Domenica 24 - Il giardino dei fiori selvaggi

Da Sotto le querce.

Pia Pera

17 giugno 2012

Può un'utopia tenersi su toni sommessi? Jorn de Précy, islandese di origine bretone, ci ha provato un secolo fa con un piccolo libro pubblicato nel 1912, a sue spese e in soli duemila esemplari. Aveva all'epoca 75 anni; dopo un lungo vagabondare si era stabilito nell'amato giardino di Greystone, nell'Oxforshire. The Lost Garden, suo testamento estetico, prese a circolare quasi clandestino tra pochi eletti, lanciando semi di idee maturate nel corso dell'Ottocento. Si sarebbero affermate fecondando il pensiero di Gertrude Jekyll, Russel Page, Roberto Burle Marx, fino a Bob Dylan che lo ricorda nella ballata Jorn's wildflowers. Anche i Goncourt restarono colpiti dal giovane islandese dallo sguardo assente, perso in un suo sogno astruso ma capace di commuoversi davanti a una rosa appena sbocciata. Chissà se si resero conto di avere davanti il profeta di una nuova sensibilità. Quella di chi soffre nel vedere i giardini trattati in spirito utilitaristico alla stregua di meri strumenti ricreativi, risorse salutistiche o turistiche. Mentre il giardino deriva il suo fascino dalla gioia che ispira, dall'abbondanza di vita che racchiude, dalla bellezza benefica che lo pervade, da qualcosa insomma di spirituale e libero a un tempo. Una qualità impalpabile che va persa in certi restauri troppo accademici, in parchi sterilizzati dall'eccesso di ordine imposto all'esuberanza con cui la natura scompiglia ogni nostro disegno.

È la tragedia del giardino oggetto. Non disperiamo: uno spettro si è intrufolato nel mondo rispettabile del giardino borghese, osserva de Précy echeggiando il celebre incipit di tutt'altro manifesto. Le avvisaglie non sono mancate, da quando John Keats ha celebrato i fiori di campo preferendoli a quelli esotici e di serra, mentre John Ruskin e William Morris infondevano nuova passione per la natura. Ricostruire le influenze su e di Jorn de Précy significa ripercorrere il filo di un dissenso schivo e visionario. Perché l'islandese considera il giardino l'unico luogo in cui sia ancora realizzabile il sogno di una relazione armoniosa tra uomo e natura: se gli uomini cominceranno a considerarsi prima di tutto giardinieri, vedremo una umanità finalmente pacificata intenta a prendersi cura della vita in questo grande spazio chiamato Terra. Non di religione si tratta, ma di ritrovare quella fiducia sorgiva che è condizione necessaria ad aprirsi alla magia del giardino. Dalla sua infanzia tra le nuvole dell'Atlantico, lontano dall'Europa civilizzata, de Precy conserva il ricordo di vecchi che gli insegnavano a riconoscere in ogni roccia uno spirito, nel lichene la traccia di un linguaggio superiore, in ogni vulcano la dimora di una divinità. Tanta ingenuità permetteva loro di sentirsi parte di un universo stabile, bello, rassicurante. Di restare un poco bambini.

Credendo magari che Jorn de Précy sia davvero esistito, mentre si tratta del personaggio dietro cui civetta amabilmente, mascherato prima da traduttore dell'edizione francese, e adesso da curatore di quella italiana, Marco Martella. Ne conosciamo già la raffinata rivista «Jardins». Perché inventare adesso un profeta mai esistito? Forse per suggerire che certe idee poi cristallizzate in formule di successo, come giardino in movimento o giardino planetario, permacoltura o non azione, giardino naturale e orto sinergico, erano nell'aria da tempo, sono la creazione polifonica degli ultimi due secoli almeno, e nessuno può davvero rivendicarne la paternità, nessuno può dirsene l'unico Omero. Ed ecco il titolo Le jardin perdu, dove smarriti sono l'anima e il sacro insieme alla leggerezza e al gioco.

Guido Giubbini, Storie di giardini 2 voll. (AdArte, 2013).

Anche Guido Giubbini, rifacendosi al semiologo russo Dmitrij Lichacev, deplora in Storie di giardini la scomparsa, nei giardini moderni, della capacità di trasmettere insegnamenti e ispirare emozioni: belli senz'anima. Perché da sole ricchezza botanica - bene che vada - e abilità architettonica non bastano a trasmettere quel «non so che» cui il giardino deve la sua inclusione nella storia dell'arte. Voce fuori dal coro, controcorrente sulle pagine della rivista «Rosanova», Giubbini ha scritto una storia del giardino che dall'antichità e dall'Islam arriva, in questo primo volume, fino al Settecento. Il suo è un libro di pensiero, ma anche un buon compagno di viaggio: pochi resisteranno alla tentazione, a Isfahan, del seicentesco ponte Khwaju, luogo più di delizie che passerella d'attraversamento, o del cipresso di Abarkuh, millenario già al tempo di Ciro. Parte dall'albero inteso come simbolo del giardino, Giubbini, e dall'oasi nel deserto come Urgarten, per sfatare luoghi comuni, come il mito del quadripartito chaharbagh.

Certo, se ne vedono anche così, specie in Marocco, ma la vera novità del giardino islamico è la struttura aperta e assiale incentrata sul percorso dell'acqua. Appassionanti le metamorfosi del tema acquatico, come nella complessa vicenda per cui Villa d'Este, complice la famiglia valenciana dei Borgia, attinge al modello del Generalife, erede a sua volta di Villa Adriana, prototipo di giardino basato sull'acqua che da Roma arriva all'Islam, e dalla Spagna riconquistata torna in Europa ispirando il giardino aperto del Rinascimento: ulteriore esempio di come la cultura araba sia servita da tramite con l'antichità classica. Ma anche una pagina di storia dell'idea di giardino che ci fa tremare al pensiero di come i bei luoghi testimoni di questa complessa vicenda non siano ancora del tutto al riparo dal rischio di ridursi a teatro di una discarica.

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