Internazionale - Il mito del consumatore verde

Da Sotto le querce.
Versione del 23 ago 2020 alle 14:54 di GFA (Discussione | contributi) (Jaap Tielbeke)
(diff) ← Versione meno recente | Versione attuale (diff) | Versione più recente → (diff)

Jaap Tielbeke

21 agosto 2020

Da anni le aziende inquinanti cercano di scaricare sugli individui la responsabilità dell’emergenza ambientale. Ma cambiare le proprie abitudini non basta: l’unico modo di fare la differenza è l’azione politica.

Per contrastare questa sensazione dobbiamo fare i conti con il mito del consumatore verde, che ormai da trent’anni confonde le acque del dibattito sulla sostenibilità. Finché ci concentreremo sui comportamenti individuali non ci avvicineremo a una soluzione. Per un cambiamento strutturale serve l’intervento politico. Perché se da un lato alcuni cittadini si vergognano della propria impronta ecologica, dall’altro le aziende inquinanti tengono consapevolmente in piedi un sistema distruttivo.


Negli anni settanta gli scienziati del Club di Roma avevano messo in guardia dai “limiti dello sviluppo”, ma negli anni novanta i loro allarmi erano già considerati obsoleti. Il concetto di “limite” è stato soppiantato da quello più ottimista dello “sviluppo sostenibile” e di “responsabilità sociale d’impresa”. I politici consideravano le aziende partner importanti nella lotta al cambiamento climatico e gli amministratori delegati vedevano nuove opportunità commerciali nella crescente coscienza ecologica dei consumatori.


Secondo Foer i produttori di carne sarebbero cambiati in risposta alle nuove esigenze del mercato. C’è qualche motivo per essere ottimisti: Kentucky Fried Chicken e Burger King hanno inserito opzioni vegetariane nei loro menù, e Beyond Meat, produttore di hamburger vegani, ha riscosso un enorme successo in borsa. Siamo forse sulla buona strada?

Alla presentazione, con gli interventi del pubblico è arrivata l’inevitabile domanda: “E allora la Cina? I cinesi stanno diventando più ricchi e vogliono mangiare carne”. Foer era impaziente di rispondere. “Per fortuna si sbaglia”, ha detto con gentilezza. “Il governo cinese vuole dimezzare il consumo di carne entro il 2030. È un obiettivo più ambizioso di quelli che si sono posti tutti i paesi occidentali”.

Ci ho messo un po’ a rendermi conto che la risposta di Foer rivelava il punto debole del suo discorso. La riduzione del consumo di carne in Cina è una decisione politica imposta dall’alto. Probabilmente la classe media cinese preferirebbe mangiare bistecca più spesso, ma lo stato cerca di mettere un limite. Lo stesso vale per la seconda guerra mondiale: il governo statunitense non aspettò che i cittadini comprassero meno benzina o pagassero più tasse di propria iniziativa, ma prese delle misure e la popolazione le accettò.

Il parallelo con la mobilitazione bellica è efficace, ma per ragioni diverse da quelle che sostiene Foer. Dimostra che per contrastare una minaccia esistenziale abbiamo bisogno di un governo attivo e di grandi piani. E diversamente da quanto diceva Foer, non combattiamo contro noi stessi, ma contro nemici chiaramente identificabili. Esistono industrie potenti che fanno grandi profitti inquinando il pianeta e assumono agenzie di comunicazione per gettare sabbia negli occhi dei cittadini e dei politici in modo da poter continuare ad agire indisturbate.

Quindi no: io non sono la Shell. Dipendo dalla Shell, ma questa è un’altra storia. Attraverso le loro campagne di disinformazione, le aziende petrolifere ci hanno deliberatamente resi dipendenti dai loro prodotti e continuano a fare tutto quello che possono perché restiamo tali. Un singolo automobilista può tutt’al più optare per un modello meno inquinante o, se può permetterselo, per un’auto elettrica, mentre la Shell può decidere di investire nelle fonti rinnovabili anziché in nuovi gasdotti e piattaforme. Il governo può scegliere se destinare i fondi alla rete stradale o al trasporto pubblico. A differenza dei consumatori, gli amministratori delegati e i politici hanno il potere di dare forma alle infrastrutture e orientare la società in una direzione più sostenibile.

Lo stesso discorso vale per i nostri comportamenti alimentari e per come è prodotto quello che mangiamo. La politica agricola dell’Unione europea ha incentivato gli allevatori ad aumentare costantemente la produzione. Secondo Greenpeace ogni anno trenta miliardi di euro, circa un quinto del budget europeo complessivo, sono destinati all’allevamento intensivo e ai produttori di mangimi. I predicatori della teoria secondo cui la tutela dell’ambiente comincia da noi prestano poca attenzione a queste cose.


Molte campagne ambientaliste insistono sul tema della responsabilità individuale, che offre una prospettiva d’azione concreta. Le analisi astratte sul “sistema” rischierebbero invece di offrire un alibi per non fare nulla. Sembra logico, ma i ricercatori dell’università della California hanno fatto un esperimento e sono giunti alla conclusione opposta: instillando un senso di colpa si ottiene un effetto contrario a quello sperato. Chi è spinto a riflettere sulle cause strutturali del cambiamento climatico tende a donare più soldi alle campagne ambientaliste rispetto a chi si interroga sulla propria condotta individuale. Un dato forse ancora più sorprendente è che i primi sono anche più disposti a cambiare il proprio stile di vita. Sotto vari punti di vista, perciò, una maggiore attenzione alla responsabilità collettiva si traduce in una maggiore volontà di agire.

Non stupisce che molti abbiano una reazione di rifiuto quando qualche eco-snob compiaciuto li rimprovera per aver messo il latte nel caffè o si vanta dei pannelli solari che ha fatto installare sul tetto di casa. Non tutti possono permettersi uno stile di vita verde. I sostituti della carne sono cari, un’auto elettrica costa molto più di un diesel usato e migliorare l’efficienza energetica di un’abitazione richiede un grosso investimento iniziale. Il rischio è che vengano a crearsi due mondi distinti: una “classe verde” che consuma in modo etico e una “classe grigia” che pensa più alla fine del mese che alla fine del mondo.

In realtà la “classe grigia” contribuisce di meno al riscaldamento globale. Gli studiosi hanno concluso più volte che redditi più alti corrispondono a maggiori emissioni di gas serra. Il perché è facile da capire: chi guadagna di più tende a vivere in case più grandi, ad andare più spesso in vacanza e a fare più acquisti. I ricchi possono installare lampadine a risparmio energetico e bere latte d’avena invece che di mucca, ma le loro abitudini di consumo hanno un forte impatto ambientale. La regola generale è: maggiore è il reddito, maggiore è l’impronta ecologica. Anche se si guida una Tesla.