Internazionale - Sogni da difendere

Da Sotto le querce.

Pagina principale: Davi Kopenawa

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Internazionale
Sogni da difendere

Una mostra a Parigi raccoglie i lavori più classici e quelli meno conosciuti della fotografa Claudia Andujar. Che da anni sostiene le lotte degli indigeni yanomami nella foresta amazzonica brasiliana, scrive Christian Caujolle.

Testo di Christian Caujolle. Fotografie di Claudia Andujar - Internazionale 1343 31 gennaio-6 feffraio 2020


Susi Korihana-thëri, Catrimani, stato di Roraima, 1972-1974. Pellicola a infrarossi.
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Dalla serie Marcados, 1983. Doppia esposizione – Una maloca (abitazione usata dagli indigeni), vicino al fiume Catrimani, stato del Roraima, 1976. Pellicola a infrarossi – Ericó, stato del Roraima, 1983 – Urna funebre, Catrimani, stato di Roraima, 1976. Pellicola a infrarossi − Un giovane Wakatha-thëri con il morbillo viene curato da sciamani e paramedici della missione cattolica Catrimani, 1976 – Una maloca in fiamme, Catrimani, 1976 – Vicino a Catrimani, 1976 – Catrimani, 1974 – Yanomami genocide, 1989/2018 – Una donna Opiki-thëri, Perimetral Norte, stato del Roraima, 1981.

Christian Caujolle & Claudia Andujar

31 gennaio-6 feffraio 2020

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Susi Korihana-thëri, Catrimani, stato di Roraima, 1972-1974. Pellicola a infrarossi.
Una mostra a Parigi raccoglie i lavori più classici e quelli meno conosciuti della fotografa Claudia Andujar. Che da anni sostiene le lotte degli indigeni yanomami nella foresta amazzonica brasiliana, scrive Christian Caujolle.

Alcune manifestazioni artistiche, senza volerlo, richiamano l’attualità. È il caso, purtroppo, della grande esposizione dedicata al lavoro di Claudia Andujar sugli indigeni yanomami. Il 20 luglio 2019, quando la mostra La lotta yanomami veniva inaugurata all’Istituto Moreira Salles di São Paulo, in Brasile, tutti gli occhi erano puntati sull’Amazzonia in fiamme e sulle disastrose conseguenze per le popolazioni indigene locali. Ora la mostra arriva a Parigi, dopo la diffusione dei primi bilanci che parlano di un aumento del 30 per cento degli incendi tra il 2018 e il 2019 e di una spettacolare progressione della deforestazione (le due cose sono collegate) che in un anno, tra agosto 2018 e luglio 2019, ha superato per la prima volta dal 2008 i diecimila chilometri quadrati.

I volti nell’acqua, immagini di felicità e di condivisione con la natura.

La distruzione della foresta portata avanti per permettere l’allevamento intensivo e la coltivazione della soia mette in pericolo le popolazioni amerindie, e in particolare gli yanomami, che sono tra i più numerosi in questi territori tra il Venezuela e il Brasile, e sono profondamente legati alla foresta in cui vivono. Gli yanomami credono nello spirito della foresta, dove trovano tutto quello di cui hanno bisogno. Cercano di convivere in armonia e in osmosi con lei, prendendo solo il minimo necessario per non danneggiarla e per preservarla.

Sono questi elementi che colpirono Claudia Andujar quando scoprì gli yanomami nel 1971, mentre lavorava a un reportage sull’Amazzonia per la rivista Realidade. Nata a Neuchâtel, in Svizzera, da padre romeno ebreo e madre svizzera fuggita dal nazismo, Andujar andò a New York nel 1946 e lì sposò Julio Andujar, da cui si sarebbe separata nove mesi dopo. Nel 1955 si trasferì a São Paulo.

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Dalla serie Marcados, 1983. Doppia esposizione – Una maloca (abitazione usata dagli indigeni), vicino al fiume Catrimani, stato del Roraima, 1976. Pellicola a infrarossi – Ericó, stato del Roraima, 1983 – Urna funebre, Catrimani, stato di Roraima, 1976. Pellicola a infrarossi − Un giovane Wakatha-thëri con il morbillo viene curato da sciamani e paramedici della missione cattolica Catrimani, 1976 – Una maloca in fiamme, Catrimani, 1976 – Vicino a Catrimani, 1976 – Catrimani, 1974 – Yanomami genocide, 1989/2018 – Una donna Opiki-thëri, Perimetral Norte, stato del Roraima, 1981.

Dopo le sue prime opere di pittura astratta, lavorò per i giornali continuando però i suoi esperimenti di collage e montaggi. In ambito fotografico molte di queste tecniche le hanno permesso di andare oltre la dimensione documentaria, che resta comunque la base del suo lavoro. Lei stessa afferma che il progetto sugli yanomami è un permanente work in progress.

Di Andujar si conoscono soprattutto le immagini dallo stile classico, in bianco e nero, inquadrate con eleganza; i dolci ritratti di bambini e giovani; e i volti nell’acqua, immagini di felicità assoluta e di condivisione con la natura. Ma questa mostra permette di scoprire anche molte foto a colori realizzate con un approccio diverso.

