Ivan Illich

Da Sotto le querce.
« La realtà è che elevati quanta di energia degradano le relazioni sociali con la stessa ineluttabilità con cui distruggono l'ambiente fisico. »
Ivan Illich (Vienna, 4 settembre 1926 – Brema, 2 dicembre 2002) è stato uno scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco. Personaggio di vasta cultura, viene citato spesso come teologo (definizione da lui stesso rigettata), linguista, per la sua vasta conoscenza di svariati idiomi, e storico. Viene però più spesso ricordato come libero pensatore, capace di uscire da qualsiasi schema preconcetto e di anticipare riflessioni affini a quelle altermondiste. Estraneo a qualsiasi inquadramento precostituito, la sua visione è strettamente affine all'anarchismo cristiano.
Ivan Illich (Vienna, 4 settembre 1926 – Brema, 2 dicembre 2002) è stato uno scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco. Personaggio di vasta cultura, viene citato spesso come teologo (definizione da lui stesso rigettata), linguista, per la sua vasta conoscenza di svariati idiomi, e storico. Viene però più spesso ricordato come libero pensatore, capace di uscire da qualsiasi schema preconcetto e di anticipare riflessioni affini a quelle altermondiste. Estraneo a qualsiasi inquadramento precostituito, la sua visione è strettamente affine all'anarchismo cristiano.

Energia ed equità

Elogio della bicicletta.

1973

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incipitDa qualche tempo è venuto di moda parlare di un'imminente crisi energetica. Questo eufemismo occulta una contraddizione e consacra un'illusione. Maschera la contraddizione che è implicita nel perseguire assieme l'equità e lo sviluppo industriale; fa salva l'illusione che la potenza della macchina possa sostituire indefinitamente il lavoro dell'uomo. Per superare la contraddizione e dissolvere l'illusione, è urgente chiarire quella realtà che viene oscurata dal linguaggio della crisi: e la realtà è che elevati quanta di energia degradano le relazioni sociali con la stessa ineluttabilità con cui distruggono l'ambiente fisico.
incipitDa qualche tempo è venuto di moda parlare di un'imminente crisi energetica. Questo eufemismo occulta una contraddizione e consacra un'illusione. Maschera la contraddizione che è implicita nel perseguire assieme l'equità e lo sviluppo industriale; fa salva l'illusione che la potenza della macchina possa sostituire indefinitamente il lavoro dell'uomo. Per superare la contraddizione e dissolvere l'illusione, è urgente chiarire quella realtà che viene oscurata dal linguaggio della crisi: e la realtà è che elevati quanta di energia degradano le relazioni sociali con la stessa ineluttabilità con cui distruggono l'ambiente fisico.

Un popolo può essere altrettanto pericolosamente ipernutrito dalla potenza dei propri strumenti quanto dal contenuto calorico dei propri cibi, ma è assai più difficile riconoscere un debole nazionale per i watt che non per una dieta malsana. Il wattaggio pro capite che segna il punto critico per il benessere sociale sta entro un ordine di grandezza che è assai superiore alla quantità di cavalli-vapore nota ai quattro quinti dell'umanità e assai inferiore alla potenza controllata da chi guidi una Volkswagen. Non se ne rende conto né il sottoconsumatore né il sovraconsumatore. Né l'uno né l'altro è disposto a guardare in faccia la realtà. Per quanto riguarda il primitivo, l'eliminazione della schiavitù e della fatica più ingrata dipende dall'introduzione di un'adeguata tecnologia moderna, mentre quanto al ricco l'evitare una degradazione ancor più spaventosa dipende dall'efficace riconoscimento di una soglia nel consumo energetico oltre la quale i processi tecnici cominciano a determinare le relazioni sociali. Sia dal punto di vista biologico sia da quello sociale, le calorie sono benefiche solo fin quando rimangono entro lo stretto margine che separa l'abbastanza dal troppo.

La cosiddetta crisi energetica è dunque un concetto politicamente ambiguo. L'interesse pubblico ai quanta di energia e alla distribuzione del controllo sul loro impiego può portare in due direzioni opposte. Da una parte si possono porre domande suscettibili di aprire la via a una ricostruzione politica sbloccando la ricerca di un'economia post-industriale ad alta intensità di lavoro, a basso contenuto di energia e ad alto grado di equità. Dall'altra parte l'isterico affanno per l'alimentazione delle macchine può dare un ulteriore impulso all'attuale sviluppo istituzionale a forte intensità di capitale e portarci al di là dell'ultima curva che ci separa da un Armageddon iperindustriale. La ricostruzione politica presuppone il riconoscimento del fatto che esistono dei quanta pro capite critici, superati i quali l'energia non è più controllabile per via politica. Dall'altro canto, le restrizioni ecologiche al consumo energetico globale imposte da pianificatori di mentalità industriale inclini a mantenere la produzione delle industrie a un ipotetico livello massimo non potrebbero che sfociare nell'imposizione d'una gigantesca camicia di forza all'intera società.

