Internazionale - Ribellarsi all’estinzione

Da Sotto le querce.

Jaap Tielbeke

Internazionale (De Groene Amsterdammer, Paesi Bassi), 28 giugno 2019

Foto di Ollie Millington

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Attivisti di Extinction rebellion a Londra, il 21 aprile 2019.
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Attivisti di Extinction rebellion a Londra, il 21 aprile 2019.

Per combattere l’emergenza climatica protestare non basta. Ecco le strategie dei nuovi movimenti.


I movimenti ambientalisti radicali come Extinction rebellion sono convinti che di fronte all’emergenza climatica protestare non basta: bisogna affrontare i responsabili.


Che si fa quando le fondamenta della vita sembrano sbriciolarsi a poco a poco? Quando i climatologi affermano che abbiamo solo dodici anni di tempo per evitare il disastro climatico? Quando gli ambientalisti sostengono che un milione di specie animali e vegetali è a rischio di estinzione? Quando nonostante tutti gli accordi internazionali, le emissioni di anidride carbonica aumentano anno dopo anno? Quando i politici antepongono la crescita economica alla vita delle generazioni future e, nonostante le pressioni degli attivisti, non si riesce a invertire la rotta? Quando la Terra rischia di riscaldarsi al punto da mettere in pericolo la sopravvivenza della specie umana?

Ci si piazza con uno striscione nel mezzo di un incrocio e si blocca il traffico, ci s’incatena alla sede della Shell, ci si tuffa in un canale di Amsterdam mentre passa il re dei Paesi Bassi o ci si mette a torso nudo nella tribuna del pubblico durante un dibattito parlamentare. Questa, almeno, è la strategia di Extinction rebellion, il movimento ambientalista che ad aprile, durante le autoproclamate “settimane dei ribelli”, ha messo in atto azioni di disturbo per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della crisi climatica. Gli attivisti di Extinction rebellion sono convinti che se le manifestazioni non ottengono risultati, bisogna passare alle maniere forti.

“Non è che ignorassi il problema del clima”, spiega Miriam, 33 anni, in un bar di Amsterdam. “Ma confidavo che le nostre istituzioni riuscissero a trovare una soluzione. Nel mio piccolo, consumavo in modo etico, firmavo petizioni e facevo donazioni alle ong. Pensavo che come semplice cittadina non potessi fare altro”. Poi però Miriam ha perso completamente la fiducia nella classe politica. Non vuole che il suo cognome sia pubblicato, perché ha partecipato ad azioni per cui potrebbe essere arrestata.

In occasione del giorno del re, quando Amsterdam si riempie di visitatori da tutto il paese e dall’estero, Miriam ha srotolato uno striscione mentre altri attivisti si tuffavano nel canale. Non c’erano abbastanza giubbotti di salvataggio, altrimenti si sarebbe tuffata anche lei.

Se l’interesse è un metro di giudizio, l’azione di protesta è stata un enorme successo: le telecamere dei tg ne hanno ripreso ogni momento, e nei giorni seguenti diversi mezzi d’informazione si sono chiesti chi ci fosse dietro Extinction rebellion e cosa volesse.

Se lo era chiesta anche Miriam alcuni mesi prima. Su Facebook aveva visto i video di un’azione di protesta a Downing street, a Londra, in cui gli attivisti facevano scorrere sulle strade il “sangue” delle generazioni future: un misto di acqua, farina e colorante alimentare. Era un’azione drammatica, ma anche allegra. A Miriam era saltato all’occhio che tra i partecipanti non c’erano solo “i soliti sospetti”, ma anche bambini e anziani.

Il suo scetticismo non era sparito del tutto all’inizio di quest’anno, quando è andata alla presentazione della sezione olandese di Extinction rebellion. Per Miriam, docente universitaria, era un mondo del tutto nuovo: non era mai stata un’attivista. Chi erano quelle persone? Degli estremisti, dei facinorosi? Si aspettava d’incontrare un gruppo di tetri militanti, ma con sua grande sorpresa si è trovata davanti delle persone molto simili a lei. “Le loro argomentazioni erano convincenti, l’organizzazione era ottima, avevano pensato a tutto. Questo mi ha dato fiducia”.