In perfetta sintonia con i classici in bianco e nero, e nelle stesse situazioni dei bambini immersi nell’acqua, troviamo l’immagine di un volto puro che si distacca dallo sfondo di un azzurro intenso, semplice e al tempo stesso commovente. È una foto che convive con altre inquadrature più particolari, come le visioni intense e dorate di case in fiamme dopo rituali sciamanici o le doppie esposizioni di diapositive usate per rappresentare i sogni degli indigeni.

Un’altra serie, realizzata con una pellicola a infrarossi, richiama le foto che Andujar fece a São Paulo durante la dittatura, quando questo materiale era vietato e riservato solo alle autorità. Vediamo una città come se fosse intrisa di sangue perché gli infrarossi danno un colore rosso-violetto a tutto ciò che è verde. Attraverso ritratti e paesaggi, nudi e scene di vita quotidiana, che prendono tinte ocra, blu, viola, rosso intenso o verde inquietante, siamo trasportati in un universo irreale o surreale. In questo modo la fotografa voleva rappresentare anche la visione degli indigeni, con cui aveva vissuto per mesi, evocando lo spirito della foresta con foto mosse, attraversate da intensi raggi di luce, a volte sovraesposte, che danno ritmo al bianco e nero.

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La fine degli anni settanta segnò una svolta nella carriera della fotografa. L’apertura della strada transamazzonica nel sud del territorio degli yanomami portò epidemie che allora distrussero intere comunità. Andujar decise di dedicarsi alla lotta in difesa dei diritti degli yanomami e alla protezione della loro foresta.

Il suo impegno prese il sopravvento sul lavoro artistico e la fotografia diventò per lei una preoccupazione secondaria, destinata soprattutto a sostenere la causa degli indigeni. È in questo periodo che realizzò la celebre serie Marcados, in cui ritrasse gli yanomami durante una campagna di vaccinazione, a cui era stato dato un numero da portare al collo per poter essere riconoscibili ed essere seguiti nell’evoluzione delle loro condizioni di salute. Un lavoro documentario con una finalità pratica, che con il passare del tempo diventa l’uso di uno stile seriale e concettuale usato per raccontare una situazione drammatica.

Claudia Andujar ha viaggiato in tutto il mondo usando le sue immagini per far conoscere la lotta degli indigeni. E nel 1992 il governo brasiliano ha riconosciuto legalmente il territorio degli yanomami, una condizione essenziale per la loro sopravvivenza materiale e culturale. L’integrità di questo territorio, riconosciuta alla vigilia del summit della Terra che si tenne lo stesso anno a Rio de Janeiro, oggi è minacciata da un’invasione di massa di cercatori d’oro e dalla deforestazione provocata dai grandi allevatori.

Cercando nel suo archivio per realizzare questa mostra, Andujar ha ritrovato e ridato vita a molte ricerche artistiche che il suo impegno militante le aveva fatto trascurare.

Caratterizzate da un’immensa libertà e curiosità del mezzo utilizzato, le doppie esposizioni, le inquadrature decentrate o mosse, le composizioni senza vincoli geometrici si alternano a viste frontali equilibrate, a paesaggi dal respiro profondo, a dettagli di tronchi durante i rituali sciamanici.

Tutto si riassume nello scambio, in una pratica del dono, tra Andujar e gli yanomami, legati da una vita in comune di complicità e di battaglie. La fotografa offre sistematicamente un terzo del ricavato delle vendite delle sue stampe agli indigeni. Per Davi Kopenawa, il portavoce della comunità: “Claudia non è yanomami ma è una vera amica. Ha scattato foto di nascite, di donne e di bambini. Mi ha insegnato a lottare, a difendere il mio popolo, la mia terra, la mia lingua, i costumi, le feste, le danze, i canti e lo sciamanesimo. Per me è stata come una madre, mi ha spiegato molte cose. Non sapevo lottare contro i politici, contro i napëpë (i bianchi). È lei che mi ha dato un arco e una freccia, non per ucciderli, ma l’arco e la freccia della parola, della mia bocca e della mia voce per difendere il popolo yanomami. È molto importante vedere il suo lavoro. Ci sono molte immagini di yanomami che sono morti, ma sono importanti per far conoscere e rispettare il mio popolo. Chi non lo conosceva potrà vederlo in queste immagini. Il mio popolo è qui, voi non lo avete mai incontrato ma l’immagine degli yanomami è qui. È importante per voi e per me, per i vostri figli e figlie, per i giovani, per i bambini, per imparare a guardare e a rispettare il popolo yanomami brasiliano che abita su questa Terra da tanto tempo”.

Andujar da anni ripete che il giorno in cui scomparirà l’ultimo yanomami, la Terra sarà veramente in pericolo. “Sono legata agli indigeni, alla terra, alla lotta. Tutto questo mi tocca profondamente. Tutto mi sembra essenziale, forse ho sempre cercato la risposta al significato della vita in questo elemento fondamentale. Sono arrivata nella foresta amazzonica per questo motivo. Era qualcosa di istintivo, cercavo me stessa”. ♦ adr