«L'americano tipo investe 1600 ore per fare circa 12.000 chilometri: cioè appena sette chilometri e mezzo per ogni ora. Nei paesi dove non esiste un'industria del trasporto, la gente riesce a ottenere lo stesso risultato andando a piedi dovunque voglia, e il traffico assorbe dal 3 all'8 per cento del tempo sociale, anziché il 28 per cento. Ciò che distingue il traffico dei paesi ricchi da quello dei paesi poveri, per quanto riguarda i più, non è un maggior chilometraggio per ogni ora di vita, ma l'obbligo di consumare in forti dosi l'energia confezionata e disegualmente distribuita dall'industria del trasporto.»

Scegliere un'economia a contenuto minimo di energia costringe il povero a rinunciare alle attese fantastiche e il ricco a riconoscere nei propri interessi costituiti una passività tremenda. Entrambi devono rifiutare l'immagine funesta dell'uomo come schiavista, attualmente promossa da una fame di maggiori risorse energetiche che è stimolata da motivi ideologici. Nei paesi giunti all'opulenza grazie allo sviluppo industriale, la crisi energetica serve da pretesto per aumentare il prelievo fiscale necessario per sostituire nuovi procedimenti industriali, più “razionali”e socialmente ancor più micidiali, a quelli resi obsoleti da una superespansione inefficiente. Per i dirigenti dei popoli non ancora dominati dal medesimo processo di industrializzazione, la crisi energetica rappresenta un imperativo storico che ordina di accentrare la produzione, l'inquinamento e il loro controllo, in un estremo tentativo di raggiungere le nazioni più potenti. Esportando la loro crisi e predicando il nuovo verbo del culto puritano dell'energia, i ricchi arrecano ai poveri ancora più danno di quanto ne arrecassero vendendogli i prodotti delle loro vecchie fabbriche. Nel momento in cui un paese povero sposa l'idea che una maggiore quantità di energia più attentamente gestita darà sempre come risultato un maggior volume di beni per più persone, quel paese si chiude nella gabbia dell'asservimento al massimo sviluppo del prodotto industriale. E’ inevitabile che i poveri perdano la possibilità di optare per una tecnologia razionale una volta deciso di modernizzare la loro povertà accrescendo la propria dipendenza dall'energia. Inevitabilmente i poveri si precludono qualunque tecnologia liberatrice e qualunque politica partecipativa allorché, insieme al massimo possibile di impieghi energetici, accettano e non possono non accettare il massimo possibile di controllo sociale.

La crisi energetica non si può superare con un sovrappiù di energia. Si può soltanto dissolverla, insieme con l'illusione che fa dipendere il benessere dal numero di schiavi energetici che un uomo ha sotto di sé. A questo scopo, è necessario identificare le soglie al di là delle quali l'energia produce guasti, e farlo attraverso un processo politico che impegni tutta la comunità nella ricerca di tali limiti. Poiché questo tipo di ricerca va in senso opposto a quella che viene svolta oggi dagli esperti e per conto delle istituzioni, io continuerò a chiamarla contro-ricerca. Essa si compone di tre fasi: in primo luogo bisogna riconoscere sul piano teorico come imperativo sociale la necessità di porre dei limiti al consumo di energia pro capite; quindi bisogna individuare la fascia entro la quale potrebbe trovarsi la grandezza critica; infine bisogna che ciascuna comunità metta in luce la somma di iniquità, di fastidio e di condizionamento che i suoi membri sono portati a tollerare per avere la soddisfazione di idolatrare potenti congegni e prender parte ai relativi riti diretti dai professionisti che ne regolano il funzionamento.

La necessità di una ricerca politica sui quanta di energia socialmente ottimali è illustrabile in maniera chiara e succinta esaminando il traffico moderno.

