Il Foglio Quotidiano - Contro l'agricoltura di una volta

Da Sotto le querce.

Antonio Pascale

Su cibo e agricoltura non si può ragionare soltanto per sentito dire.

20 agosto 2016

Il cibo biologico non aiuta il mondo. Lomborg smentisce i benefici per la salute del mangiare bio. Così

USA Today

Il cibo nei nostri supermercati sta cambiando. Le maggiori corporazioni dell’alimentare stanno investendo sempre di più in prodotti biologici. (…) Il cibo biologico è divenuto il prodotto dalla crescita più rapida nel settore alimentare degli Stati Uniti”. Così scriveva ieri su Usa Today l’economista e “ambientalista scettico” Bjørn Lomborg. “Comprare prodotti biologici ci dà l’impressione di stare aiutando noi stessi e il pianeta. La verità però è diversa: non ci sono benefici per la salute derivanti dal cibo biologico. E, molto probabilmente, è peggio per l’ambiente”. Per sfatare il mito della cosiddetta “aureola salutista”, Lomborg fa riferimento a dati inequivocabili. “Nel 2012 il Center for Health Policy dell’Università di Stanford ha prodotto la comparazione più ampia degli ultimi quattro decenni tra cibi normali e biologici. Si aspettavano di scoprire che i cibi biologici fossero superiori da un punto di vista nutrizionale. I risultati hanno rivelato una realtà diversa: ‘Nonostante la diffusa percezione che il cibo biologico sia migliore delle alternative tradizionali, non abbiamo trovato evidenza sufficiente a suffragare questa idea’”. Non solo. Nel suo lungo articolo Lomborg dimostra come sia fallace sostenere che i prodotti biologici facciano bene all’ambiente. Sebbene riconosca che, a parità di superficie, “le coltivazioni biologiche richiedano (…) meno energia, creino meno gas serra e azoto”, ricorda che per ottenere lo stesso prodotto necessitino di molto più spazio. “Un importante studio europeo ha scoperto che produrre latte biologicamente richiede il 59 per cento in più di spazio. Per produrre carne, ne serve l’82 per cento in più e per le coltivazioni ne serve oltre il 200 per cento in più. (…) Se la produzione agricola degli Stati Uniti fosse interamente biologica, significherebbe che una superficie più estesa della California andrebbe convertita in terreno agricolo. Per di più i cibi biologici sono anche responsabili di vari effetti nocivi sull’ambiente: circa il 10 per cento in più di diossido di azoto, ammoniaca, agenti acidi, e quasi il 50 per cento in più di azoto rilasciati nell’atmosfera”. Lomborg sfata anche il mito dell’assenza di pesticidi nelle coltivazioni biologiche, visto che fanno uso di: “solfato di rame, che l’università di Cornell definisce essere ‘altamente tossico per i pesci’, o piretrina, che è ‘estremamente tossica per i pesci’ e ‘altamente tossica per le api’”. I pesticidi chimici, spiega Lomborg, “negli Stati Uniti d’America potrebbero causare circa venti morti aggiuntive per cancro ogni anno”. Rendere biologica tutta l’agricoltura statunitense avrebbe anche altre conseguenze: “200 miliardi di dollari aggiuntivi all’anno di costi. Alcuni studi hanno dimostrato che quando un paese si impoverisce di 15 milioni di dollari, questo provoca statisticamente una morte in più: il costo di convertirsi interamente alle coltivazioni biologiche ucciderebbe 13.000 persone all’anno. Al di fuori degli Stati Uniti, le coltivazioni biologiche danneggerebbero le persone più povere della Terra, che hanno bisogno di cibo a buon mercato, cioè prodotto in maniera più efficiente”. Lomborg conclude lapidario: “Il cibo biologico non è meglio per la salute, è peggiore per il benessere del pianeta e terribile per i più poveri al mondo. Essenzialmente lo consumano le persone più ricche del mondo, che spendono soldi sostenendo pratiche agricole meno efficienti, per sentirsi meglio con se stessi. Una etichetta di cibo biologico dovrebbe provocare del sano scetticismo”.
Pubblicità, slogan slow e luoghi comuni vogliono convincerci che una volta il cibo era migliore e c’era più biodiversità. Balle. Servono ingegno umano e processi industriali per mangiare bene e tutti.