Extinction rebellion (Xr) è nata nel Regno Unito nel 2018, quando un gruppo di intellettuali e attivisti si è riunito per trovare una risposta a due quesiti fondamentali: com’è possibile che non si faccia niente per contrastare la crisi climatica? E come possiamo fare perché qualcosa si muova? Le campagne di sensibilizzazione delle organizzazioni ambientaliste tradizionali si stanno dimostrando inefficaci, hanno concluso i partecipanti all’incontro. Ormai da trent’anni si marcia, si protesta e si discute, ma nel frattempo la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera continua ad aumentare. Il movimento per il clima ha bisogno di nuovo slancio, di fare un passo avanti.

Interventi radicali

Da allora sono nate sezioni di Xr in 28 paesi, e migliaia di persone si sono unite al movimento. Ma è ancora difficile stabilire il numero esatto, perché l’organizzazione non ha una struttura formale. I ribelli del clima si riconoscono dal simbolo del movimento, una clessidra inscritta in un cerchio, a sottolineare che il tempo stringe. Il gruppo è riuscito subito ad attirare l’attenzione attraverso i cosiddetti die-in di massa, in cui i manifestanti crollavano a terra fingendosi morti in stazioni, piazze e centri commerciali. Xr non è l’unico movimento che ha adottato forme di protesta radicali. Nei Paesi Bassi gli attivisti del clima sono sempre più numerosi, distribuiti fra diversi gruppi che in parte si sovrappongono, pronti a intraprendere azioni di disubbidienza civile. Interrompono assemblee degli azionisti, occupano miniere e bloccano strade. Secondo loro queste azioni sono giustificate perché siamo in una situazione di emergenza. E le emergenze vengono prima della legge. Basta seguire un minimo le notizie per capire che le circostanze sono effettivamente gravi: il livello del mare potrebbe alzarsi di due metri entro la fine del secolo, la concentrazione di anidride carbonica nell’aria ha raggiunto i valori dei tempi in cui ancora crescevano alberi al polo Sud, la biodiversità sta calando rapidamente a causa dell’attività umana. “Se andiamo avanti così, ci attende un futuro nero”, hanno scritto 94 scienziati di diverse discipline in un documento di sostegno alle proteste di Xr.

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Il quotidiano britannico The Guardian ha deciso di aggiornare il suo vocabolario: anziché di “cambiamento climatico”, d’ora in avanti parlerà soprattutto di “crisi climatica”. Perché di questo si tratta. Ne è convinto anche il giornalista David-Wallace Wells, autore di The uninhabitable Earth (La Terra inabitabile), in cui descrive nel dettaglio il nostro futuro su un pianeta sempre più caldo. Non possiamo liquidare gli attivisti come se fossero degli isterici, scrive Wells, perché “è la realtà che è isterica”.

Su pressione dei ribelli del clima, il parlamento britannico ha proclamato un’emergenza climatica, anche se per il momento è solo una misura simbolica. Xr chiede che le emissioni di anidride carbonica di stati ricchi come il Regno Unito e i Paesi Bassi siano portate a zero entro il 2025, cioè venticinque anni prima della scadenza fissata dagli attuali obiettivi. “Chiediamo ciò che è necessario, non ciò che è fattibile”, dice Miriam. “C’è bisogno di cambiamenti rivoluzionari, perché non ce la caveremo con i piccoli passi. In genere le rivoluzioni mi spaventano, in molti casi preferisco i miglioramenti graduali. Ma in questa situazione non ce lo possiamo permettere. Gli interventi radicali sono l’unica opzione realistica”.

Secondo Xr per realizzare questi cambiamenti rivoluzionari l’intero sistema politico deve farsi da parte. Le politiche sul clima dovrebbero essere decise da un’assemblea di “cittadini comuni” che, a differenza dei “parlamenti corrotti”, non guarderebbero solo agli interessi dell’industria fossile. “All’inizio quest’idea non mi convinceva del tutto”, riconosce Miriam. “Sono sempre stata una sostenitrice della democrazia rappresentativa. Ma il cambiamento climatico è una questione diversa. Richiede una visione a lungo termine che a molti politici manca. I governi non hanno il coraggio di adottare misure radicali perché temono di essere puniti alle urne. Una commissione di cittadini non eletti, ma estratti a sorte, non dovrebbe preoccuparsi di questo. Avrebbe un solo compito: evitare la nostra estinzione”.