Nella circolazione, l'energia impiegata in una determinata unità di tempo (potenza) si traduce in velocità. In questo caso, il quantum critico si configurerà come limite della velocità. Ovunque sia stato oltrepassato questo limite, è emerso il disegno essenziale della degradazione sociale dovuta a elevati quanta di energia. Ogni volta che un mezzo pubblico ha superato i 25 chilometri orari, è diminuita l'equità mentre aumentava la penuria sia di tempo che di spazio. Il trasporto a motore ha monopolizzato il traffico, bloccando il movimento alimentato dall'energia corporea (che chiamerò “transito”). In tutti i paesi occidentali, nel giro di cinquant'anni dall'inaugurazione della prima ferrovia, il numero dei chilometri/passeggero coperti con tutti i mezzi di trasporto si è moltiplicato per cento. Quando il rapporto tra le rispettive erogazioni di potenza ha oltrepassato un certo valore, i trasformatori meccanici di combustibili minerali hanno tolto alla gente la possibilità di usare la propria energia metabolica, costringendola a diventare consumatrice forzata di mezzi di trasporto. A questo effetto esercitato dalla velocità sull'autonomia degli individui, contribuiscono solo marginalmente le caratteristiche tecniche dei veicoli a motore oppure le persone o gli enti che di fronte alla legge risultano responsabili delle aviolinee, delle ferrovie, degli autobus o delle automobili: è l'alta velocità il fattore critico che rende socialmente distruttivo il trasporto. Una vera scelta tra indirizzi pratici e di relazioni sociali desiderabili è possibile solo laddove la velocità sia sottoposta a restrizioni. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.

I gradi della mobilità autoalimentata

Un secolo fa venne inventato il cuscinetto a sfere. Grazie a esso, il coefficiente d'attrito si riduceva a un millesimo. Applicando un cuscinetto a sfere ben calibrato tra due pietre da macina dell'età neolitica, un uomo poteva macinare in un giorno quanto ai suoi antenati richiedeva una settimana di lavoro. Il cuscinetto a sfere rese anche possibile la bicicletta, facendo sì che la ruota - forse l'ultima delle grandi invenzioni del Neolitico - fosse finalmente utilizzabile per la mobilità autoalimentata.

L'uomo, senza l'aiuto di alcuno strumento, è capace di spostarsi con piena efficienza. Per trasportare un grammo del proprio peso per un chilometro in dieci minuti, consuma 0,75 calorie. L'uomo a piedi è una macchina termodinamica più efficiente di qualunque veicolo a motore e della maggioranza degli animali; in rapporto al suo peso, nella locomozione presta più lavoro del topo o del bue, meno lavoro del cavallo o dello storione. Con questo tasso di efficienza l'uomo si è insediato nel mondo e ne ha fatto la storia. Procedendo di questo passo le società contadine e quelle nomadi spendono rispettivamente meno del 5 e dell'8 per cento del loro tempo sociale fuori di casa o dell'accampamento.

L'uomo in bicicletta può andare tre o quattro volte più svelto del pedone, consumando però un quinto dell'energia: per portare un grammo del proprio peso per un chilometro di strada piana brucia soltanto 0,15 calorie. La bicicletta è il perfetto traduttore per accordare l'energia metabolica dell'uomo all'impedenza della locomozione. Munito di questo strumento, l'uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali. Le invenzioni del cuscinetto a sfere, della ruota a raggi tangenti e del pneumatico, messe assieme, si possono paragonare solo a tre altri eventi della storia del trasporto. L'invenzione della ruota, all'alba della civiltà, tolse i pesi dalle spalle dell'uomo e li depose sulla carriola. L'invenzione, e la contemporanea applicazione, durante il Medioevo europeo, della staffa, della bardatura e del ferro di cavallo aumentò sino a cinque volte l'efficienza termodinamica del cavallo e rivoluzionò l'economia dell'Europa medievale: rese possibili arature frequenti, e quindi la rotazione delle colture agricole; mise a portata di mano del contadino campi più lontani, permettendo così ai proprietari di trasferirsi dai casali di sei famiglie ai villaggi di cento, dove potevano vivere intorno alla chiesa, alla piazza, alla prigione e, più tardi, alla scuola; favorì la coltivazione delle terre settentrionali, spostando il centro del potere nei paesi a clima freddo. La costruzione, a opera dei portoghesi del Quattrocento, delle prime navi alturiere, sotto l'egida del nascente capitalismo europeo, gettò le solide basi di una cultura e di un mercato estesi a tutto il globo.

L'invenzione del cuscinetto a sfere avviò una quarta rivoluzione. Questa differiva sia dalla rivoluzione, sostenuta dalla staffa, che aveva messo il cavaliere in groppa al proprio cavallo, sia da quella, sostenuta dal galeone, che aveva ampliato l'orizzonte dei marinai del re. Il cuscinetto a sfere aprì una vera crisi, un'autentica scelta politica: creò la possibilità di optare tra una maggiore libertà nell'equità e una maggiore velocità. Esso è infatti un ingrediente parimenti fondamentale di due nuovi tipi di locomozione, rispettivamente simboleggiati dalla bicicletta e dall'automobile. La bicicletta elevò l'automobilità dell'uomo a un nuovo ordine, oltre il quale è teoricamente impossibile progredire; al contrario, la capsula individuale di accelerazione fece sì che le società si dedicassero a un rituale di velocità progressivamente paralizzante.

