Henry Stephens Salt

Da Sotto le querce.
Henry Stephens Salt (India, 20 settembre 1851 – Surrey, 19 aprile 1939) è stato un attivista e saggista inglese.
Henry Stephens Salt (India, 20 settembre 1851 – Surrey, 19 aprile 1939) è stato un attivista e saggista inglese.

L'etica vegetariana

1914

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incipitAlcuni anni fa, in un articolo intitolato Nuovo Nutrimento Cercasi, lo «Spectator» lamentava il fatto che l’approvvigionamento alimentare attualmente è adatto «non all’uomo civilizzato da scuole di cucina, ma a una razza di scimmie che si nutrono di frutta». Introduciamo banane, ananas, fichi, mele granate e una quantità di nuovi frutti, ma quello che serve realmente è «qualche nuovo e grosso animale, qualcosa che possa combinare il sapore della selvaggina con la sostanziosa solidità di una coscia di montone». Congetturando che deve esistere «qualche quadrupede finora trascurato che può fornire ciò che cerchiamo», lo «Spectator» procedeva a effettuare un ansioso inventario delle risorse mondiali, sottoponendo a turno i roditori, i pachidermi e i ruminanti a un accurato esame, nel corso del quale venivano coscienziosamente discusse persino le credenziali dei facoceri. Alla fine sono stati i ruminanti a vincere la competizione e la scelta è caduta sull’antilope, che è stata investita dell’elevato incarico di fornire nuova carne per l’uomo «civilizzato».
incipitAlcuni anni fa, in un articolo intitolato Nuovo Nutrimento Cercasi, lo «Spectator» lamentava il fatto che l’approvvigionamento alimentare attualmente è adatto «non all’uomo civilizzato da scuole di cucina, ma a una razza di scimmie che si nutrono di frutta». Introduciamo banane, ananas, fichi, mele granate e una quantità di nuovi frutti, ma quello che serve realmente è «qualche nuovo e grosso animale, qualcosa che possa combinare il sapore della selvaggina con la sostanziosa solidità di una coscia di montone». Congetturando che deve esistere «qualche quadrupede finora trascurato che può fornire ciò che cerchiamo», lo «Spectator» procedeva a effettuare un ansioso inventario delle risorse mondiali, sottoponendo a turno i roditori, i pachidermi e i ruminanti a un accurato esame, nel corso del quale venivano coscienziosamente discusse persino le credenziali dei facoceri. Alla fine sono stati i ruminanti a vincere la competizione e la scelta è caduta sull’antilope, che è stata investita dell’elevato incarico di fornire nuova carne per l’uomo «civilizzato».

Non rientra nelle mie intenzioni discutere nel dettaglio la possibilità di una dieta vegetariana; e non c’è nemmeno necessità di farlo. Ce ne sono prove ovunque: nella storia delle razze, nelle regole degli ordini monastici, nelle abitudini di un gran numero di popolazioni lavoratrici, nelle biografie di uomini famosi, nei fatti e negli esempi della vita quotidiana. Il punto di vista medico sul vegetarianismo, che all’inizio (come nel caso simile dell’astinenza completa dalle bevande alcoliche) veniva espresso con un decisamente negativo e minaccioso scuotimento del capo, è largamente cambiato nel corso degli ultimi dieci o venti anni e, pur rimanendo sostanzialmente ostile, insiste più sulla superiorità della dieta «mista» che sull’insufficienza dell’altra, mentre i solenni avvertimenti che venivano diretti all’avventuroso individuo che aveva l’ardire di smettere di mangiare i propri simili ormai si sono trasformati in affermazioni più generiche a proposito del fallimento del vegetarianismo a lungo termine, e su più larga scala. Be’, sappiamo cosa significa. È quello che è stato detto di ogni movimento vitale apparso a questo mondo. Significa che la gente comune, e gli ottusi, e le persone istruite, e gli specialisti, hanno bisogno di tempo per guardare in faccia nuove verità; ma le accettano, prima o poi. In pratica, la preferenza della classe medica per una dieta carnivora può essere sintetizzata in due punti: che la carne è più digeribile, più facilmente assimilabile delle verdure, e che è sciocco limitare le fonti di cibo che (per citare Sir Henry Thompson) «la natura ci ha abbondantemente fornito».


Un fattore importante nel successo di un cambiamento di dieta è lo spirito con cui si intraprende questo cambio. Per quanto concerne la mera struttura chimica del cibo, la maggior parte delle persone può senza dubbio, con una normale oculatezza nell’attuazione del cambiamento, sostituire senza inconvenienti un regime alimentare vegetariano a una dieta «mista». In alcuni casi, tuttavia, a causa forse del temperamento dell’individuo, o alla natura dell’ambiente in cui vive, il cambiamento presenta difficoltà molto maggiori; e qui assume un’importanza fondamentale la differenza tra chi è spinto da un sincero desiderio di fare il primo passo verso una dieta più umana e chi sta semplicemente sperimentando per curiosità o per qualche altro banale motivo. Si tratta di un’altra prova del fatto che la base morale del vegetarianismo è quella che sorregge tutto il resto.