Vi prego, non vi arrabbiate. Vorrei provare a discutere due convinzioni. La prima: il cibo di una volta era migliore. La seconda: una volta c’era più biodiversità. No no, aspettate, non chiudete il giornale, non ho intenzione di provocare gli animi dei lettori, e poi, soprattutto, in fatto di cibo la penso come tutti: voglio mangiare bene e sempre, desidero che mangino tutti e voglio inquinare il meno possibile. Insomma, voglio tutto e con meno costi, quindi, appunto, la penso come tutti, scusate il bisticcio. Fate caso ad alcune pubblicità? Quelle del latte: un bonario contadino che munge a mano. Il latte bianco e puro che stilla come un’onda. Ora, osservate la successione dei vostri pensieri: munto a mano quindi naturale, naturale quindi pulito. Dunque, per associazione il latte di una volta – e le mungiture di una volta – era più sano. Naturalmente, chi detiene un po’ di conoscenza scientifica e zootecnica non gradisce molto quelle pubblicità. Questi tecnici vi diranno che il latte ottenuto con la mungitrice meccanica è più controllato, più sicuro, soprattutto protegge le mani al mungitore che tra l’altro sono rovinate dall’artrite e piene di calli. Ma rompere queste associazioni – naturale uguale buono, industriale invece è malsano – è estremamente difficile e controproducente.

Per essere precisi bisognerebbe raccontare la storia dall’inizio, per esempio, di quando Louis Pasteur, professore di Chimica a Lilla, presentò alcuni suoi esperimenti sull’inacidimento del vino e del latte, a un convegno tenutosi alla Sorbona. Era il 1864. Riteneva che i germi vivessero dovunque e fossero, altresì, i principali responsabili dei processi fermentativi. Con i suoi esperimenti, Pasteur dimostrò che i germi potevano essere eliminati mediante bollitura. Questa scoperta condusse all’attuale pastorizzazione del latte. Ora, appunto nell’immaginario pubblicitario, non capita quasi mai di vedere un impianto di pastorizzazione, con i suoi bellissimi e lucenti tubi d’acciaio ad angolo retto che permettono al latte pompato nel sistema, di rimescolarsi ogni volta che incontra l’angolo. In questo modo, il calore di pastorizzazione non si ferma in superficie ma interessa anche gli strati più profondi del liquido. Certo, sarebbe utile, oltreché bello, se le pubblicità rendessero di tanto in tanto omaggio oltre ai mungitori, anche a Pasteur. Perché la scoperta dell’acqua calda, contrariamente al noto proverbio, è stata, in realtà, un’importante conquista per l’umanità. Ma è difficile. Io stesso se fossi un pubblicitario avrei problemi a immaginare uno spot siffatto, poi chi li sente quelli di Slow Food? Il loro manifesto fondativo comincia così: “Questo secolo, nato e cresciuto sotto il segno della civiltà industriale, ha prima inventato la macchina e poi ne ha fatto il proprio modello di vita. La velocità è diventata la nostra catena, tutti siamo in preda allo stesso virus: la fast life”. Vedete? Questi sì che sanno parlare, evocano il Secolo, la Macchina, il Virus e io sto qui a parlarvi di Pasteur e degli impianti di mungitura industriali? Dai, non c’è partita. Eppure è importante conoscere alcune coordinate d’insieme. Capisco, l’equazione naturale buono vs macchina cattiva sgorga sì spontanea, ma è sbagliata, davvero. In genere per smontare la suddetta, noi tristi tecnici cerchiamo di spiegare che prima di tutto la natura non pensa a noi. Il melo non fa le mele per me. Non ci pensa proprio. Al massimo fa le mele affinché gli orsi mangiando il frutto disseminino i semi. Insomma, il melo fa le mele perché pensa a riprodursi. Secondo: la natura comprende tutto e non sta mai ferma, è frutto di interazioni incessanti, la natura detesta la staticità. Avete presente il cavolo? Quell’odore di zolfo? Anche quello è un pesticida.

La pianta ha cominciato a produrlo per difendersi da alcuni lepidotteri, e questi a loro volta hanno evoluto armi per depotenziare le sostanze tossiche. Ora con la genomica possiamo capire quanto tempo fa il cavolo ha cominciato a produrre zolfo. Allora, a proposito di naturale la domanda infame è: qual è allora il cavolo autentico? Quello con zolfo o senza zolfo? Non solo di cavoli si tratta, ma la natura produce pesticidi a iosa, altro che industria chimica. Lo dice anche Bruce Ames, biochimico e biologo americano: il 99,9 per cento dei pesticidi che ingeriamo con la dieta sono di origine naturale. Lo so, è difficile crederci. Allora, abbiate pazienza sono due righe tecniche: nicotina, caffeina, piretro, capsaicine, acido tetradecanoico (noce moscata), pulegone (menta piperita), carvacrolo o cimofenolo (origano, timo e crescione), eugenolo (noce moscata, basilico, chiodi di garofano), ecc ecc.