L'impiego esclusivamente rituale di un congegno potenzialmente dotato di utilità non è certo un fatto nuovo. Migliaia di anni fa la ruota liberò dal suo fardello lo schiavo portatore, ma solo sul continente euroasiatico; in Messico la ruota si conosceva, ma non veniva mai adibita al trasporto: serviva esclusivamente alla costruzione di carrozze per delle divinità-giocattolo. Il tabù per le carriole vigente nell'America anteriore a Cortés non è più strano del tabù per le biciclette nel traffico d'oggi.

Non è affatto inevitabile che l'invenzione del cuscinetto a sfere continui a servire per accrescere il consumo energetico, e quindi a produrre penuria di tempo, distruzione di spazio e privilegio di classe. Se il nuovo ordine della mobilità autoalimentata reso accessibile dalla bicicletta venisse protetto dalla svalutazione, dalla paralisi e dai rischi per gli arti del ciclista, sarebbe possibile assicurare a tutti una pari mobilità ottimale e metter fine all'imposizione del massimo di privilegio e di sfruttamento. Sarebbe anche possibile controllare le strutture dell'urbanizzazione una volta che l'organizzazione dello spazio avesse come limite il potere che ha l'uomo di spostarsi in esso.

Le biciclette non sono soltanto termodinamicamente efficienti, costano anche poco. Avendo un salario assai inferiore, il cinese per comprarsi un bicicletta che gli durerà a lungo spende una frazione delle ore di lavoro che un americano dedica all'acquisto di un'auto destinata a invecchiare rapidamente. Il rapporto tra il costo dei servizi pubblici richiesti dal traffico ciclistico e il prezzo di un’infrastruttura adatta alle alte velocità, è proporzionalmente ancora minore della differenza di prezzo tra i veicoli usati nei due sistemi. Nel sistema basato sulla bicicletta, occorrono strade apposite solo in certi punti di traffico denso, e le persone che vivono lontano dalle superfici in piano non sono per questo automaticamente isolate come lo sarebbero se dipendessero dagli automezzi o dai treni. La bicicletta ha ampliato il raggio d'azione dell'uomo senza smistarlo su strade non percorribili a piedi. Dove egli non può inforcare la sua bici, può di solito spingerla.

Inoltre la bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un'auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un'unica vettura. Per portare 40.000 persone al di là di un ponte in un'ora, ci vogliono tre corsie di una determinata larghezza se si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili, e solo due corsie se le 40.000 persone vanno da un capo all'altro pedalando in bicicletta. Di tutti questi veicoli, soltanto la bicicletta permette realmente alla gente di andare da porta a porta senza camminare. Il ciclista può raggiungere nuove destinazioni di propria scelta senza che il suo strumento crei nuovi posti a lui preclusi.

Le biciclette permettono di spostarsi più velocemente senza assorbire quantità significative di spazio, energia o tempo scarseggianti. Si può impiegare meno tempo a chilometro e tuttavia percorrere più chilometri ogni anno. Si possono godere i vantaggi delle conquiste tecnologiche senza porre indebite ipoteche sopra gli orari, l'energia e lo spazio altrui. Si diventa padroni dei propri movimenti senza impedire quelli dei propri simili. Si tratta d'uno strumento che crea soltanto domande che è in grado di soddisfare. Ogni incremento di velocità dei veicoli a motore determina nuove esigenze di spazio e di tempo: l'uso della bicicletta ha invece in sé i propri limiti. Essa permette alla gente di creare un nuovo rapporto tra il proprio spazio e il proprio tempo, tra il proprio territorio e le pulsazioni del proprio essere, senza distruggere l'equilibrio ereditario. I vantaggi del traffico moderno autoalimentato sono evidenti, e tuttavia vengono ignorati. Che il traffico migliore sia quello più veloce lo si afferma, ma non lo si è mai dimostrato. Prima di chiedere alla gente di pagare, i fautori dell'accelerazione dovrebbero cercare di esibire le prove a sostegno di quanto pretendono.

