Domenica 24 - Necessità della foresta inutile

Da Sotto le querce.

Roberto Casati

5 giugno 2016

Come molte altre cose in natura, l’«arctium» o le zanzare ci paiono non valere nulla, anzi sono dannose. Ma è proprio così?

Savinio oggetti foresta.jpg

Oggetti nella foresta. Alberto Savinio, 1927.

Quanto vale un fiore - ovvero, in genere, quanto vale una specie vegetale o animale? Quanto vale la natura? Quanto vale la foresta di Fontainebleau? E come facciamo a deciderlo? Per esempio, quanto vale l’infiorescenza della bardana (arctium)? Quella noiosa pallina che resta attaccata ai vestiti in passeggiata. Potremmo anche stabilire che non vale nulla, senza troppo curarci degli equilibri dell’ecosistema e di altre proprietà difficili da descrivere, misurare, valorizzare. L’argomento: non varrebbe nulla o quasi perché non ci si fa nulla o quasi. Ma questo discorso non farebbe i conti con l’immaginazione dell’ingegnere svizzero Georges de Mestral (1907-1990), che ch nel nel 1941, durante una passeggiata con il suo cane, osservò che ci si poteva ispirare alla bardana per farne un sostituto della cerniera lampo, e a capo di qualche anno brevettò il velcro (contrazione di velour-crochet, ovvero velluto-gancino). Negli anni il velcro ha dato e continua a dare lavoro a migliaia di persone, generato miliardi di euro di ricchezza, e soprattutto semplificato la vita di milioni di altre persone che lo usano quotidianamente per unire e staccare facilmente tessuti e oggetti (un numero sterminato di componenti delle server farm di Google son tenuti assieme dal velcro, il che rende più veloce la sostituzione).

La storia dell’arctium andrebbe tenuta presente in tutte le discussioni sul valore da dare alla natura. Se pure accettiamo in linea di principio che si possa modernizzare l’ambiente, ci troviamo poi quasi sempre dinanzi a un muro di ignoranza colossale, che ci impedisce di fare bene i conti: come facciamo a calcolare se non sappiamo minimamente quali siano gli “usi” possibili di una specie naturale, se molti verranno scoperti un domani per caso, e molti altri rimarranno per sempre ignoti (alcuni di questi, se venissero individuati, cambierebbero per sempre la condizione umana)?

Inoltre il velcro è interessantissimo perché la sua storia annienta il modello concettuale della “natura come giacimento”. Secondo il modello del giacimento, la natura è soprattutto un vasto deposito di sostanze che hanno o che potrebbero trovare un qualche utilizzo. Ieri miele e petrolio, domani qualche molecola nascosta nel profondo della giungla amazzonica, capace di guarire il cancro (tanto per dire). Se dobbiamo preservare la biodiversità, si dice, è perché non vogliamo privarci di questo formidabile magazzino biologico. Ma l’arctium/velcro non appartiene a questa categoria. Nel suo caso, la natura è stata una fonte non di materie prime o semilavorati, ma di ispirazione per un design; una musa, diremmo. Anche le zanzare nel loro piccolo possono ispirare grandi visioni: quantomeno quella di Rodney Brooks, che stupito dal modo in cui quello sparuto stuolo di neuroni potesse dirigere in modo così efficiente ali e zampette in decolli, atterraggi e volo sur place, si mise a ripensare i fondamenti della robotica e produsse Allen, il primo robot sprovvisto di un supercontrollore centrale; l'instancabile Roomba che aspira la polvere in milioni di case ne è un discendente diretto.

