Jorn de Précy

Da Sotto le querce.

Vedi anche: Domenica 24, Il giardino dei fiori selvaggi
Marco Martella è storico dei giardini. Vive e lavora a Parigi, dove ha fondato nel 2010 la rivista Jardins sulla filosofia e la poetica del giardino. Ha pubblicato con lo pseudonimo Jorn de Précy, E il giardino creò l’uomo (Ponte alle Grazie, 2012), e con quello di Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra (Ponte alle Grazie, 2015).
Marco Martella è storico dei giardini. Vive e lavora a Parigi, dove ha fondato nel 2010 la rivista Jardins sulla filosofia e la poetica del giardino. Ha pubblicato con lo pseudonimo Jorn de Précy, E il giardino creò l’uomo (Ponte alle Grazie, 2012), e con quello di Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra (Ponte alle Grazie, 2015).

E il giardino creò l’uomo

Un manifesto ribelle e sentimentale per filosofi giardinieri.

2012

Martella giardino.jpg

incipit«Ecco l’ennesimo trattato scritto da uno dei nostri aristocratici, giardiniere dilettante e proprietario di un parco immenso, per rifilarci le sue bizzarre idee sui giardini!»
Mi sembra già di sentirli, i commenti del lettore che sfoglia questo opuscolo, raccolto sullo scaffale della libreria. Commenti veri e falsi nello stesso tempo. Falsi, perché io non appartengo né all’aristocrazia inglese, né – come spesso il mio nome fa credere – a quella francese. Sono nato più di settant’anni fa a Reykjavik, in Islanda, isola che ho lasciato a diciotto diretto in Inghilterra, la patria dei giardini. Veri, perché sono, sì, un «giardiniere dilettante», titolo di cui vado fiero. Quanto al mio parco, che si estende per appena quattro ettari, si trova nell’Oxfordshire: è il giardino di Greystone, di cui avrete certamente sentito parlare se l’arte dei giardini v’interessa anche solo un poco. Infine, per ciò che concerne le mie idee sul giardinaggio, lo ammetto: anche a me, talvolta, suonano leggermente bizzarre.
incipit«Ecco l’ennesimo trattato scritto da uno dei nostri aristocratici, giardiniere dilettante e proprietario di un parco immenso, per rifilarci le sue bizzarre idee sui giardini!»
Mi sembra già di sentirli, i commenti del lettore che sfoglia questo opuscolo, raccolto sullo scaffale della libreria. Commenti veri e falsi nello stesso tempo. Falsi, perché io non appartengo né all’aristocrazia inglese, né – come spesso il mio nome fa credere – a quella francese. Sono nato più di settant’anni fa a Reykjavik, in Islanda, isola che ho lasciato a diciotto diretto in Inghilterra, la patria dei giardini. Veri, perché sono, sì, un «giardiniere dilettante», titolo di cui vado fiero. Quanto al mio parco, che si estende per appena quattro ettari, si trova nell’Oxfordshire: è il giardino di Greystone, di cui avrete certamente sentito parlare se l’arte dei giardini v’interessa anche solo un poco. Infine, per ciò che concerne le mie idee sul giardinaggio, lo ammetto: anche a me, talvolta, suonano leggermente bizzarre.

Genius loci

I Romani erano convinti che ogni luogo fosse abitato da un genio, un genius loci, divinità minore garante dell’identità del luogo stesso, della sua singolarità. «Nullus enim locus sine genio est» diceva il poeta Servio, «Non vi è luogo senza il suo genio». Così, quando ci si voleva stabilire in un posto, il Romano doveva innanzitutto interrogare il genio che vi risiedeva, negoziando per averlo a tutti i costi dalla sua parte. Dispiacere alla piccola divinità equivaleva a votare la futura casa alla catastrofe. Bisognava dunque iniziare dalla comprensione del sito sul quale sarebbe stata costruita: mettersi in ascolto, osservare, prendere nota delle caratteristiche del terreno e registrare il volo degli uccelli sopra di esso, penetrare al di là delle apparenze lo spazio misterioso in cui il divino si celava. Pur essendo guerrieri e ingegneri, i Romani sapevano che bisogna dar prova di umiltà di fronte al mondo, che non si entra mai in un posto da conquistatori, ma da invitati. Per loro, come per tutti i popoli antichi, la peggiore delle catastrofi sarebbe stata vivere su una terra abbandonata dagli dèi, spogliata del sacro, privata del senso, e quindi inospitale.

Il giardiniere animista

Noi abbiamo perduto il diritto di credere alle divinità del luogo.