Sta ormai per concludersi un orrendo combattimento tra biciclette e motori. Nel Vietnam un esercito superindustrializzato ha cercato di domare, senza riuscire a batterlo, un popolo che si muoveva alla velocità della bicicletta. La lezione dovrebbe esser chiara. Gli eserciti ad alto contenuto di energia possono annientare popolazioni - sia quelle che difendono sia quelle contro cui vengono scatenati - ma non servono granché a un popolo che difende se stesso. Resta da vedere se i vietnamiti applicheranno all'economia di pace ciò che hanno imparato in guerra, se vorranno proteggere quei valori che hanno reso possibile la loro vittoria. E’ ahimè probabile che, in nome ,del progresso e di un maggiore impiego di energia, i vincitori finiscano per sconfiggere se stessi distruggendo quella struttura equa, razionale e autonoma cui i bombardieri americani li avevano costretti privandoli di combustibili, di motori e di strade.

Descolarizzare la società

1971

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incipitL’istruzione universale non è attuabile attraverso la scuola. Né lo sarebbe di più se si ricorresse a istituzioni alternative costruite sul modello delle scuole attuali. Ugualmente non servono allo scopo né nuovi atteggiamenti degli insegnanti verso gli allievi, né la proliferazione delle attrezzature e dei sussidi educativi (in aula e a casa), né infine il tentativo di allargare la responsabilità del pedagogo sino ad assorbire l'intera vita dei suoi discepoli. All'attuale ricerca di nuovi imbuti didattici si deve sostituire quella del loro contrario istituzionale: trame, tessuti didattici che diano a ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento. Ci auguriamo di poter dare un utile contributo concettuale a quanti conducono tali ricerche controcorrente sull'istruzione, e anche a quanti cercano alternative ad altre forme costituite di pubblici servizi.
incipitL’istruzione universale non è attuabile attraverso la scuola. Né lo sarebbe di più se si ricorresse a istituzioni alternative costruite sul modello delle scuole attuali. Ugualmente non servono allo scopo né nuovi atteggiamenti degli insegnanti verso gli allievi, né la proliferazione delle attrezzature e dei sussidi educativi (in aula e a casa), né infine il tentativo di allargare la responsabilità del pedagogo sino ad assorbire l'intera vita dei suoi discepoli. All'attuale ricerca di nuovi imbuti didattici si deve sostituire quella del loro contrario istituzionale: trame, tessuti didattici che diano a ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento. Ci auguriamo di poter dare un utile contributo concettuale a quanti conducono tali ricerche controcorrente sull'istruzione, e anche a quanti cercano alternative ad altre forme costituite di pubblici servizi.

La scolarizzazione obbligatoria non soltanto polarizza una società, ma classifica le nazioni del mondo secondo un sistema internazionale di caste. I singoli paesi vengono cioè valutati come caste, la cui dignità culturale dipende dalla media degli anni di scuola dei loro cittadini, secondo una classificazione strettamente collegata al prodotto nazionale lordo pro capite e molto più dolorosa.

Il paradosso della scuola è evidente: l'aumento della spesa non fa che accrescere la sua potenzialità distruttiva all'interno e sul piano internazionale. Questo paradosso deve diventare una questione d'interesse pubblico. Oggi quasi tutti riconoscono che l'ambiente fisico verrà presto distrutto dall'inquinamento biochimico se non sapremo modificare radicalmente gli attuali metodi di produzione dei beni materiali. Ma bisognerebbe anche rendersi conto che la vita sociale e personale è altrettanto minacciata dall'inquinamento da HEW, sottoprodotto inevitabile del consumo obbligatorio e concorrenziale di assistenza sociale.

L’ escalation scolastica è deleteria quanto l’escalation degli armamenti, ma in modo meno evidente. In tutte le scuole del mondo i costi sono aumentati più rapidamente delle iscrizioni e del prodotto nazionale lordo; e in tutto il mondo si spende per la scuola meno di quanto si aspetterebbero genitori, insegnanti e allievi. È una situazione che dissuade dappertutto dal proporre e dal finanziare progetti su vasta scala per un'istruzione non scolastica. Gli Stati Uniti stanno dimostrando al mondo che nessun paese può essere tanto ricco da permettersi un sistema scolastico capace di soddisfare la domanda che esso stesso crea con la sua sola esistenza; infatti un sistema scolastico efficiente educa genitori e allievi a credere nel valore supremo di un sistema scolastico ancora più vasto, il cui costo aumenta in misura esorbitante man mano che cresce la richiesta d'istruzione superiore e ne diminuisce la disponibilità.