Proprio perché la natura comprende tutto, anche l’interazione tra insetti e cavoli, dobbiamo ammettere a maggior ragione, che noi sapiens siamo della partita. Eccome. Ogni periodo storico ha inventato la sua macchina tecnologica. Per esempio abbiamo modificato le piante, per renderle meno tossiche. E non solo per quello. I nostri progenitori erano veri ingegneri genetici, altro che multinazionali. Il mio professore di Genetica lo diceva sempre: siamo dei nani sulle spalle dei giganti. Esperimento mentale. Atterriamo su un altro pianeta, troviamo l’antenato dei cereali. Ha una differenza con il nostro grano. Perde la cariosside. A maturità il rachide (la spighetta che sostiene il seme) si rompe e il seme cade. E’ interesse della pianta, altrimenti come si riproduce? Ma noi siamo appena atterrati non ci va mica di piegarci e raccogliere i semi. Tuttavia, sappiamo, perché durante il viaggio abbiamo studiato, che c’è un gene mutato: impedisce la rottura del rachide, quindi il seme resta sulla pianta. La mutazione infatti è deleteria per la pianta, il seme non cade e non germina, ma non per la nostra schiena. Bene, che ci frega della pianta? Prendiamo questo gene e lo trasferiamo nelle altre piante, il gioco è fatto. Abbiamo reso il grano una pianta incapace di riprodursi senza il nostro intervento. Siamo biechi e ottusi scientisti? Fast oltretutto? In realtà il grano l’abbiamo modificato migliaia di anni fa, quando eravamo più slow e più natural, ebbene anche allora cercavano di costruire quelle macchine culturali e tecnologiche che ci portavano vantaggio. A quei tempi, qualcuno deve aver notato che c’erano piante che non perdevano il seme (con il gene mutato) e le ha selezionate. Quindi, sempre per tornare in tema di pubblicità, quando mostriamo le spighe al vento e le macine di pietra, vogliamo sottolineare l’elemento naturale/sano, magari delle vecchie spighe. Tuttavia dobbiamo essere precisi e coerenti, quelle che noi vediamo ondeggiare nei campi, sono spighe innaturali, costruite grazie a un artificio dell’uomo.

Se queste coordinate ora sono più chiare, possiamo affrontare la questione cibo di una volta. Ebbene, anche se noi ricordiamo con piacere il cibo della nostra infanzia – io alcune ciliegie mangiate sugli alberi, mio padre mi teneva sulle spalle – è bene sapere che siamo vittima di falsi ricordi. In passato la carne fresca era dura e maleodorante, la frutta aspra e immangiabile, le verdure fresche amare, il pesce puzzava, il latte diventava acido, le uova marcivano (ora le galline depongono un uovo al giorno per circa 200 giorni, prima un uovo al mese e per pochi mesi) e le malattie una costante. Esempio. Alla mia nascita ci fu una discussione tra parenti, l’oggetto era il seguente: deve essere devoto a Sant’Antonio Abate o Sant’Antonio da Padova? Il lato contadino spingeva per Sant’Antonio Abate, quello più borghese per Padova. Il conflitto riguardava, in realtà, il potere di guarigione. Sant’Antonio Abate, infatti, pare avesse potere sul fuoco sacro. Oggi per fuoco sacro intendiamo una forma di varicella, causata dall’herpes zoster, ma per un lungo periodo, dal Medioevo fino ai primi del Novecento, ci si riferiva a una malattia molto seria, spesso endemica nelle campagne: l’ergotismo. Un cronista del 1089, Sigiberto di Gembloux così la descrive: “A molti le carni cadevano a brani, come se li bruciasse un fuoco sacro che divorava le loro viscere. Le membra a poco a poco rose dal male diventavano nere come il carbone. Morivano rapidamente tra atroci sofferenze, oppure continuavano, privi di piedi e delle mani, un’esistenza peggiore della morte”. Il responsabile di tutto questo è un fungo, la Claviceps purpurea, che ha la spiacevole tendenza a parassitare i cereali, tra cui la segale. Qui produce diverse tossine, una, la più dannosa, è l’ergotina. Chi si nutre di segale contaminata può andare soggetto a vari problemi noti, appunto, sotto il nome di ergotismo. La malattia (dipende dalla quantità di tossine ingerite) può assumere forme convulsive (allucinazioni, convulsioni, mancanza di riflessi) e cancerose (dolori, gonfiori, bruciori e nelle forme acute arresto della circolazione sanguigna e cancrena degli arti che possono anche staccarsi). Che c’entra Sant’Antonio Abate, il santo eremita che visse in Egitto tra il III e IV secolo? C’entra eccome. La malattia era diffusa soprattutto nel nord Europa (Francia, Valle del Reno, Belgio, Olanda, Russia, Inghilterra). Ebbene, nel secolo XI d.C. i seguaci di Sant’Antonio Abate costituirono un ordine religioso, l’Ordine ospedaliero degli Antoniani, che molto si prodigò per la cura dei malati di ergotismo. Allevavano i maiali e usavano il lardo come lenimento per i gonfiori (Sant’Antonio Abate è ritratto nelle immagini votive con accanto un maialino). In tanti cominciarono a frequentare questi monasteri, ubicati in Italia e in Francia meridionale e così facendo cambiavano anche alimentazione, passavano cioè dalla segale al grano e insomma miglioravano. Nulla si sapeva del fungo che infettava la segale, finché nel 1853 il micologo francese Tulasne riuscì a capire l’eziologia della malattia. Dunque si cominciò a prestare molta più attenzione alla sicurezza alimentare e poi la segala fu man mano sostituita con la patata e così i miracoli di Sant’Antonio Abate furono meno apprezzati e Sant’Antonio da Padova acquistò più potere su molte questioni – ecco perché i miei parenti scelsero Sant’Antonio da Padova.