Vi sono però dei momenti, nelle nostre vite, in cui, inavvertitamente, lo facciamo. Parlo evidentemente dei momenti in cui ci dedichiamo al giardinaggio; perché esiste una strana forma di credenza, che io chiamo «animismo del giardiniere».

Il giardiniere – che sia il proprietario di un parco o l’orticoltore della domenica di qualche sobborgo di grande città – si rende conto di essere un «essere vivente» in mezzo a «esseri viventi». Mediante ciò che fa, rinnova il legame perduto con il selvaggio che sonnecchia nell’uomo civilizzato. Di fronte alla bellezza e al mistero del fenomeno naturale riscopre senza sosta il senso del sacro, come gli uomini primitivi. Sa che non è solo a lavorare nel suo giardino. Sì, qualunque cosa si accinga a fare – piantare un nuovo albero o seminare una nuova varietà di insalata – è subordinata a volontà superiori spesso imprevedibili, che possono modificare la direzione del vento, far scendere o salire le temperature, introdurre all’improvviso una specie di insetti nocivi…

✽ ✽ ✽

Parlo del vero giardiniere, quello che opera insieme alla natura e con il genius loci, quello che senza posa, lavorando, gioca con il mistero del mondo vegetale. Parlo del giardiniere-poeta.

Questo giardiniere è l’essere più umile della Terra. A un amico che mi chiedeva, non molto tempo fa, quale sia la più grande qualità di un amante del giardinaggio, ho risposto senza esitare: la modestia. Gli ho citato versi di un poeta praghese, secondo il quale «il sentiero che porta all’opera si percorre in ginocchio», perché un vero giardiniere deve dare costante prova di umiltà, e cancellarsi davanti alla propria creazione. La sua opera deve incessantemente ricominciare e va, come egli sa bene, oltre lui. Il suo è un lavoro certosino, minuzioso, fatto di amore e di pazienza, da svolgere in disparte dal mondo, illuminato da una fede profonda e dolcemente cieca.

Ma ecco il segno più distintivo della modestia del giardiniere: a dispetto dei luoghi comuni sul giardinaggio, egli non aspira a dominare lo spazio in cui opera e a cui dà forma insieme alla natura. Nel suo piccolo universo, non si considera, per citare Corneille, il padrone. Non è al di sopra del suo luogo, è sempre nel suo luogo. Tutto ciò che desidera è che quello divenga, giorno dopo giorno, più bello. Sa che il suo giardino è l’opera più effimera che vi sia, e per questo lo ama. Sa che probabilmente non gli sopravviverà, e ciò talvolta lo rattrista, ma non gli impedisce di portare avanti con gioia il lavoro quotidiano. Ne trae un piacere troppo intenso per rovinare tutto con ambizioni insensate. A che diavolo gli servirebbe dominare il suo giardino, si domanda scuotendo la testa, con il buon senso dei contadini.

Il giardiniere della Terra

Il Creatore non fa altro che affidare il giardino dell’Eden a Adamo in modo che egli ne abbia cura e ne divenga il giardiniere:

Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.

E veniamo all’azione di nominare le creature: si tratta di una presa di possesso? Solo l’avidità e l’angustia della mentalità borghese impediscono di vedere che tale gesto è, in verità, un gesto d’amore. Nello stesso modo, i genitori scelgono i nomi per i loro figli, senza che ciò li renda i proprietari della progenie. Il loro ruolo è proteggere la vita, favorire la crescita.

Avete compreso dove voglio arrivare: l’uomo, erede di Adamo, non dovrebbe considerarsi il proprietario della terra, ma il suo custode. Non è questo che gli animali e le piante gli chiedono? Cosa accadrebbe se l’uomo civilizzato rinunciasse a trattare la natura come un terreno di conquista e iniziasse ad abitare la terra da giardiniere? Non si tratta semplicemente di proteggere i bei paesaggi dagli assalti della modernità, ma di modificare radicalmente il nostro rapporto con il vivente, fino a considerare l’intero pianeta come un vasto giardino. Se infatti il giardino è l’unico luogo in cui è ancora realizzabile il sogno di una relazione armoniosa tra uomo e natura, perché non allargare le frontiere di quest’utopia a scala terrestre?

Quest’idea mi ossessiona da anni. Ecco il genio del giardino, dico a me stesso, ecco ciò che questo luogo ha da dire alla nostra epoca: che un’umanità finalmente tranquilla può, se lo vuole, vivere in questo grande spazio che è la Terra, prendendosi cura della vita.