Certo il dare a tutti eguali possibilità d'istruzione è un obiettivo auspicabile e raggiungibile, ma identificare questo obiettivo nella scolarizzazione obbligatoria è come confondere la salvezza eterna con la chiesa. La scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato e fa vuote promesse di salvezza ai poveri dell'era tecnologica. Lo stato nazionale ha fatto propria questa religione arruolando tutti i cittadini in un programma scolastico graduato che porta a una successione di diplomi e che ricorda i rituali iniziatici e le ordinazioni sacerdotali di tempi lontani. Lo stato moderno si è assunto il compito di far rispettare le decisioni dei suoi educatori per mezzo di volonterosi funzionari addetti alla lotta contro gli evasori dall'obbligo scolastico e mediante i titoli di studio richiesti per ottenere un impiego, un po’ come i re spagnoli facevano applicare le decisioni dei loro teologi servendosi dei conquistadores e dell'Inquisizione.

Due secoli fa gli Stati Uniti guidarono il mondo in un movimento inteso a respingere il monopolio di un'unica chiesa. Oggi occorre il disconoscimento costituzionale del monopolio della scuola, cioè di un sistema che associa legalmente il pregiudizio alla discriminazione. Il primo articolo di una dichiarazione dei diritti per una moderna società umanistica dovrebbe corrispondere al primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti: “Lo stato non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento dell'istruzione”. Non dovrà esserci un rituale obbligatorio per tutti.

Per rendere effettiva questa separazione tra scuola e stato, occorre una legge che proibisca, nelle assunzioni, nell'esercizio dei diritti elettorali o nell'ammissione ai centri d'apprendimento, ogni discriminazione basata sul possesso o meno di determinati titoli di studio. Tale garanzia non escluderebbe prove pratiche di idoneità a ricoprire una funzione o un ruolo, ma eliminerebbe l'attuale assurda discriminazione a vantaggio della persona che impara una determinata tecnica grazie a un più che cospicuo dispendio di denaro pubblico o che - come è altrettanto probabile - è riuscita a ottenere un diploma che non ha alcun rapporto né con capacità comunque utili né con un qualsiasi impiego. La separazione costituzionale della scuola dallo stato può risultare psicologicamente efficace solo se saprà proteggere il cittadino dal rischio che non lo si ritenga qualificato a svolgere una determinata funzione per qualcosa che gli è accaduto nel corso della carriera scolastica.

La scuola non favorisce né l'apprendimento né la giustizia, perchè gli educatori insistono a mettere nello stesso sacco l'istruzione e i diplomi. L'apprendimento e l'assegnazione dei ruoli si fondono in una cosa sola. Ma apprendere significa acquisire in proprio una nuova capacità o una nuova conoscenza approfondita, mentre si è promossi grazie a un giudizio che altri si è formato. L’apprendimento è spesso un risultato dell'istruzione, ma la selezione per un ruolo o per una categoria nel mercato del lavoro dipende in misura sempre maggiore dalla mera durata della frequenza scolastica.

L’istruzione è la scelta delle circostanze che facilitano l'apprendimento. I ruoli invece vengono assegnati stabilendo una serie di condizioni cui il candidato deve ottemperare se vuole ottenere il diploma. La scuola àncora l'istruzione - non però l'apprendimento - a questi ruoli. Il che non è né ragionevole né educativo. Non è ragionevole perché stabilisce un rapporto dei ruoli non con le qualità o le competenze a essi attinenti, ma con il processo mediante il quale si postula che tali qualità vengano acquisite. Non è liberatorio o educativo perché la scuola riserva l'istruzione a coloro che in ogni fase dell'apprendimento sanno adattarsi a un dispositivo di controllo sociale precedentemente sanzionato.

Il curricolo è sempre servito ad assegnare il rango sociale. In certi casi era prenatale: il karma ti ascrive a una casta, il lignaggio all'aristocrazia. Oppure poteva assumere la forma di un rituale, di una sequenza di ordinazioni sacre, o consistere in una successione d'imprese di guerra o di caccia; poteva anche avvenire che l'avanzamento dipendesse da una serie di precedenti favori del principe. L’istruzione universale avrebbe dovuto separare l'assegnazione del ruolo dalla storia personale; il suo scopo era di dare a ognuno eguali possibilità di accedere a qualsiasi mansione. Ancora adesso molti credono erroneamente che la pubblica fiducia poggi su titoli culturali pertinenti in quanto la scuola se ne fa garante. Ma invece di eguagliare le possibilità, il sistema scolastico ne ha semplicemente monopolizzato la distribuzione.

Per scindere la competenza dalla carriera scolastica bisogna che le informazioni sul passato scolastico di una persona diventino tabù, come quelle concernenti affiliazione politica, fede religiosa, famiglia, preferenze sessuali o razza. Bisogna emanare leggi che vietino la discriminazione basata sui titoli di studio. Naturalmente le leggi non possono eliminare i pregiudizi contro chi non sia andato a scuola, né sono fatte per obbligare chicchessia a sposarsi con un autodidatta: possono però impedire una discriminazione ingiustificata.