Miriam, come molti altri ribelli del clima, la considera una questione di vita o di morte. Gli attivisti di Xr sono convinti che non solo molti animali, ma anche gli esseri umani rischiano di estinguersi. A parte qualche profeta di sventura, la maggior parte degli scienziati pensa che sia un’esagerazione: anche se secondo le stime più pessimistiche nei prossimi secoli la temperatura potrebbe salire di sei gradi, rendendo inabitabili vaste aree del pianeta, la fine dell’umanità non è ancora all’orizzonte. I rapporti meno allarmisti delle Nazioni Unite non sono comunque più rassicuranti. Alluvioni, carestie, migrazioni di massa, guerre: è difficile prevedere con esattezza le conseguenze del riscaldamento globale, ma è chiaro a tutti che ci attende un periodo molto buio se l’economia fossile continua a marciare a pieno regime. Ma come si ferma una macchina così ben oliata?

Da sapere Un apartheid climatico

◆ Il pianeta rischia un “apartheid climatico”, in cui i ricchi hanno i mezzi per sfuggire alla fame e ai conflitti “mentre il resto del mondo soffre”. è l’allarme lanciato da Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà, nel rapporto pubblicato il 25 giugno 2019. Secondo Alston, il cambiamento climatico colpirà soprattutto i più poveri, ma minaccia anche la democrazia e i diritti umani. Rischia inoltre di annullare 50 anni di progressi e “potrebbe far cadere in povertà 120 milioni di persone in più entro il 2030”.
◆ Il 22 giugno 2019 centinaia di attivisti contro il cambiamento climatico hanno fatto irruzione nella miniera di carbone a cielo aperto di Garzweiler, nell’ovest della Germania. Sono stati sgomberati dalla polizia, che ha usato spray urticante. Secondo alcuni sondaggi recenti, il cambiamento climatico è la principale preoccupazione dei tedeschi, e il partito dei verdi ha più consensi dei cristianodemocratici.
◆ Il 20 giugno il consiglio europeo ha bocciato una proposta che avrebbe messo l’azzeramento delle emissioni di anidride carbonica entro il 2050 tra gli obiettivi dell’Unione europea. La misura è stata bocciata dal veto di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca ed Estonia. Il testo finale contiene un generico impegno a “garantire una transizione verso un’Ue climaticamente neutrale”.

La prima azione

Novembre 2017. Sul bordo di un prato nel bacino della Ruhr, Egbert Born si trova faccia a faccia con la polizia tedesca. Gli agenti sono disposti a ranghi serrati, in una mano hanno il manganello e con l’altra tengono i cani al guinzaglio. Quando la folla cerca di forzare lo schieramento, qualcuno tira fuori lo spray al peperoncino. Qua e là delle persone vengono buttate a terra e picchiate. Con la coda dell’occhio, Born vede un cavallo della polizia che calpesta un arrestato. Lui, invece, riesce a evitare la carica e raggiunge la sua meta: la miniera di lignite dell’azienda energetica Rwe.

Londra, 21 aprile 2019
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Londra, 21 aprile 2019
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È una scena che si ripete ogni anno dal 2015. Migliaia di attivisti del clima arrivano in Renania da tutta Europa e, vestiti con delle tute bianche, cercano di occupare le miniere. “Nel 2016 siamo riusciti a paralizzare quasi completamente la centrale a carbone della Vattenfall”, dice Born, 50 anni, che indossa una maglietta azzurro sbiadito e ha lunghi capelli castani che cominciano a ingrigirsi all’altezza delle tempie.

Al tavolino di un bar sotto il sole di Amsterdam mi racconta come è diventato un ambientalista militante. “È una cosa relativamente nuova per me. Non sono sempre stato politicamente attivo”. Circa cinque anni fa ha cominciato a studiare più a fondo il problema del cambiamento climatico: “I pareri scientifici erano molto più allarmanti delle notizie diffuse dai mezzi d’informazione. I giornali e le tv riportano spesso resoconti parziali, come se ci fosse incertezza nel mondo scientifico. Ho scoperto che la situazione era molto più grave di quanto pensassi. Da quel momento non ho più potuto fare finta di niente”.

La prima azione di protesta a cui ha partecipato è stata durante il vertice sul clima di Parigi, nel 2015. In città l’atmosfera era tesa. Erano trascorse poche settimane dall’attentato al Bataclan e il governo aveva dichiarato lo stato d’emergenza. Le manifestazioni pubbliche erano state proibite per motivi di sicurezza. Molti attivisti avevano interpretato il divieto come un tentativo di tappargli la bocca, spiega Born. “Ma noi non siamo terroristi. Vogliamo manifestare pacificamente”. Nell’ultimo giorno del vertice più di diecimila manifestanti hanno comunque sfilato per le strade, scortati dalla polizia antisommossa.