✽ ✽ ✽

Certamente la frase «l’uomo giardiniere del mondo» è una bella espressione. Troppo bella, penso, e, come tutte le formule, falsa. Un sogno magnifico, è vero. Ma non è, ancora una volta, un modo per affermare una supremazia? Mi dico allora che io stesso sono vittima di una visione stupidamente gerarchica della Creazione dove, in quanto essere umano, mi trovo in cima alla piramide. Non sarebbe forse più saggio pensare, come il monaco zen o induista, o come l’Indiano d’America, che l’uomo può dialogare alla pari con un filo d’erba come con una montagna, che fa parte di un tutto che lo oltrepassa ma al quale non smette mai di appartenere?

Creare con il genius loci

«Per tutto, consultate il genio del luogo…»

Queste parole, scritte dal grande Alexander Pope circa due secoli fa, mi accompagnano da sempre nel mio lavoro di paesaggista a Greystone. Fanno parte di una epistola in versi in cui il poeta si rivolge ai suoi amici, coloro con i quali stava inventando il giardino «paesistico», liberato delle catene e della tediosità dello stile francese. Questa è la sola regola che ho deciso di seguire a Greystone e l’unica consegna che ho dato al mio giardiniere: prima di decidere quali essenze piantare e quali strappare, come potare un arbusto, quale varietà di rose o di ortensie scegliere, interrogare lo spirito del giardino.

Sarà lui a dirvi se bisogna far salire o far precipitare le acque,
aiutare una cima audace ad arrampicarsi fino al cielo
o allestire un teatro nella circonferenza di un vallone,
tendere al campestre, sfoltire un boschetto, riunire le siepi,
variare le ombre, prolungare o interrompere un viale…

Sono, queste, semplici immagini poetiche? No. Pope, ne sono convinto, ha realmente conosciuto, nella sua bella Twickenham, quella presenza che opera nel giardino insieme al paesaggista una volta che questi ha accettato di rinunciare a una parte del proprio potere. Ancora una volta, chiaramente, si tratta del genius loci degli antichi Romani.

✽ ✽ ✽

Il luogo ci parla. Cosa vuole diventare? Che genere di giardino sogna di essere? Imparate a mettere da parte i vostri gusti personali in materia di stili di giardino o di orticoltura. Non è il luogo a doversi adattare a voi, ma l’opposto. E se vi sentirete frustrati, non abbiate paura: anche le frustrazioni possono rivelarsi creative, andando ad arricchire il progetto. Se ad esempio il terreno non si presta alla coltivazione delle rose, che amate più di ogni altra cosa, ripiegherete sui rovi ornamentali (o «da fiore») o le ortensie: scoprirete un mondo nuovo e pieno di fascino inatteso.

Il giardino selvatico

Uno spettro si è intrufolato nel mondo rispettabile, opulento e tronfio del giardino borghese.

Le prime avvisaglie di questo nuovo stile le troviamo nella poesia. John Keats, il più profondo tra i poeti inglesi, non ha forse scritto, un secolo fa:

Ho veduto, nelle serre, fiori esotici di mirabile bellezza, ma me ne infischio di loro. I semplici fiori della nostra primavera sono tutto ciò che voglio rivedere…

Sarebbe certamente una forzatura considerare Keats il padre del giardino selvatico, ma non si può negare che questa forma di giardinaggio sia indissolubilmente legata al gusto per la flora selvatica e alla nostalgia un poco dolorosa che avvertiamo nel passaggio appena citato. Keats ha scritto anche che il poema deve nascere spontaneamente, come le foglie di un albero. Non è in questo modo che deve sorgere un giardino selvatico?

Più recentemente, altre grandi menti del nostro Paese, in particolare John Ruskin e William Morris (ancora lui), ripensando con affetto ai cottage gardens di un tempo, hanno cercato di infondere di nuovo nel giardinaggio la passione per la natura. Dal loro punto di vista, il giardino selvatico è un modo per ripensare il paesaggio, il posto dell’uomo nella natura e, soprattutto, una questione di passione. Per questi pensatori socialisti, va di pari passo con l’avversione per la società industriale. Nella concezione di Morris, il giardino è uno spazio creativo, per l’uomo come per la natura. Ogni individuo, lavorando all’interno del mondo vegetale, può svilupparvi i propri talenti artistici e affrancarsi da quella che Karl Marx chiamava l’«alienazione» del moderno processo di produzione. Nel giardino della ex abbazia di Merton, sede del suo laboratorio di tappezzerie, tessuti e vetrate, Morris aveva concretizzato un ideale di vita in cui l’arte, le piante, la poesia e i saperi artigianali dell’uomo formavano un tutto armonioso.