Trame dell'apprendimento

Caratteristiche generali delle nuove istituzioni didattiche formali

Un buon sistema didattico dovrebbe porsi tre obiettivi: assicurare a tutti quelli che hanno voglia d'imparare la possibilità d'accedere alle risorse disponibili, in qualsiasi momento della loro vita; permettere, a tutti quelli che vogliono comunicare ad altri le proprie conoscenze, di incontrare chi ha voglia di imparare da loro; offrire infine a tutti quelli che vogliono sottoporre a pubblica discussione un determinato problema la possibilità di render noto il loro proposito. Un tale sistema esigerebbe l'applicazione di alcune garanzie costituzionali all'istruzione. I discenti non dovrebbero essere costretti ad assoggettarsi a un programma obbligatorio, o discriminati in base al possesso di un certificato o di un diploma. Né il pubblico dovrebbe essere costretto a sostenere, mediante una tassazione regressiva, un enorme apparato professionale di educatori e di edifici che, di fatto, limita le possibilità d'apprendimento dei cittadini ai servizi che la categoria dei docenti è disposta a immettere sul mercato; dovrebbe invece utilizzare la tecnologia moderna per rendere veramente universali, e quindi totalmente educative, le libertà di parola, di riunione e di stampa. Le scuole sono basate sul presupposto che ogni aspetto della vita abbia il suo segreto; che la qualità della vita dipenda dalla conoscenza di questo segreto; che i segreti si possano apprendere soltanto in una sequenza ordinata; e che solo gli insegnanti possano svelarli nel modo giusto. Un individuo dalla mentalità scolarizzata vede il mondo come una piramide di prodotti confezionati, riservati esclusivamente a chi possegga il prescritto scontrino. Le nuove istituzioni didattiche abbatterebbero questa piramide. Il loro scopo dovrebbe essere quello di facilitare l'accesso al discente, di permettergli cioè, se non ha la possibilità di entrare dalla porta, di guardare dalle finestre nella stanza dei bottoni o nel parlamento. Inoltre queste nuove istituzioni dovrebbero essere canali accessibili senza particolari credenziali o pedigree, spazi pubblici nei quali il discente possa incontrare coetanei e anziani estranei al suo orizzonte immediato.

Io credo che basterebbero quattro, e forse anche soltanto tre, “canali” o centri di scambio dell'apprendimento, per radunare tutte le risorse necessarie a imparare veramente. Il bambino cresce in un mondo di cose, circondato da persone cui si ispira come modelli per le capacità e i valori. Trova dei coetanei che lo stimolano a discutere, a competere, a cooperare e a capire; e se è fortunato, è anche soggetto alla verifica o alle critiche di un anziano più esperto cui sta realmente a cuore. Cose, modelli, coetanei e anziani sono quattro risorse, ognuna delle quali richiede un tipo particolare di organizzazione per garantire che tutti abbiano ampie possibilità di accedervi.

Per indicare i modi specifici di assicurare l'accesso a ognuna di queste quattro serie di risorse, parlerò di “trame di possibilità” anziché di “reti”. Il termine “rete”, purtroppo, viene spesso impiegato per designare i canali adibiti alla somministrazione di materiali selezionati da altri a scopo di addottrinamento, istruzione o divertimento. Ma lo si può usare anche per il telefono o il servizio postale, che sono essenzialmente accessibili a tutti gli individui che vogliono scambiarsi dei messaggi. Vorrei che avessimo a disposizione un'altra parola, per designare le nostre strutture reticolari intese a permettere un accesso reciproco, una parola che facesse meno pensare all'intrappolamento, che fosse meno degradata dall’uso corrente e che suggerisse meglio il fatto che qualunque ordinamento di questo tipo comporta aspetti legali, organizzativi e tecnici. Non avendo trovato un termine del genere, cercherò di ricuperare il solo disponibile, usandolo come sinonimo di “trama didattica”.

Ciò di cui abbiamo bisogno sono nuove reti, a disposizione immediata del pubblico e fatte in modo da poter assicurare a tutti eguali possibilità di apprendere e di insegnare.