La protesta ha colpito profondamente Born, che dopo essere tornato da Parigi si è impegnato nel movimento per il clima. È uno dei fondatori di Code rood (codice rosso), un movimento di cittadini nato nei Paesi Bassi che lotta contro l’industria dei combustibili fossili. Se una parte del movimento per il clima cerca di spingere aziende come la Shell a diventare più verdi attraverso proteste e azioni giudiziarie, Code rood vorrebbe annientarle. Il suo grido di battaglia è “Shell must fall!” (la Shell deve cadere).

Questa intransigenza è un tratto distintivo di Code rood, che come Xr predilige lo strumento della disubbidienza civile. Recentemente a Groninga, nei Paesi Bassi, il gruppo ha occupato la sede dell’azienda Gasunie. Nel 2017 ha organizzato una protesta per bloccare il trasbordo di carbone nel porto di Amsterdam. Born non ha preso la decisione di violare la legge a cuor leggero: “Non è una cosa da poco, ho dovuto pensarci bene. Ma l’emergenza climatica è un tema importantissimo. E per me le azioni di protesta devono soddisfare una serie di requisiti. Devono avere un obiettivo chiaro, essere nonviolente e tenere conto delle possibili conseguenze sul piano legale”.

Il sociologo del diritto Kees Schuyt ha dato una definizione simile della disubbidienza civile: le azioni illegali sono compiute in piena coscienza e senza l’uso della violenza; la forma della protesta è coerente con il suo obiettivo; chi le compie è pronto a farsi arrestare e perseguire legalmente; tutti gli strumenti legali sono già stati usati; chi protesta tiene conto il più possibile dei diritti degli altri. “La disubbidienza civile è un tentativo di modificare l’opinione comune e le percezioni ufficiali su ciò che è legittimo e ciò che non lo è”, ha scritto Schuyt nel suo libro Recht, orde en burgerlijke ongehoorzaamheid (Diritto, ordine e disubbidienza civile).

Dopo Occupy

Martin Luther King e Gandhi sono entrati nei libri di storia come eroi perché praticavano una resistenza pacifica, motivata dall’indignazione morale. Questo, secondo Schuyt, li distingue dai criminali e dai rivoluzionari. Le trasgressioni dei criminali non hanno obiettivi nobili e i rivoluzionari mirano al rovesciamento del sistema, se necessario anche attraverso la violenza. I manifestanti pacifici, invece, riconoscono la legittimità delle norme e delle istituzioni esistenti, ma violano di proposito alcune leggi per metterne in discussione le motivazioni.

Londra, 25 aprile 2019
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Londra, 22 aprile 2019
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Gli attivisti del clima vogliono mettere in discussione la legittimità dell’industria fossile. Ritengono che le nostre leggi debbano essere aggiornate per evitare che le aziende energetiche continuino a comportarsi come hanno sempre fatto. “A volte ci dipingono come facinorosi, ma sono solo sciocchezze”, dice Hanneke di Code rood. “Prima di tutto, noi non creiamo disordini, ma protestiamo. E non lo facciamo per piacere, ma perché è necessario. Violare la legge è legittimo, perché queste aziende sono dannose ed è sbagliato che le nostre leggi le proteggano”. Ma è più facile a dirsi che a farsi, come ha constatato Hanneke durante la protesta nel porto di Amsterdam. “Sul piano razionale sono tranquillamente in grado di difendere la mia decisione, ma su quello emotivo è stato più difficile”, spiega. “Cresciamo in una società costruita sull’idea che i cittadini devono attenersi a quello che la legge prescrive. Per me è stata quasi una questione di identità: sono una persona che viola la legge? C’era un confine che dovevo superare nella mia testa. Ne parliamo spesso, all’interno del movimento. Per ogni azione di protesta spieghiamo chiaramente quali sono i rischi e chiediamo agli attivisti fin dove vogliono spingersi. Devono essere consapevoli delle possibili conseguenze”.