✽ ✽ ✽

Cosa si intende oggi per «giardino selvatico»? Un insieme di tecniche e nulla più. Per cominciare, dicono i suoi teorici, bisogna bandire dal giardino i fiori annuali esotici, le loro forme artificiali e i loro colori chiassosi. A quelle specie inadatte al nostro clima e che richiedono notevoli sforzi da parte del giardiniere si preferiranno le perenni locali o provenienti da climi simili al nostro. Si aboliranno anche le serre e soprattutto le orribili aiuole fiorite che sfigurano i giardini, a favore delle piante semplici, umili e colme di magia delle foreste e delle campagne. Infine, il giardiniere non si limiterà a eseguire meccanicamente dei compiti. Dovrà prima di tutto cercare di comprendere le leggi del mondo naturale, che diverrà così il modello del giardino. Se vuole piantare narcisi o crocus, ad esempio, il giardiniere osserverà prima di tutto come queste bulbose proliferano nei boschi, ai piedi degli alberi a foglie caduche, poi nel proprio giardino pianterà i bulbi nelle medesime condizioni di terreno e di luce. Li lascerà quindi sviluppare a modo loro, come accade nei boschi.

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Un giardino selvatico vi riserva ogni giorno gioie inattese, sorprese senza fine che vi ricompensano degli sforzi compiuti con le mani e con i muscoli. Ogni primavera spuntano attorno a voi nuovi fiori che non avete seminato; una stagione particolarmente piovosa tappezza i viali di muschio, creando un pavimento morbido nel quale i vostri piedi affondano dolcemente; alberi e arbusti che crescono liberamente diventano poco a poco paesaggi intimi, mentre quelli che muoiono schiudono all’improvviso nuove prospettive…

Prima di tutto, deve imparare a mettere da parte i suoi attrezzi. Invece di affaccendarsi senza sosta, deve comprendere dove si trova, quali sono le forze che operano nel suo giardino. Talvolta, non far nulla è la scelta migliore. Talvolta bastano un gesto o due della mano, ma al momento giusto. Questo intendevano i saggi taoisti quando predicavano il wu wei, il «non agire». Non agire significa non cercare di spingersi oltre ciò che sgorga spontaneo, non intraprendere azioni, per quanto ben calcolate, il cui scopo è ottenere più di quanto la vita sta offrendo. L’unica regola del giardinaggio selvatico è dunque la seguente: fate il meno possibile, lasciate alla natura il grosso del lavoro, ritiratevi quanto potete dal campo d’azione. E l’unico slogan, se proprio dev’essercene uno: giardinieri, siate pigri! Sì, nel mio giardino ideale il giardinaggio è prima di tutto una creazione del cuore e dello sguardo.

Così immobile, seduto senza far niente
La primavera arriva, l’erba spunta da sé.
Anonimo cinese

Greystone!

Piante citate:
  • quercia
  • tasso
  • acero
  • cedro del Libano
  • cedro dell'Himalaya
  • cipresso calvo
  • faggio rosso
  • leccio
  • betulla
  • rosa Souvenir d’un ami
  • rosa Félicité et Perpétue
  • ortensia in arbusto
  • aster
  • ranuncolo
  • margherita
  • veronica
  • fiordaliso
  • orchidea selvatica
  • glicine
  • clematis
  • edera
  • caprifoglio
  • felce arborea
  • gardenia
  • hibiscus

La densità delle piante diminuisce mano a mano che ci si avvicina alla casa, ma resta, naturalmente a eccezione dei prati, importante. Forse avvertirete, se siete amanti dell’ordine, un certo malessere di fronte a questo ammasso talora inestricabile di tronchi e rami. Se siete amanti della poesia, e soprattutto di quella poesia sconvolgente, profonda di cui la natura è tanto prodiga, ne godrete. Accanto alle querce, ai tassi e agli aceri caratteristici delle nostre foreste ho piantato cedri del Libano e dell’Himalaya, ormai abbastanza imponenti, cipressi calvi per il color bronzo del fogliame autunnale e due o tre faggi rossi, non di più. Oh, non saprei dire quanti alberi ho piantato da quando quest’avventura è cominciata, ma li conosco tutti, uno per uno.