Facciamo un esempio. I televisori e i registratori presuppongono uno stesso livello tecnologico. Ora tutti i paesi dell’America latina hanno introdotto la televisione e in Bolivia, dove il governo ha finanziato una stazione televisiva, costruita sei anni fa, non ci sono più di settemila televisori per una popolazione di quattro milioni di abitanti. Con le somme impegnate nelle Installazioni televisive in tutta l'America latina si sarebbe invece potuto fornire un registratore a un cittadino adulto su cinque e, in più, costituire una biblioteca pressoché sterminata di nastri già incisi, con succursali fin nei villaggi più remoti, oltre a un'ampia scorta di nastri in bianco. Questa rete di registratori, ovviamente, sarebbe radicalmente diversa dalla rete televisiva attuale. Offrirebbe una possibilità di esprimersi liberamente: gli istruiti come gli analfabeti avrebbero eguali occasioni di registrare, conservare, diffondere e ripetere le proprie opinioni. Le somme attualmente investite nella televisione assicurano invece ai burocrati, siano essi uomini politici o educatori, il potere di inondare il continente di programmi prodotti istituzionalmente che, a giudizio loro o dei loro finanziatori, vanno bene per la gente o la gente richiede. La tecnologia è disponibile per promuovere tanto l’indipendenza e l'apprendimento quanto la burocrazia e l’insegnamento.

Quattro reti

La programmazione delle nuove istituzioni didattiche non dovrebbe fondarsi sulle finalità amministrative di un rettore o di un preside, sugli obiettivi didattici di un educatore professionista o sulle necessità d'apprendimento di una qualsiasi ipotetica categoria di persone. Non bisognerebbe partire dalla domanda: “Che cosa dovrebbe imparare una persona?” ma dalla domanda: “Con quali oggetti e quali persone possono voler mettersi in contatto i discenti per poter imparare?”.

Chi vuole imparare sa di aver bisogno che qualcun altro gli fornisca sia le informazioni sia una loro valutazione critica. Le informazioni possono essere contenute in persone come in oggetti. In un buon sistema didattico gli oggetti dovrebbero essere disponibili su semplice richiesta del discente, mentre l'accesso agli informatori umani richiederebbe, in più, il consenso altrui. La critica può anch'essa venire da due direzioni: dai coetanei come dagli anziani, cioè sia da quelli che imparano insieme con me e i cui interessi immediati coincidono con i miei, sia da quelli che possano farmi partecipe della loro maggiore esperienza. I coetanei possono essere colleghi con i quali sollevare un problema, compagni di letture o di passeggiate scherzose e piacevoli (o faticose), avversari in qualunque tipo di gioco. Gli anziani possono consigliarci sulla specializzazione da apprendere, sul metodo da usare e sulle compagnie da cercare in un determinato momento; possono servire da guida perché tra coetanei ci si rivolgano le domande giuste e segnalare le insufficienze delle risposte cui essi pervengono. Quasi tutte queste risorse sono già disponibili in abbondanza; ma da un lato non le si considera in genere delle risorse didattiche e dall'altro non è facile, soprattutto ai poveri, accedervi con facilità a fini d'apprendimento. Dobbiamo quindi inventare nuove strutture di rapporti che siano concepite proprio per facilitare l’accesso a tali risorse da parte di chiunque abbia motivo di cercarle per istruirsi. Ma per istituire queste strutture, simili a trame, occorrono dei dispositivi amministrativi, tecnologici e soprattutto giuridici.

Le risorse didattiche vengono di solito classificate secondo gli obiettivi dei programmi di studio preparati dagli educatori. Io invece intendo fare il contrario, definire cioè quattro diversi procedimenti che permettano allo studente di accedere a qualunque risorsa didattica in grado di aiutarlo a precisare e a raggiungere i propri obiettivi.

  1. Servizi per la consultazione di oggetti didattici che facilitino l'accesso alle cose o ai processi usati per l’apprendimento formale. Tali risorse possono essere in parte riservate a questo scopo e conservate in biblioteche, agenzie di noleggio, laboratori e sale d'esposizione come i musei e i teatri; oppure adoperate quotidianamente nelle fabbriche, negli aeroporti o nelle fattorie, ma messe a disposizione degli studenti, siano essi apprendisti o frequentatori fuori orario.
  2. Centrali delle capacità - che permettano agli individui di esporre le proprie capacità, le condizioni che pongono per servire da modelli a chi vuole impararle, e gli indirizzi ai quali sia possibile reperirli.
  3. Assortimento degli eguali - cioè una rete di comunicazione che permetta alle persone di descrivere il tipo di apprendimento cui vogliono dedicarsi, nella speranza dl trovare un compagno di ricerca.
  4. Servizi per la consultazione di educatori in genere - professionisti, paraprofessionisti e liberi operatori, che potrebbero essere elencati in una guida con l'indirizzo, una descrizione fatta dagli stessi interessati e le condizioni per accedere ai loro servizi. Questi professionisti, come vedremo, potrebbero essere scelti mediante un voto o una consultazione dei loro ex clienti.