Alla fine Hanneke ha preso la decisione di varcare quella soglia mentale. Ha marciato verso il porto insieme a centinaia di attivisti, accompagnati dal battere dei tamburi (“Ora capisco perché gli eserciti avevano i tamburini”). Hanno forzato un cancello e occupato il terreno. Le montagne di carbone davano subito un’idea tangibile dell’economia fossile, racconta Hanneke: “Improvvisamente mi sono resa conto di quanto la battaglia fosse dura. Ci si sente davvero piccoli. È quasi impossibile pensare a quante cose devono cambiare. A volte mi sento scoraggiata”. Per farsi coraggio, i ribelli del clima guardano agli esempi del passato. A movimenti che hanno combattuto lotte altrettanto difficili e che, contro ogni aspettativa, sono usciti vincitori, rendendo il mondo un luogo migliore. Per esempio le suffragette, che protestarono finché le donne non ottennero il diritto di voto. O Rosa Parks, che si ribellò a un sistema ingiusto e riuscì da sola a dare un impulso decisivo al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.

“Questo modo di pensare radicale, la ribellione contro lo status quo, è sempre stato l’origine del progresso”, scrive la storica dell’arte Eva Rovers nel suo libro Practivism, un “manuale per ribelli in incognito” in cui dà consigli pratici a chi vuole cambiare il mondo. Secondo Rovers la rivolta è uno strumento per sfuggire alla disperazione che si può provare di fronte a un’ingiustizia profondamente radicata. Come si fa a provocare un cambiamento di sistema? Alleandosi con chi la pensa come noi, risponde Rovers.

Ma le rivolte collettive non hanno sempre la stessa probabilità di successo. Nel 2011 in tutto il mondo scoppiarono le proteste del movimento Occupy. I manifestanti si definivano il 99 per cento della popolazione mondiale e volevano mettere fine a un capitalismo che faceva solo gli interessi dell’1 per cento. In mancanza di una strategia chiara, però, alla fine le proteste si sono esaurite senza raggiungere l’obiettivo. La lezione da trarre, scrive Rovers, è che una buona preparazione e un programma preciso sono fondamentali.

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I ribelli del clima hanno fatto tesoro di questa lezione: Xr ha una strategia molto ben definita, spiega Miriam. “Le autorità possono reagire in due modi alle azioni di disubbidienza civile: possono scegliere di non intervenire, con il rischio che sempre più persone partecipino, o possono scegliere di soffocare le proteste, ma in quel caso aumenterebbe la visibilità e la solidarietà verso il movimento. Bisogna mettere il governo in una posizione insostenibile. Alla fine si sentirà costretto a trattare”.

In questa prospettiva Xr ha già formulato le sue richieste nei Paesi Bassi. Il movimento vuole che il governo dica la verità sul cambiamento climatico, cioè che riconosca lo stato di emergenza climatica. E che le emissioni di anidride carbonica siano azzerate entro il 2025 (mentre l’attuale legge sul clima stabilisce l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 49 per cento rispetto al 1990 entro il 2030). Inoltre dev’essere istituita un’“assemblea di cittadini” che vigili sull’attuazione del piano per il clima. Questa richiesta è la più complessa, secondo Miriam. “Xr non vuole legarsi a un partito e cerca, secondo me giustamente, di superare la divisione tra destra e sinistra. Le prime tre richieste sono piuttosto concrete, ma il concetto di ‘giustizia’ è ovviamente soggetto a interpretazione”.

Dato che il governo è l’unico attore che può soddisfare queste richieste, Xr prende di mira esclusivamente i politici: sono loro che hanno il dovere morale di pensare al bene delle persone e il potere di promuovere leggi che portino a rinunciare definitivamente al petrolio e al carbone. Gli attivisti di Code Rood invece scelgono un’altra strategia: considerano l’industria fossile il nemico numero uno del pianeta, da combattere con le unghie e con i denti. “Ovviamente non c’illudiamo di risolvere il problema fermando una centrale, ma in questo modo puntiamo i riflettori sui responsabili dell’inquinamento”, spiega Hanneke. “Vogliamo focalizzare il dibattito. Abbiamo provato a chiedere educatamente alle aziende energetiche di smettere di distruggere il pianeta, ma non è servito a niente. Ora diciamo basta. Sì, il gioco si fa duro”.

La strategia migliore

Questo inasprimento preoccupa le autorità: cosa succederà se i politici rimarranno sordi alle richieste dei movimenti per il clima? Per il momento le azioni di protesta sono pacifiche e gioiose, ma quale sarà il prossimo passo degli attivisti? In un documento recente, il coordinamento per la lotta al terrorismo e la sicurezza dei Paesi Bassi ha scritto che negli ultimi tempi “si sono moltiplicate le azioni di protesta per sensibilizzare le persone ai temi del clima. In alcuni casi è stata violata la legge”. La situazione è monitorata con grande attenzione. Diversi militanti ambientalisti hanno raccontato che la polizia ha cercato di reclutarli come informatori.