Uno degli argomenti chiave contro la monetizzazione della natura è che – notoriamente – l’occasione fa l’uomo ladro, anzi, predatore. Se si decidesse che il valore della foresta di Fontainebleau è di quaranta miliardi di euro, prima o poi qualcuno troverà che sia una buona idea venderla (“cartolarizzarla”). Poi si possono anche proporre dei disincentivi, come per esempio ancorare la compensazione monetaria allo statuto del predatore, in modo progressivo: se sei un magnate della finanza, il danno ecologico, o l’acquisto di una riserva naturale, ti costerà molto di più, in proporzione alla tua ricchezza. Ma l’impressione è con questo tipo di proposte si stiano chiudendo le porte della stalla quando i buoi sono già scappati.

Chi difende la monetizzazione sostiene che non misurare significa non vedere affatto il valore, e in buona sostanza porta a svalutare. In un mondo in cui tutto è potenzialmente oggetto di scambio, l’unico modo di vedere gli oggetti sarebbe di stabilire il loro prezzo. Non valutata, la natura diventerebbe invisibile. Ma qui il problema non è l’invisibilità della natura, quanto l’uso di occhiali monetari per vedere il mondo. Possiamo allora anche accettare la sfida, ovvero piegarci alla necessità di misurare il valore della natura, posto che prendiamo sul serio una discussione sul valore in genere, e non ci limitiamo a usare il denaro come metro. Il caso dell’arctium/velcro dovrebbe aiutarci ancora una volta, spingerci a guardare oltre il concetto di giacimento che è legato a doppio filo alla semplicistica monetizzazione.

Propongo di fare una piccola digressione che non sembrerà in prima battuta particolarmente rilevante. Secondo Alessandro Pignocchi, filosofo, naturalista e illustratore, le scienze cognitive ci offrono uno spunto importante. Siamo abitati da molti cervelli: visivo, linguistico, motorio. Il nostro cervello sociale ha una componente che è costantemente alla ricerca di indici che rivelino le altrui intenzioni e ci permettano di prevedere e influenzare il comportamento dei nostri consimili. È un cervello che calcola in modo sottile usando gli elementi del contesto. In una stanza affollata mi rivolgo a una persona vicino alla finestra e dico «Fa veramente caldo». Lei capisce che voglio dire «Apri la finestra», anche se io non ho mai pronunciato quelle parole. L’attività incessante e automatica di questo cervello “griceano” (dal filosofo Paul Grice, che ha sviluppato una teoria del significato basata sulla ricostruzione delle intenzioni del locutore; si veda il libro di Filippo Domaneschi e Carlo Penco Come non detto, recensito il 21 febbraio scorso da Carola Barbero) si estende dalle persone alle loro produzioni, agli artefatti. Guardando un oggetto non naturale non possiamo fare a meno di chiederci a che cosa serve e come funziona, e il calcolo mentale della risposta fa tappa obbligata sulla ricostruzione delle intenzioni di chi ha fabbricato questo oggetto. Il cervello griceano lavora in modo incosciente e frenetico, posto che sia attivato da uno stimolo adeguato: un volto, una parola, una chiave, un mazzo di chiavi fuori posto.

Dov’è il collegamento con la natura e il suo valore? Qui viene il punto interessante dell’argomento di Pignocchi. Al limite qualcuno potrebbe anche suggerire di creare fiori meccanici molto più belli e complicati di quelli oggi esistenti, e usarli per decorare i balconi della lottizzazione che un giorno prenderà il posto della foresta di Fontainebleau, senza contare che i fiori meccanici creeranno posti di lavoro, generando proventi persino superiori a quelli del giacimento forestale: e chi vorrebbe di più.

Ma si tratterebbe di un mondo completamente artificiale: l’imitazione della natura non è natura, e il nostro cervello sarebbe sempre in movimento alla ricerca delle intenzioni dell’imitatore: «a che cosa serve? Chi l’ha fatto? Perché?» Gli ambienti non antropizzati o debolmente antropizzati, conclude Pignocchi, sono necessari al nostro riposo; non fisico, ma mentale.
Una natura intatta, una natura che non serve a niente, è la condizione di sopravvivenza del cervello sociale; fintantoché il nostro cervello resterà quello che è, dovremo tenerci stretta una foresta inutile.