Bene, se questo era il passato, dobbiamo ammettere che il cibo moderno è migliore di quello del passato e questo grazie al contributo dell’agricoltura moderna: agrofarmaci, miglioramento genetico, meccanizzazione. Lo so, non siete convinti, ritenete che sì certo oggi viviamo in regime di risorse abbondanti, e meno male, perché sempre a tavola finiamo, ma il cibo moderno è pieno di ambiguità: sofisticato, omologato, standardizzato, industrializzato. Allora, e solo a mo’ di esempio, la butto giù dura: sono a favore delle conserve di pomodoro industriali. Oggi possiamo acquistare un’ottima passata di pomodoro italiano con solo un euro. Perché possiamo controllare l’umidità del terreno con dei sensori e quindi stabilire quanta acqua è necessaria alla coltura, e successivamente con l’irrigazione a goccia dare la giusta quantità d’acqua. Perché possiamo raccogliere i pomodori al momento giusto, né troppo verdi, né troppo maturi: vengono infatti coltivati specifici pomodori (frutto del miglioramento genetico) che maturano nello stesso momento. Si sceglie insieme ai trasformatori la data di messa a coltura della piantina di pomodoro, e dopo 14/16 settimane inizia la raccolta. Meno costi più efficienza, meno pomodori immaturi o troppo maturi. E riusciamo a usare meno calore nella trasformazione, così si risparmia energia e soprattutto non si altera il sapore. Non siamo convinti? Ci piacciono le conserve fatte in casa e tutto il rituale delle nostre nonne? Però se spendiamo di più per una conserva artigianale è perché esiste un sistema industriale che fa girare l’economia, abbassando i costi, cioè, le chicche alimentari, i prodotti pregiati, sono figli di un sistema agroindustriale moderno. Altrimenti non potevamo permettercelo. Abbiamo perso la biodiversità? Sempre gli stessi prodotti? Ma anche qui è un problema di coordinate. Le indagini genetiche ci dicono che in realtà nel passato chiamavamo con nomi differenti le stesse varietà. Questo pregiudizio verso il presente è deleterio: pochi di noi sanno, rimanendo ai pomodori, che esistono 75 mila varietà di pomodoro, create ex novo dall’uomo. Possiamo mangiare datterini e ciliegini e pomodori da insalata e da riso, da aperitivi, e appunto da conserve. Pomodori che crescono tutto l’anno e pomodori che richiedono meno agrofarmaci e meno acqua e durano di più dopo la raccolta. E poi ultimo non bisogna dimenticare che a differenza di un tempo conserviamo e soprattutto riusciamo a mantenere vitali tutte le sementi di vecchie varietà dismesse. Non voglio dire che non esistono costi e tutto va bene, anzi, tuttavia insisto: con un vecchio e falso immaginario e senza innovazioni e studio, questi costi non li affrontiamo. Cioè ne parliamo e ci arrabbiamo ma per sentito dire, e uno dei problemi, non solo dell’agricoltura italiana, ma della modernità, è proprio il sentito dire. Su questo siamo d’accordo, no?