Gli attivisti che ho intervistato per questo articolo escludono categoricamente l’uso della violenza e sostengono di non aver notato segnali di discordia su questo punto all’interno del movimento per il clima. Ma Hanneke non vuole condannare per principio gli atti di violenza. “Durante la seconda guerra mondiale anche la resistenza organizzò azioni violente. Ora ci sembra logico, ma è probabile che all’epoca molti la pensassero diversamente. Non è tutto bianco o nero. Per esempio, non mi stupirei se gli attivisti nigeriani decidessero di distruggere le condutture della Shell. Sarebbe un’azione violenta? Io non lo farei, ma non mi sentirei di condannarli”. Anche Kees Schuyt è convinto che le azioni pacifiche non siano necessariamente più etiche di quelle violente. “Non c’è un confine assoluto tra nonviolenza e violenza, in base al quale la prima è il bene e la seconda il male”, scrive. Il sociologo spiega tuttavia le ragioni per cui secondo lui la ribellione pacifica è preferibile. La nonviolenza, per esempio, “tiene aperto il dialogo” e offre “vantaggi tattici”, mentre l’uso della violenza può innescare una spirale negativa che “sposta verso il basso il confine di ciò che è umano”.

È una scena che si ripete ogni anno. Migliaia di attivisti arrivano in Renania da tutta Europa e cercano di occupare le miniere.

Ma forse l’argomento più importante a sostegno della nonviolenza è la sua maggiore efficacia. Nel saggio Why civil resistance works (Perché la resistenza civile funziona), le ricercatrici Erica Chenoweth e Maria J. Stephan analizzano più di trecento conflitti tra il 1900 e il 2006 e concludono che la protesta pacifica è molto più efficace di quella violenta. I cittadini “comuni” infatti sono più portati ad aggregarsi a proteste in cui non si usa la violenza. E maggiore è la capacità d’attrazione di una protesta, maggiore è la sua capacità di fare pressione sulle autorità. Inoltre nessuno si meraviglia quando le forze dell’ordine soffocano una protesta violenta, mentre reprimere una protesta pacifica può avere pesanti effetti collaterali.

Per il momento il confronto nei Paesi Bassi è ancora civile. Xr informa la polizia di tutte le sue azioni, e nemmeno Code rood cerca lo scontro fisico. Nel 2016, però, Egbert Born è finito in prigione per aver occupato il terminal del carbone del porto di Amsterdam. È stato rilasciato la sera stessa, ma due anni dopo ha ricevuto una lettera: il caso sarebbe stato archiviato, a condizione che per i due anni successivi Born non commettesse altre “azioni punibili per legge” e non si macchiasse di “altre forme di cattiva condotta”.

“Ma che diamine voleva dire?”, si chiede. “Mi è sembrato che volessero limitare il mio diritto a protestare. Altrimenti perché avrebbero posto una condizione così vaga?”. Con l’aiuto del collettivo di giuristi Pilp, Born ha fatto ricorso e ha vinto. “Per fortuna”, dice oggi, perché non ha intenzione di smettere di protestare, e si è unito anche a Extinction rebellion. “Abbiamo bisogno di modi sempre nuovi per attirare l’attenzione sulla crisi climatica. Si fa ancora troppo poco. Se il governo vuole davvero evitare che le proteste aumentino, deve solo adottare delle misure serie sul clima”. ◆


Ogni protesta cambia il mondo

Rebecca Solnit

The Guardian, Regno Unito

L’attivismo mette sempre in moto una trasformazione, anche quando la situazione sembra immobile. E il merito è spesso delle persone considerate impotenti.


Espandi al massimo e avrai una rivoluzione, riduci al minimo e avrai l’ostruzionismo di singoli individui che sarà visto come semplice ostinazione o passerà inosservato. Quella che chiamiamo protesta identifica un aspetto della resistenza e del potere popolare, una forza così intrecciata alla storia e alla vita di tutti i giorni che, concentrandosi solo sui gruppi di persone che prendono posizione nello spazio pubblico, non si apprezzerebbe buona parte della sua influenza. Ma le persone che prendono posizione hanno cambiato il mondo più volte, rovesciato regimi, ottenuto diritti, spaventato tiranni, bloccato oleodotti, dighe e progetti di deforestazione. Esistono da sempre, dai tempi della rivoluzione francese, di quella di Haiti contro la Francia, e da prima ancora: dalle rivolte contadine alla resistenza dei popoli nativi contro i colonizzatori fino alla schiavitù in Africa e in America.

