, cosicché gli alberi in rigogliosa crescita sulle macerie avevano sequestrato i gas serra rinfrescando il pianeta.

Dopo il 1610, la globalizzazione dei commerci e i profitti dell’economia mondiale detteranno l’agenda e avrà inizio il vero Antropocene. Le due grandi transizioni successive — cioè la rivoluzione industriale della macchina a vapore alimentata a carbone, prima; l’industrializzazione globale novecentesca, poi — consolidarono un processo già avviato. Secondo Lewis e Maslin, il dibattito sull’«epoca umana» è così acceso proprio perché mescola scienza, politica e ambientalismo.

✽ ✽ ✽

Antropocene infatti non significa soltanto cambiamento climatico. Si tratta di un processo composito che riguarda il sistema Terra nella sua interezza. Contribuiscono tendenze diverse, dalla crescita delle temperature medie all’impoverimento degli ecosistemi e al crollo della biodiversità. Le dinamiche del fenomeno sono così vaste e imprevedibili perché frutto delle interazioni moltiplicative fra tutti i processi messi assieme. Essendo ampio, nel tempo e nello spazio, e con effetti locali disorientanti (un maggio freddo e piovoso come conseguenza di un riscaldamento medio generale), l’Antropocene è un oggetto difficile per noi da concepire.

Le specie, se lasciate a sé stesse senza limiti, tendono a moltiplicarsi a dismisura. Noi stiamo facendo lo stesso, è l’istinto fondamentale della vita. La specie umana, per propria inventiva, ha imparato a consumare indefinitamente le risorse del pianeta. E allora succede come quando un’alga invasiva colonizza un lago eutrofizzato o i batteri invadono una piastra piena di nutrimento: proliferano. Dopo di che, o si trova un modo per produrre energia illimitata, tirando fuori il coniglio dal cilindro della creatività tecnologica umana, o le risorse finiscono e arriva il collasso. La differenza tra noi e le alghe è che noi lo sappiamo, che di solito va a finire così. Quando l’Antropocene mostrerà la sua faccia cattiva, nessuno potrà usare l’ignoranza, o la natura matrigna, come scusa per non aver fatto abbastanza.