Per il poeta come per l’imperatore, il giardino era un luogo di rifugio dalla storia. Uno spazio in cui l’amarezza si trasformava, per magia, in felicità. Un luogo dove ritirarsi dal mondo per consacrarsi alla meditazione, all’arte, alla consolatio philosophiae. Ancora oggi, nei vivai scelgo gli alberi destinati a Greystone sulla scorta di queste riflessioni; così non ho potuto trattenermi dal piantare alcuni lecci e, accanto alla casa, ben riparati dai venti del Nord, persino un paio di cipressi. […] Le betulle mi ricordano la mia isola natia, dove non metto piede da più di cinquant’anni. Certe varietà di rosa, come «Souvenir d’un ami» o «Félicité et Perpétue», piantate come rosai selvatici in mezzo ad altri arbusti o rampicanti sugli alberi, mi fanno pensare ai pomeriggi nei sontuosi vivai dell’Île-de-France, veri e propri paradisi del giardiniere. Un pino dal tronco torturato evoca i paesaggi della Cina che non ho mai visto e probabilmente non vedrò mai.

Quanto ai fiori, lo sapete già: sono votato in tutto e per tutto alle rose. Rampicanti, a cespuglio, ad arbusto, persino nane; ho evitato unicamente quelle vistose e artificiali di moda. Le mie sono quasi tutte non rifiorenti e quindi hanno una sola fioritura, in primavera. Ma da maggio a giugno, la presenza dei loro fiori è talmente intensa che non si vedono che i loro petali bianchi o rosa pallido e i loro stami dorati, non si sente che il loro profumo. Le ortensie in arbusto danno loro il cambio alla fine di giugno. Non offrono che un pallido ricordo, un po’ melanconico, delle rose, ma è per questo che le amo. Infine, in autunno, è il momento delle numerose varietà di aster, che creano macchie di colore contemplative e solenni, come la stagione richiede. Tutte queste piante si mescolano felicemente con i fiori selvatici: la rosa sboccia a fianco dell’ortica, svelandone la bellezza nascosta, rustica e ombrosa, che purtroppo resterà per sempre inaccessibile all’amante dell’ordinato e del grazioso.

È soprattutto nei prati che si dispiega la vita spontanea del giardino. Al riparo dell’erba alta, per tutta l’estate fioriscono i ranuncoli, le margherite, le veroniche, i fiordalisi e i papaveri. Ciò che mi riempie d’orgoglio, però, è la presenza di sei varietà di orchidee selvatiche, che ho visto arrivare nel corso degli anni.

La grande casa sorge a diretto contatto con questa natura in libertà. Le cime degli alberi la sovrastano, i muri sono ricoperti di rose, glicini, clematidi, edera e caprifoglio che occultano la mancanza di carattere della dimora del notaio. […] Al pianterreno ho trasformato una stanza dotata di grandi vetrate in giardino d’inverno. Qui crescono in vaso felci arboree, gardenie e ibischi. E, dall’altra parte dei vetri, c’è sempre il giardino, che bussa contro i vetri come se volesse entrare.

Dietro la casa c’è l’altra zona del giardino, il bosco. Esso si fa sempre più fitto mano a mano che si cammina in direzione della falesia. È la zona più aspra e solitaria e pochi tra voi sarebbero disposti a chiamarla giardino. Da secoli le querce vi crescono indisturbate. […] Il mio bosco sacro doveva essere comunque un luogo selvaggio, cosa che mi avrebbe permesso, tra l’altro, di non aver bisogno di un esercito di giardinieri per mantenerlo. Il desiderio di mostrare la divinità nascosta di questo angolo di terra restava però forte. Senza rifletterci troppo, iniziai a fabbricare oggetti assemblando rami, e mi accorsi che stavo costruendo degli altari! Molto rudimentali, certamente, ma comunque degli altari. Li sistemai un po’ per volta in diversi punti del bosco, mezzo nascosti nella vegetazione. Sono luoghi sacri, dedicati a esseri fatati che non saprei nominare. Poi ho cominciato a scolpire le pietre che, nei lavori di piantumazione, mi capitava di estrarre dal terreno. Dei volti hanno iniziato a prendervi forma: fattezze vagamente familiari, provenienti dai miei ricordi o dai miei sogni, che trovavano rapidamente posto in una radura o ai piedi di una pianta secolare.

Ma sarebbe un peccato terminare la visita senza un giro nell’orto. Dopo la rustica solitudine del bosco, penetrerete ora in un luogo pieno di sole in cui la natura nutre l’anima altrettanto bene che il corpo. Forse è la parte di Greystone che preferisco, non so bene perché. Dietro questo filare di meli si nasconde il cottage del mio giardiniere. Anche questa costruzione si è poco a poco ricoperta di rampicanti, ma è stato Samuel stesso a volerla così, non io. Qui è casa sua. Sul lato, un pergolato coperto di viti. Lì, certe sere estive, lo vedo scrivere con grande fatica qualcosa sul suo taccuino. Forse tiene il diario del nostro giardino, come ho sempre sognato senza mai trovare abbastanza coraggio per farlo?

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