Continueranno a esistere. E oggi, grazie agli attivisti che protestano contro la crisi climatica, ai gruppi femministi rinvigoriti in molte parti del mondo, ai militanti antirazzisti e per i diritti umani, la protesta è una forza che impregna ogni cosa.

Proprio ora in Florida l’Unione dei lavoratori di Immokalee sta creando una nuova alleanza con gli studenti per difendere i diritti dei lavoratori del settore agricolo, prendendo di mira la catena di fast food Wendy’s. Questi lavoratori dimostrano che esiste un potere diverso da quello istituzionale, militare e finanziario. Sarebbe facile definire impotenti i lavoratori migranti. Invece queste persone hanno capito la natura del potere: per avere una paga dignitosa, dovevano ottenere qualche centesimo in più per ogni scatola di pomodori; ma fare pressione sui loro padroni non ha funzionato, così hanno rivolto la loro attenzione ai clienti, ai grandi supermercati e alle catene di fast-food, prendendoli di mira uno alla volta, creando alleanze, campagne d’informazione, organizzando marce e proteste. E hanno vinto. Nel 2005 hanno conquistato la Taco Bell. Poi McDonald’s. Poi Burger King, Whole Foods Market e Subway, e sono andati avanti. Hanno combattuto la schiavitù moderna, mandato in prigione gli schiavisti agricoli e stabilito norme sulle condizioni di lavoro che recentemente sono state rafforzate per affrontare l’epidemia di molestie e abusi sessuali nei campi. “Todos somos líderes” (Siamo tutti leader) è uno dei loro slogan, che si basa sull’idea che il potere sia ovunque e che chiunque lo possa esercitare.

Spesso si tende a ignorare che la battaglia più importante si combatte nell’immaginario collettivo, e si vince anche con i libri, le idee, le canzoni, i discorsi, e perfino con parole nuove o nuovi sistemi di riferimento per mali antichi. Dopo la rivoluzione americana John Adams, il secondo presidente degli Stati Uniti, dichiarò che la guerra era stata combattuta “nelle menti e nei cuori delle persone” prima ancora che le ostilità cominciassero. Cosa rende intollerabile una cosa tollerata a lungo? Cosa porta le persone che non sono colpite direttamente da un problema a interessarsene? Cosa spinge i politici a riconoscere che non fare nulla è più pericoloso che fare qualcosa?

Un’altra cosa da ricordare, a proposito delle grandi azioni collettive – che si tratti delle rivolte contro la globalizzazione degli anni novanta o dei cortei delle donne in tutto il mondo nel 2017 – è che non sono i semi ma il raccolto di una mutazione nell’immaginario collettivo. Sono come i funghi che spuntano dopo la pioggia, che sono il frutto concreto di un fungo sotterraneo molto più ampio, che non vediamo. La pioggia spinge il fungo a uscire fuori, ma il fungo era vivo e sano anche prima, quando era invisibile. La pioggia è un evento. Pensate al divieto d’ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di alcuni paesi a maggioranza musulmana voluto da Donald Trump, che ha spinto gli statunitensi a protestare negli aeroporti di tutto il paese. O a come l’incapacità dei governi di dare una risposta alla crisi climatica ha spinto gli attivisti di Extinction rebellion a occupare alcuni luoghi strategici di Londra ad aprile.

Queste azioni pubbliche hanno spesso delle conseguenze immediate. Il fatto che il parlamento britannico abbia dichiarato un’emergenza climatica all’inizio di maggio è indubbiamente una risposta a quell’azione, ma naturalmente i poteri ufficiali – chiamiamoli poteri emersi – non amano riconoscere i poteri sotterranei, così generalmente li ignorano o li demonizzano. Ma noi non dobbiamo fare lo stesso. In questi grandi momenti collettivi le persone hanno fatto sentire la loro voce perché si sono interessate. E quando hanno fatto sentire la loro voce hanno trovato un nuovo senso di solidarietà e potere, che ha generato ulteriori possibilità.