Non è mia intenzione lanciare un appello esagerato o fantasioso al vegetarianismo. Esso non è, come ha asserito qualcuno, una «panacea» per i mali umani; è qualcosa di molto più razionale – una parte essenziale del moderno movimento umanitario, il quale non può compiere un vero progresso senza di esso. Il vegetarianismo è la dieta del futuro, come il cibo a base di carne è la dieta del passato. Da quello stridente e comune contrasto di un negozio di frutta accanto alla bottega di un macellaio, possiamo trarre la più significativa delle lezioni oggettive. Da un lato, c’è la barbarie di un’usanza brutale – le carcasse decapitate, irrigidite in una spaventosa sembianza di vita, i tagli di carne per arrosto, le bistecche e gli spezzatini col loro odore nauseabondo, lo stridulo cigolio della sega per le ossa e i colpi sordi della mannaia – una perpetua protesta urlante contro gli orrori del mangiare carne. E, come se questa non fosse una testimonianza sufficiente, lì, a stretto contatto, c’è una profusione di frutta dorata, una vista che farebbe la gioia di un poeta, l’unico cibo interamente congeniale alla struttura fisica e agli istinti naturali dell’umanità, che può interamente soddisfare le più alte aspirazioni umane. È ancora possibile dubitare, dopo avere osservato un simile contrasto, che, per quanti passi intermedi sarà necessario compiere gradualmente, per quante difficoltà dovremo superare, il cammino del progresso dalla barbarie a una dieta veramente umana si apre chiaro e inequivocabile davanti a noi?


È documentato, con l’innegabile autenticità di un resoconto ufficiale parlamentare (7 marzo 1883), che quando Sir Herbert Maxwell sostenne in Parlamento che per un «blue rock» [particolare specie di tordo che prende il nome dal colore del piumaggio degli esemplari maschi, ndt] è preferibile essere preso a fucilate per sport che non esistere per niente, Mr. W.E. Forster replicò ironicamente che quello che dobbiamo prendere in considerazione non è un tordo prima della sua esistenza, ma un tordo esistente. Questa, in sintesi, è la chiave dell’intera questione. L’errore risiede nella confusione del pensiero che tenta di paragonare esistenza a non-esistenza. Una persona che esiste già può avere coscienza del fatto che avrebbe anche potuto non vivere, ma deve avere la terra firma dell’esistenza su cui basare le proprie argomentazioni; nel momento in cui comincia a fare ipotesi dagli abissi del non-esistente dice assurdità, predicando il bene o il male, la felicità o l’infelicità di qualcosa su cui non possiamo predicare nulla.

Quindi, quando parliamo di «mettere al mondo un essere», secondo la vaga espressione che viene usata in questi casi, non possiamo pretendere da quell’essere alcuna gratitudine per la nostra azione, o concludere con lui un affare, particolarmente meschino per giunta, in considerazione di essa; né possiamo ritenerci autorizzati a eludere i nostri doveri verso di lui grazie a un simile cavillo, nel quale è evidentemente il desiderio a generare il ragionamento. E neppure, a questo proposito, è necessario addentrarsi nella questione dell’esistenza prenatale, dal momento che, se ci fosse una simile esistenza, non abbiamo nessuna ragione di dare per scontato che sia meno felice di quella presente; e così allo stesso modo l’argomentazione viene a cadere. È assurdo paragonare una presunta pre-esistenza, o non-esistenza, alla vita reale individuale della quale abbiamo esperienza quotidiana. Tutti i ragionamenti basati su questo paragone devono necessariamente essere falsi, e porteranno a grottesche conclusioni.


Da qualsiasi punto di vista lo si consideri, questo sofisma risulta ugualmente privo di significato. Perché, anche mettendo da parte la pecca filosofica che lo vizia, permane la considerazione pratica che un numero enormemente maggiore di esseri umani potrebbe essere nutrito in un territorio coltivato a grano e frutta rispetto a uno in cui si allevano armenti; quindi, se un’area più estesa dell’Inghilterra fosse dedicata all’allevamento del «bestiame», in realtà potremmo veder diminuire gli esseri umani a vantaggio di un maggior numero di buoi e montoni; vale a dire, potremmo incrementare l’esistenza di livello più basso a spese di quella più elevata. Vale anche la pena di notare che la vita degli animali destinati al macello è di qualità di gran lunga inferiore rispetto a come potrebbe essere se gli stessi animali vivessero allo stato completamente brado o fossero addomesticati per qualche scopo ragionevole grazie all’amichevole associazione con l’uomo; il fatto stesso che un animale verrà mangiato sembra escluderlo dalla categoria degli esseri intelligenti e fa in modo che venga considerato puro e semplice «cibo» animato. «Mantenere un uomo, schiavo o persona di servizio che sia», dice Edward Carpenter, «è esclusivamente per il proprio vantaggio, mantenere un animale che potresti mangiare è una menzogna; non puoi guardare quell’animale in faccia».


Ma smettiamola con questi cavilli! Il vegetarianismo salverebbe gli animali reali, che sono venuti realmente al mondo, dalla reale sofferenza che è inseparabile dal trasporto del bestiame e dal mattatoio; e se la sua unica mancanza di umanità è rappresentata dal fatto che incrementa le razze non esistenti non preoccupandosi di farle nascere, può accettare questa accusa con equanimità. Se c’è stata qualche scortesia, o qualche mancanza di gentilezza nel fatto di non allevare animali, l’enormità del nostro peccato di omissione sarebbe superiore a quanto la coscienza umana è disposta a sopportare, dal momento che il numero dei non nati è illimitato, e ascendere al trono attraverso la carneficina, e «chiudere le porte della compassione all’umanità» sarebbe un’inezia in confronto a questa spietata chiusura delle porte della vita al povero, trascurato non-esistente!