Catena liberatrice

La liberazione è contagiosa, come idea e come processo. Una delle più straordinarie catene di eventi dell’ottocento è stata messa in moto dalle donne che facevano parte del movimento per l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Quando si videro negata la possibilità di intervenire alla conferenza antischiavista di Londra del giugno del 1840, denunciarono la mancanza di diritti, libertà e uguaglianza nella loro stessa organizzazione. Il risultato fu la nascita del movimento per il suffragio. Ci sono voluti ottant’anni per ratificare il diciannovesimo emendamento alla costituzione degli Stati Uniti, secondo cui a nessuno può essere negato il diritto di voto “in base al sesso” . Nel frattempo sono nati movimenti per il diritto di voto in altri paesi. Non so esattamente come il movimento per i diritti civili dei neri abbia scatenato altri movimenti per la giustizia razziale negli Stati Uniti e per i diritti degli ispanici, degli asiatici americani e dei nativi americani, ma so che cinquant’anni fa l’occupazione dell’isola di Alcatraz da parte dei nativi ebbe un impatto enorme: come le proteste del 2016 nella riserva indigena di Standing Rock contro l’oleodotto Dakota access, andarono ben oltre gli obiettivi ufficiali.

Londra, 21 aprile 2019
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Londra, 23 aprile 2019
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Ho descritto queste grandi azioni collettive come il raccolto dei semi piantati tempo prima. Il raccolto maturo genera altri semi. La resistenza a Standing Rock ha spinto Alexandria Ocasio-Cortez a candidarsi a un seggio alla camera negli Stati Uniti, e la sua vittoria e le sue iniziative da parlamentare hanno dato risposte straordinarie alla crisi climatica, per esempio la proposta del new deal verde, un grande piano di investimenti basato sulle energie rinnovabili. La battaglia di Standing Rock ha anche portato molte persone non native a interessarsi dei diritti degli indigeni.

“Potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera”, ha scritto una volta Pablo Neruda. È una frase bellissima che con l’emergenza climatica è diventata una verità letterale. La primavera quest’anno si è presentata sotto forma di devastanti alluvioni in Mozambico e negli Stati Uniti centrali, di tempeste di neve pericolosamente tardive, di caldo record nell’Artico. Non abbiamo fermato la primavera, ma l’abbiamo distorta. Il futuro della Terra dipenderà dalla nostra capacità di rispondere alla crisi climatica e di limitarne le conseguenze trasformando la produzione e il consumo d’energia, l’agricoltura e la gestione delle foreste, le nostre priorità e percezioni. I cambiamenti su questi temi sono avvenuti grazie soprattutto alla spinta dal basso, ad attivisti del clima dalle Filippine all’Alaska, capaci di raggiungere obiettivi straordinari negli ultimi decenni: la chiusura di centrali alimentate a carbone, la limitazione degli impianti di gas naturale e carbone, degli oleodotti e delle attività di fracking. Una rivoluzione tecnologica con energia eolica e solare ci permetterà di entrare in un’era senza combustibili fossili, ma per farlo bisogna contrastare i poteri dei giganti petroliferi, degli speculatori e dei governi.

Immaginare

È stato, e sarà, un conflitto tra chi è apparentemente senza potere e chi è apparentemente molto potente. Dovremo ricordarci delle nostre vittorie passate, del potere della protesta, ma anche dell’arte, delle trasformazioni dell’immaginazione. Ma è più di un conflitto. La risposta alla crisi climatica deve essere una trasformazione totale, dai sistemi di trasporto all’immaginazione. Alcuni si rendono conto che la Terra è un luogo in cui tutto è meravigliosamente e terribilmente interconnesso, nel quale il carbone che oggi bruciamo, o non bruciamo, riguarda da vicino il clima del futuro, in cui le foreste sono la tecnologia più raffinata che esista per bloccare le emissioni di anidride carbonica, e in cui sono i giovani a guidarci.

Rebecca Solnit è una scrittrice e femminista statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Chiamare le cose con il loro nome (Ponte alle Grazie 2019).

Greta Thunberg è la più nota di una nuova generazione di attivisti climatici, ma anche i 21 ragazzi che nel 2015 hanno fatto causa al governo degli Stati Uniti in Oregon per le politiche ambientali, i leader di Sunrise movement e di Extinction rebellion hanno un ruolo importante. Ci sono persone simili in ogni parte del mondo. Come i 25 attivisti che hanno vinto una causa in Colombia per fermare la deforestazione. Il potere che queste persone hanno, e che noi abbiamo, sarà all’altezza di questa grande crisi se saremo in grado d’immaginare un mondo diverso, e di renderlo possibile con gli strumenti che abbiamo sempre avuto, ma non sempre abbiamo riconosciuto. ◆